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Andrea Arnoldi E Il Peso Del Corpo – Le Cose Vanno Usate Le Persone Vanno Amate

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È, pare, un disco sulla morte, questo Le Cose Vanno Usate Le Persone Vanno Amate dello stralunato Andrea Arnoldi, accompagnato da tutta una serie di musicisti che va sotto il nome de Il Peso Del Corpo. Ma questo suo status di concept escatologico potrebbe sviare l’attenzione, potrebbe confondere e dare un’idea sbagliata: Le Cose Vanno Usate ecc. è un disco di cantautorato leggero (e non per questo senz’anima, anzi), canzoni d’arpeggi lievi di chitarra acustica affondate in atmosfere cangianti fatte di strumenti vari e curiosi, archi, theremin, organetti, fiati, sitar, campane. Una scrittura che sa essere impalpabile e piena di grazia, disposta a farsi indietro per dare spazio agli arrangiamenti, vero gioiello di questo disco che si espande e si gonfia in code e introduzioni oniriche, celesti, su armonie comode ma prendendo strade anche poco battute nel folto selvatico di volumi contenuti e rigoglio sonoro, ricco di timbriche originali e sognanti. La scrittura di Andrea Arnoldi è sommessa e gentile, si muove per scarti sottili, evanescenti (“tu risplendi come i melograni / e hai rami al posto delle mani / io sono vuoto come un cruciverba / e sulla testa mi cresce l’erba”, da “Àncora”; “E quanti anni abbiamo adesso / e dove siamo? / Ne avete quasi mille / e siete biologia”, da “L’Ortica”; “e per ringiovanire recatevi in un campo / scavatevi una fossa, sdraiatevici dentro / davvero è poca cosa ma del vostro triste corpo / si nutrirà una rosa / e questo, che io sappia / è il solo scudo contro l’aldilà”, da “Ringiovanimento”). Una poetica delle leggerezza, del peso nascosto e alleggerito, sussurrato, in equilibrio. Unica pecca la voce, poco incisiva, con un timbro che a volte stride, ma che, bisogna riconoscerlo, è stata adattata il più possibile al mood etereo del disco. È un disco da scoprire e riscoprire, sperando che non passi senza lasciare traccia, sperando che rimanga nell’aria il tempo di farlo penetrare nelle orecchie e nella testa come l’acqua che filtra nella terra o come la luce che ci bagna le retine sotto le palpebre chiuse in un giorno di sole. “Non voglio perdere la meraviglia / di amar qualcosa che non mi somiglia”.

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Fabi Silvestri Gazzè – Il Padrone della Festa

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Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e Max Gazzè insieme per un album corale, in parte scritto a sei mani e in parte fatto di apporti personali dei tre cantautori della scuola romana. Apprendo la notizia sul web ad aprile dello scorso anno, a ridosso dell’uscita del primo singolo estratto, “Life is Sweet”. Un banner pubblicitario lampeggia sulla pagina web, sono mio malgrado alla ricerca di una macchina nuova e non c’è modo di sfuggire agli algoritmi della rete, e accanto all’articolo l’ironia della sorte ha appiccicato un annuncio che recita “usato garantito”. Sono in molti a dire che l’arrivo di un lavoro corale fosse prevedibile e alcuni lo auspicavano da tempo. A metà settembre, la release ufficiale de Il Padrone della Festa. È inequivocabile sin dal primissimo ascolto che il succitato padrone qui è Fabi. Tra le dodici tracce individuo i brani di Max Gazzè con un pizzico di fatica in più di quella che avevo preventivato. Il suo sound ironico fa capolino solo in “Arsenico”, giustapposizione di fiati e liriche sottili, dopo tre brani sufficienti a sancire il ruolo di deus ex machina di Niccolò. Non si discute l’eccelsa fattura del prodotto finale. Esecuzione raffinata e cura puntuale nelle registrazioni sono garantite da un esercito scelto di musicisti, tra cui Roberto Angelini e Adriano Viterbini solo per citarne un paio, oltre che ovviamente dall’esperienza dei tre generali. Ciò nonostante resto perplessa sulle dichiarazioni del trio sulla natura ludica e spontanea dell’esperimento. Il Padrone della Festa ha piuttosto l’aspetto di un’esca da lanciare nei palasport, non di un divertente e sperimentale mescolarsi. Eppure in passato li avevamo visti collaborare fruttuosamente (indimenticabile “Vento d’Estate” di Fabi e Gazzè, raro caso di pop contagioso e al contempo raffinato) o guidarsi vicendevolmente l’uno nelle fatiche dell’altro senza contaminarne la natura. Li ritroviamo ora miscelati in un modo che finisce per appiattire le peculiarità di ognuno, quei dettagli che pur gravitando nello stesso circuito li avevano sempre piacevolmente contraddistinti. Inevitabile è perciò che questo “usato garantito” che i tre propongono oggi suoni meno potente se paragonato agli episodi del passato di ognuno dei tre. Sì, insomma, sono un po’ incazzata, perché penso che con qualche sforzo in più e qualche sold out in meno ora io avrei tre ottimi dischi da ascoltare mentre invece me ne ritrovo uno soltanto con cui devo anche in qualche modo tentare di far pace, ed anche che dopo il successo del tour in Italia e in Europa la situazione appaia ormai consolidata e dovrò probabilmente accontentarmi di metter su “Lo Spigolo Tondo” quando avrò voglia della vocazione gitana di Silvestri, di “Canzone di Anna” come condensato degli arrangiamenti orchestrali di cui Fabi è capace, e accenderò un cero a “Il Dio delle Piccole Cose” pregandolo di concedermi a breve un Max nella sua forma migliore, tutto intero.

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Emiliano Mazzoni – Cosa Ti Sciupa

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Un bel mood quello creato da Emiliano Mazzoni nel suo ultimo Cosa Ti Sciupa, domanda senza punto interrogativo che è rovello interiore sulla scomparsa della bellezza (della “splendenza”, come dice lui). È un mood di pianoforti, fisarmoniche, elettriche distanti, batterie, una voce sghemba che tortura accenti e metriche però poi sa appoggiarsi ad immagini (anzi, visioni) di allucinata potenza (“Ci spogliammo come due trionfi sull’altopiano”, da “Ma Perché Te Ne Vai”) mentre si raccontano storie d’amore carnale e spirituale, abbandoni, viaggi, panorami antropomorfi. È un mood raccolto, che più è raccolto e più funziona: “Un’Altra Fuga” con la sua corta coda strumentale che è già da sé un racconto, o “Ragazza Aria”, fatta di scambi di chitarre ventose e pianoforti gocciolanti, che poi entra un’armonica e tutto sta dove deve stare. Le batterie più dritte (la marcetta di “Canzone di Bellezza”), le filastrocche scanzonate (“Hey Boy”), le atmosfere più sixties (“Nell’Aria C’Era Un Forte Odore”) spezzano qui e là la concentrazione, ma non è detto che sia un male. Anzi. Emiliano Mazzoni è un cantastorie da pianoforte, con le mani sui tasti bianchi e neri e i piedi scalzi nell’erba della montagna (o così almeno lo immagino io); è notturno e selvatico, c’è del vento e ci sono ombre di alberi dentro le sue canzoni, ci sono pelle e terra (che poi sono la stessa cosa) e qualche, intensa, mancanza. Si stacca con leggiadria dalla sfilza di cantautori col chitarrino da quattro accordi per volare nella luce netta di un tramonto boscoso dal peregrinare meno ovvio, e meno male.

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The Heart and the Void – A Softer Skin

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Secondo EP per il sardo Enrico Spanu, che in sei tracce di rarefatto Folk ci racconta l’amore nelle sue più diverse sfaccettature: L’amore come un errore in cui si ricade continuamente. Un amore passato ma mai realmente dimenticato. Un amore filiale. Un amore verso una persona che ormai non lo ricambia più. Un amore verso una persona che non si potrà mai avere. Un amore incondizionato per il quale si rinuncia a tutto. Il disco scorre tranquillo, sognante e semplice, fondato principalmente su chitarre in fingerpicking e una voce limpida, romantica, con liriche in inglese (in “This Thunder” sentiamo aggiungersi una leggera batteria, mentre cambiamo marcia in “Down to the Ground”: chitarra – elettrica – sporca, sonaglio e un suono d’organo in sottofondo). Non c’è molto altro da dire su A Softer Skin, un disco che fa della semplicità un motivo d’esistenza. Normalmente prodotti del genere mi stufano presto, immersi come siamo in un mondo saturato di cantastorie con la chitarra in braccio che fanno il verso ai songwriter anglosassoni, per la maggior parte delle volte anche in modo soddisfacente, per carità… ma alla fine ci si chiede perché ascoltarne cento diversi quando si può esaurire praticamente tutto il campionario con una rapida carrellata tra Bob Dylan e Damien Rice, passando da certe cose dei Decemberists? Ecco, questa volta faccio una piccola eccezione per The Heart and the Void, che anche senza uscire dai soliti binari, senza particolari guizzi o chissà che innovazioni, riesce a farci passare i suoi venti minuti con dolcezza. Se vi piace quel mondo lì, dategli una chance, non ve ne pentirete.

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Dry the River – Alarms in the Heart

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Due anni or sono vedeva la luce Shallow Bed, un album splendido, che dava nuova linfa alla corrente (intermittente) Indie Rock, ricco di sfumature originali capaci di saltellare dal Gospel al Folk per merito di due fattori fondamentali: la voce di Peter Liddle e il violino di William Harvey. In parole povere, per me il must to have del 2012. E’ scontato quindi nutrire aspettative importanti nei confronti di Alarms in the Heart, anche se replicare la qualità del precedente disco non è cosa semplice tenendo anche conto della dipartita dello stesso Harvey, il cui talento è stato essenziale per la riuscita di Shallow Bed. Le prime due tracce, in purissimo stile Dry the River, con le loro melodie malinconiche, ci fanno imboccare la strada della speranza, consapevoli che tutto sommato quello che stiamo ascoltando arriva fino al profondo del nostro cuore. L’ospite d’onore Emma Pollock, leader dei The Delgados, rende ancora più emotivo il viaggio duettando alla grande con l’ugola incantata di Peter Liddle. Dopo “Roman Candle” però c’è una brusca frenata che mi coglie impreparato. Stento a crederci ma per rivedere un altro scorcio di sole devo attendere “Gethsemane”, che giunge dopo due episodi piatti e lamentosi (“Med School” e “ItWas Love That Laid Us Low”). Anche “Everlasting Light”, secondo singolo estratto, è preceduto dalla passabilissima “Rollerskate” e ciò mi incute timore di andare incontro, verso la fine, ad altre canzoni deludenti. Mi duole dover dare ragione alle mie paure, attestando Alarms in the Heart come un lavoro venuto bene a metà, sperando che non sia la parabola discendente del breve (seppur intenso) successo dei Dry the River.

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Nicolas J. Roncea – Eight (Part One)

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Prima parte di una trilogia di album contenenti ciascuno otto canzoni, Eight (Part One) di Nicolas J. Roncea nasce da alcune considerazione dell’artista sullo stato della musica dal vivo oggi: “L’interesse per la musica dal vivo, mi riferisco soprattutto a quella di nicchia, purtroppo è calato notevolmente e che la stragrande maggioranza degli appassionati ascolti musica quasi solo ed esclusivamente su Spotify o Youtube è una verità appurata e non è da considerarsi come una grande novità ormai. Sono orgoglioso degli ultimi brani che ho scritto ed ho pensato che tentare una nuova strada, utilizzare uno strumento per me ancora inedito, potesse essere un buon modo per arrivare a catturare l’attenzione di chi magari ad un mio concerto non ci sarà mai ed allargare i miei  orizzonti”. Roncea dunque dallo scorso gennaio presenta i suoi brani in anteprima su Youtube,  brani che poi andranno a formare, per l’appunto, tre album distribuiti digitalmente e, infine, un cofanetto fisico, che li conterrà tutti e tre. La prima parte è composta di canzoni per voce e chitarra, sulla scia dei songwriter di stampo anglosassone come Damien Rice, che infatti viene omaggiato con una cover posta in calce al disco, dove appare anche un pianoforte. Eight (part one) è dunque tutto qui: otto canzoni (anzi, sette, considerata la cover) di Folk in inglese, confezionato in maniera pregevole ma senza particolari guizzi, cosa peraltro dovuta anche alla voce di Roncea che non ha la delicatezza e il virtuosismo di un Damien Rice, ma non ha neanche la malinconica stortura di un Elliott Smith. Gli arrangiamenti sono per forza di cose minimali e lineari (come si è già detto, voce e chitarra) e quindi l’ascolto un poco ne risente. Le canzoni hanno una loro forza, ma questa si stempera nella prevedibilità del pacchetto. Aspettiamo il seguito della trilogia per osservare come si evolverà il progetto in un habitat meno scarno.

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Area765 – Altro da Fare

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Nel 2011 i Ratti della Sabina si sciolgono, abbandonati dal loro fondatore Roberto Billi. Ma i ragazzi della band hanno ancora molto da dire, e riformano la band senza Billi, la battezzano Area765 e, mentre portano dal vivo i brani storici in una veste più immediata e Rock, pubblicano un nuovo primo disco, Volume Uno. Passa qualche anno e si arriva al presente: esce Altro da Fare, un lungo (diciotto brani) disco unplugged dove i quattro componenti della band si divertono a riarrangiare in chiave acustica pezzi tratti da Volume Uno e dalla lunga storia dei Ratti. Il risultato è piacevole, un disco leggero e fresco, davvero immediato, che si fa ascoltare con desiderio. I brani sono vari, e se gli arrangiamenti sono scarni e nudi, questo non fa che concentrare l’attenzione sul nucleo fondante dei pezzi, rendendo il disco un ottimo punto di partenza per chi volesse approcciare la band (anzi, in questo caso, “le” band) per la prima volta. I due inediti (“Altro da Fare” e “L’Ultimo Tango”) si inseriscono perfettamente nella lunga teoria di ballate sostenute dagli strumenti a corda (chitarre acustiche, bouzouki, dobro), da una voce che suona vicina e intima, da poche percussioni e ancor più rari strumenti solisti (violino soprattutto, ma anche diamonica, armonica). Un disco da consumare anche con facilità, se si vuole. Un disco semplice, ma non banale. Un disco che è un concentrato di ottime canzoni, distillate dalla storia pluriennale di una band che sa fare molto bene il suo mestiere. Come un concerto privato, solo per noi, sulla spiaggia, sotto le nuvole, senza pensare a niente.

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October Falls – Kaarna

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Sono all’ incirca tredici anni che gli October Falls sono in circolazione e tantissime, oltre che pregiate, sono state le loro uscite. La loro peculiarità, riconosciuta da critici e pilastri dell’Ambient e del Folk, va ricercata nella capacità di coinvolgere e creare strepitose melodie con atmosfere da far perdere il fiato. Una di quelle band capaci di trascinare ad ogni suono, a ogni sua nota, a ogni arpeggio di chitarra. Mikko Lehto, perno della formazione, ha deciso di pubblicare una raccolta acustica di tutte le perle della sua discografia in un lavoro intitolato Kaarna. Si tratta di una compilation di un notevole spessore che ripropone anzitutto quei tre gioielli di “Marras”, “Saratus” e “Tuoni” nella loro interezza e in più le tracce “Usma”, “Viima” e “Polku” ritratte con chitarra acustica, pianoforte e qualche volta un’aggiunta del flauto. Chiaramente non c’è nulla di veramente troppo ispirato in Kaarna perché parliamo di un disco che comunque rimette in gioco vecchie chicche del gruppo anche se con un sound senza dubbio più limpido. A ogni modo resta il fatto che è piacevole riascoltare queste vecchie tracce che ricordiamo sono di un certo spessore e in più si mette il fatto che questa è effettivamente la prima raccolta degli October Falls, il che dunque, non è da sottovalutare. Questo il disco giusto per riscoprire il progetto di Mikko Lehto, mentre chi non lo conosce affatto può partire da questo lavoro per farsi un’idea, in Kaarna c’è abbastanza materiale per inquadrarlo. L’ unica cosa che resta da fare è procurarsi il platter e godersi le fantastiche canzoni presenti; gli amanti dell’ Ambient e del Folk rimarranno contenti dell’ operato del talentuoso artista.

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Ex-Otago – In Capo al Mondo

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Gli Ex-Otago arrivano al quarto disco con sempre più voglia di lasciare tutto e partire, per arrivare (chissà, forse) addirittura In Capo al Mondo. Perso per strada il Pernazza, ora nei Magellano, la bussola non sbanda troppo e la loro musica rimane leggera, acustica, diretta e “comoda”, se vogliamo – che non è assolutamente un male, anzi. Un disco che è una serie di serenate, di spiagge al tramonto, o, forse, al chiarore dei fuochi di falò in piena notte. C’è freschezza nelle dodici tracce di questa perfetta colonna sonora estiva, da ascoltare in auto, in barca, nelle cuffie mentre si sonnecchia in aereo con gli occhi mezzi aperti per guardare le nuvole, per una volta, dall’alto in basso.

C’è qualche pecca (personalmente non apprezzo i momenti parlati che affiorano qua e là, così come sono poco convinto dal tono salmodiante di Maurizio Carucci, che peraltro fa parte, in pieno, della cifra stilistica del gruppo, quindi mea culpa), ma il disco è una conferma del talento dei genovesi nel tessere trame impalpabili di corde e ritmi, chitarre acustiche e clap, flauti, tastiere e un’atmosfera di festa continua, una festa rilassata, d’altri tempi, d’altri luoghi (“Amico Bianco”, “Nuovo Mondo”). Saper indicare con precisione la strada per finire (tranquilli, sorridenti e senza troppi sbattimenti) In Capo al Mondo è il segreto e la ricetta fortunata di questo piccolo, grande gruppo che magari non ti cambia la vita, ma sa certo renderla più sopportabile.

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Beck – Morning Phase

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Immaginate per un attimo questa situazione. Un’afosa mattinata estiva, una come tante. Un risveglio tranquillo e rilassato, senza impegni di sorta, senz’alcuna fretta. Caffé bollente, nero, intenso, dall’aroma avvolgente, rigenerante. Una sigaretta d’ordinanza, magari consumata in balcone, ancora in pigiama. Avete focalizzato? Bene, a questo punto partiamo dall’assunto che il dodicesimo studio album di Beck David Campbell, Morning Phase, si configura senz’alcun dubbio come la perfetta soundtrack della circostanza sopracitata. Quarantasette minuti scanditi da serafica rilassatezza, una grandiosa opera Folk mirabilmente descritta da un ritmo interiore che fluisce lento, particolarmente rarefatto, quasi immobile ed indistinto. Un lavoro essenzialmente asciutto e minimale, privo di arzigogoli e complicazioni, frutto di una scrittura apparentemente semplice e naïf, ma che trova nell’istintiva naturalezza dell’artista californiano la sua anima vibrante, il suo fulcro primigenio e vitale. Insomma, tredici brani nudi e crudi, dal sapore squisitamente “analogico”: batteria, basso, chitarra acustica e voce, accarezzati da languidi e misurati arrangiamenti orchestrali che, inevitabilmente, sottraggono spazio vitale ai rarissimi inserti elettronici (Odelay sembra lontano anni luce ormai).

Le influenze di Morning Phase (considerato, per analogia stilistica, quasi un sequel di Sea Change) affondano le proprie radici nell’immortale percorso artistico di Neil Young (esplicitamente citato come fonte privilegiata in diverse interviste), ed a tratti nella “fase acustica” dei Pink Floyd post-Barrett. Pare che il mood dell’album sia stato dettato da una fantomatico avvicinamento a Scientology, da fastidiosi malanni fisici, delusioni amorose e chissà cos’altro. Ma, in fondo, si tratta solo di rumors. Per quanto concerne la tracklist, meritano particolar menzione brani come “Heart Is a Drum” che, invitando l’ascoltatore ad assaporare pigramente la calura estiva, si configura essenzialmente come un vero e proprio inno al perder tempo, “Say Goodbye”, il cui canto sofferto é magistralmente interpretato dal banjo di Fats Kaplin, la languida “Blue Moon” (indubbiamente uno dei migliori teaser dell’album) e la commovente closing track “Waking Light”, con la quale si torna a porre l’accento sul tema ricorrente del risveglio, come a voler concludere un ciclo, una sorta di struttura ad anello. Sembra che non dovremo attendere molto per degustare il nuovo capitolo della saga Beck. Prestando fiducia alle parole dell’artista, si tratterà di un progetto ben diverso da Morning Phase, “eclettico e vibrante di energia live”. Attendiamo quindi con ansia.

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Amanda Rogers – Wild

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Nono album per la cantante dalla voce da usignolo che viene dall’Upstate NY, Wild è un doppio (ma neanche troppo lungo) album, che vede Amanda Rogers alle prese con un ritorno a casa (Syracuse) e allo stesso tempo un ritorno parallelo alle radici della musica che ama, una connection che mescola la ruvidezza e la spontaneità dei 70 con la sfrontatezza senza paura dei migliori 90.  La storia del disco (l’ideazione, la composizione, la registrazione) è la storia della musica che nel disco è contenuta (non è sempre così). In questo caso, l’essere inciampata in Jon Lessels, proprietario del Subcat Studio, di base proprio a Syracuse, e l’aver trovato in lui una metà musicale perfetta, ha reso la produzione del disco qualcosa di inaspettato e di liberatorio (in questo senso, “wild”). Registrato per la maggior parte live, con Amanda al piano e Jon alla batteria, Wild ha subito pochi rimaneggiamenti posteriori, e la musica da cameretta di Amanda ne ha giovato.

Le canzoni (20!) sono immediate, facili ma non banali: arrivano dritte alla testa e al cuore. Leggere, come leggera è la voce di Amanda, bellissima e adamantina, mobile e intensa, lieve e suadente (e non so che altri aggettivi inventarmi). Un disco doppio che non stufa, che potrebbe girare per ore, e noi con lui a seguire le evoluzioni Folk, Blues, Pop di questo spirito libero alle prese con temi universali e particolari in rapida sequenza – il vero amore, il ritorno a casa, la critica al consumismo imperante e l’ironia sul maledettissimo sogno americano. Ciò che soddisfa di Wild è l’approccio: un ritorno alle origini, una registrazione scarna, sincera, una composizione organica, che è un tutt’uno con la produzione e, poi, con l’ascolto. Amanda Rogers ci ha donato una piccola perla, una bolla spazio-temporale affacciata sugli anni in cui la musica era un po’ meno plastica e un po’ più legno, terra, fango (“Calendar of Yesterdays” mi ha spedito lontano sul bagnasciuga del mare del tempo…). Non so se ne abbiamo bisogno: ad ogni tempo la sua musica. A me, però, Wild fa stare molto, molto bene… e non basta questo, in fondo?

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Francesco Vannini – Dinecessitavvirtù

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L’artista siciliano Francesco Vannini arriva al primo lavoro discografico con l’Ep Dinecessitavvirtù, cinque pezzi che raccontano l’arte di arrangiarsi sfruttando il poco che si possiede nella vita, insomma, racconti di vita quotidiana. La scuola cantautorale siciliana, come tutti avranno notato, vive un periodo di felicità impressionante, ormai (ma non è solo così) il musicista siciliano viene associato involontariamente al cantautore. La produzione artistica dell’Ep in questione è affidata a Fabio Rizzo dell’etichetta 800A Records, quella di Pan Del Diavolo, Black Eye Dog, VeneziA e tanti altri di cui vi lascio il piacere della scoperta. “Bomboletta Spray” apre il supporto con un ritmo incalzante e travolgente, il brano più importante per il cantautore/sociologo Francesco Vannini. Deve molto alla fragranza del pezzo, il cantato non arriva mai all’eccelso, ma i cantautori sono sempre così. “I Treni” si presenta con l’opposta emotività della precedente, in questo caso la tristezza prende il sopravvento, un ribaltamento emotivo spiazza la mia condizione di ascolto. Però ci provo gusto, in fondo le canzoni tristi sono sempre le più belle, sono quelle che ci fanno viaggiare con la mente: “I treni ormai non li conto più, e ho smesso di pensare se non mi pensi”. Tanta scuola cantautorale classica italiana nei testi, tante atmosfere tipicamente nord europee nella musica.

Arriviamo alla title track “Dinecessitavvirtù”, il cuore dell’Ep. Ancora una volta si cambia completamente registro, i riff diventano quasi caraibici, o meglio, isolani. La voce ed il testo riescono a reggere l’attenzione perfettamente, il quadro generale della canzone è più che positivo nonostante qualche piccola scopiazzata vocale ad Edoardo Bennato. Ma niente di serio, forse soltanto inutili sensazioni. Da piccolo brivido “Soltanto una Canzone”, sarà quel bellissimo pianoforte che sembra essere messo a raccogliere lacrime, un brano che scava il cuore. Antonio DiMartino dietro l’angolo guarda soddisfatto l’evoluzione della sua lezione artistica nonostante come potenza siamo ad altri livelli. Si continua sulla stessa linea con “Un Uomo Qualunque”, meno strappa lacrime ma con un armonica fantastica, la voce nella migliore performance dell’intero Ep. Si piange e si ride durante l’ascolto de Dinecessitavvirtù, Francesco Vannini dimostra di avere le carte in regola per entrare a far parte della schiera dei musicisti siciliani che contano. Con un Ep purtroppo non è possibile leggere il futuro artistico di Vannini, aspettiamo l’album ufficiale e se il buongiorno si vede dal mattino… ci aspetta una giornata di sole.

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