Folk Tag Archive

Takoma – The Good Boy Sessions

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Arrivano dalla Sardegna passando da East London, mangiano cantautorato folk americano a colazione (Dylan, Guthrie, il più recente Johnston, Fahey…) e si chiamano Takoma. Erano in due, ora sono in tre, e sanno già di classico: in questo caso, non necessariamente un male.
Queste The Good Boy Sessions ci trasportano in un altrove fatto di chitarre afose, batterie western, voci e cori dai tempi d’oro del folk americano. Il gusto, morbido e diretto, per le melodie orecchiabili non monopolizza questo lavoro, che è capace di rimanere frizzante e di miscelarsi con un gusto più moderno e “indie” (un’operazione che ricorda da vicino cose tipo i Mumford & Sons, per intenderci), in un “revival” che rispetta la tradizione e allo stesso tempo percorre il sentiero del vintage con stile e sobrietà, senza voler strafare.
Sette brani, dal movimentato Movie 30 al rarefatto Frozen star, dal lento e funereo The Walk fino al “+ indie – folk” Easy way out, che passano confortevoli nelle orecchie: i Takoma hanno il dono della sintesi, “asciugano” gli arrangiamenti, compongono con un ottimo senso della misura, rendendo The Good Boy Sessions un’ottima scelta per chi vuole cullarsi con un po’ di musica retrò che però abbia anche quel guizzo neo-folk che ultimamente incanta tutte le platee indie del pianeta.

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Soul Revolution – People

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La musica quasi sempre racconta storie, di vita, di amore, di morte. Quasi sempre racconta di qualcosa o qualcuno, del desiderio o della sofferenza. Si staccano dal brutto concetto di cover band i Soul Revolution e registrano un disco d’inediti variegati chiamato People. I Soul Revolution sono un duo acustico formato dalla cantante italo/inglese Deborah Baratelli che non potendo dare risalto alla propria appartenenza anglosassone si modifica il nome in Dee Bee (che forse farà più indie) e dal chitarrista Fabrizio Scafetti. Bene, prima parlavamo del passato da cover band di questi ragazzi dal curriculum interessante e stizzoso, loro hanno girato la capitale tra teatri e locali per proporre la propria interpretazione di cover internazionali cantate in ben cinque lingue! (italiano-inglese-francese-spagnolo-portoghese). Sicuramente un bel progetto poco comune, direi interessante ma non riesco a trovare un nesso logico con la voglia forzata di registrare un disco originale, è vero che l’arte si misura in originalità ma non bisogna mai varcare il confine della decenza.

Prendiamo il loro disco People e cerchiamo di capire cosa c’è dentro con estrema calma e franchezza. Il disco racconta di storie normali di tutti i giorni, come dicono loro un disco scritto tra la gente, cantato in maniera ineccepibile dalla cantante Dee Bee (ormai ti chiamerò in questo modo) e suonato (soltanto tecnicamente) maledettamente bene dal chitarrista Scafetti, le innovazioni musicali purtroppo non sono minimamente sfiorate lasciando spazio ad un caos devastante. Mancano completamente legami tra tutte le canzoni proposte, una cozzaglia di generi inverosimilmente spalmati nel disco, c’è bisogno di riprendere fiato per affrontare nuovamente l’ascolto dell’album. Swing, folk, tango, rock, tarantelle e tarantolate, capricci e depressione, voci angeliche turbate, insomma, l’inferno di Dante nel cerchio degli adulatori (questa volta musicali). Con pazienza quasi record porto a termine l’ascolto di qualcosa che poteva essere molto ma molto meglio, bisognava lasciarsi andare al sentimento personale dei musicisti, si è giocato ad una sorta di “butta tutto nel calderone” senza buoni risultati, si è pensato troppo alla tecnica e poco all’armonia dei riff sempre troppo ingessati.

People racchiude l’essenza della strada ma non riesce a tirarne fuori le verità, un modo troppo chiuso e condizionato ruota attorno ai Soul Revolution, Dee Bee (continuo ad evocare la figaggine British) e Fabrizio Scafetti avrebbero bisogno di suonare musica in maniera meno sintetica dimenticando per una volta programmi televisivi e smanie allunga curriculum. La musica è prima di tutto verità, il resto purtroppo è solo merda.

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Mapuche – L’uomo nudo

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Un tempo non troppo lontano cantavo stronzate accompagnato dalla mia  chitarra scordata che non sapevo suonare e il cervello offuscato dalla stupidità della giovinezza portava alto quel senso di onnipotenza che massacrava involontariamente il mio fisico (è la storia di qualcun altro, il fisico era mio). Strano ma non sarei mai potuto diventare un cantautore lodevole, non ci ho mai neanche pensato. E in questo periodo di crisi economica e morale il cantautorato diventa subito ragione di vita, un mezzo indolore per manifestare le proprie frustrazioni realizzando canzoni poeticamente attuali dal maligno sorriso.

Enrico Lanza al secolo Mapuche entra di forza nella fitta schiera dei menestrelli incazzati di questi stupidi anni con razionale presenza. “L’uomo nudo” è il suo disco ruspante. Voce devastante e impegnata, la band accompagna il sentimiento nuevo dell’attuale razza umana padrona di un pianeta privo di valori indispensabili per il sano e logico vivere comune. Folkeggiante nel sentirsi vicino alle persone nella maniera più efficace lasciandosi incastrare da quel rock and roll timido elettrizzato da una chitarra picchiata decentemente, una carezza in un pugno per Celentano, una moglie paziente era la bottiglia per Dario Brunori. Finiremo col farci del male, le donne perderanno il clitoride e con esso il piacere, non abbiamo bisogno d’amore noi arroganti venditori di dolore. Un disco ricco di motivazioni, ne abbiamo ripetutamente bisogno, il calore personale di chi suona canzoni d’autore alla ricerca di corpi vergini ancora tutti da modellare. Mapuche piace e convince anche quando tutto ormai sembra perduto irrimediabilmente, un lavoro dal cast deciso, Cesare Basile tra i tanti. Viene voglia di riprendere la chitarra e urlare nuovamente.

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Esclà – Salta il tappo

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Okkio, il nome della band e relativa cover album potrebbero depistare  di non poco, perché verrebbe da pensare che  il tutto sia una stravaganza giocosa di cose messe in musica demenziali e per tormentoni tardo (issimi) estivi da piazzare da qualche parte; invece “Salta il tappo” del quartetto bolognese degli Esclà sorprende perché il suo cantautorato d’insieme fatto di giochi pop-folk striati di rock, fa pensare, riflettere e stare con i piedi in terra senza rinunciare a quattro bei salti di goduria folk nostrana.

Tredici percorsi atletici che infondono calore e forza motrice, tredici tracce ritmate, vive di sensazioni e coraggio che attraversano l’ascolto come un arcobaleno lasciandoti in dote – nel fondo dell’animo –  il senso di soddisfazione di aver ascoltato qualcosa, più di qualcosa, d’intelligente e vero.

Sincerità radiofonica, caratteristiche multi-matrice e quella bella semplicità declamatoria che ne fa un prodotto assimilabile immediatamente, una definizione sonica marcata d’autore che si fa notare specie nelle liriche e nelle ibridazioni che hanno un’inizio e mai una fine; se da stereo il disco da la voglia matta di dimenarsi a sfinimento, figuriamoci il quartetto complice su prestazioni live quello che potrebbero combinare e scatenare a loud al massimo, l’inimmaginabile, pogo e libertà di slogamento a go-go, anche per quel filo teso di nascosto che riporta virtuosismi alla Pogues e affini “Alfredo”, “Spazzanoia”, o per le contemporaneità  di rimbalzo rock-rap  “Io le odio le band emergenti” che non perdonano i momenti di stallo fisico.

Una band che brilla di suo e un vocalist che fa grandi numeri espressivi, teatralità e suggestioni a tutta voce che disegnano ballate sarcastiche “Salta il tappo”, smuovono spennate acustiche che si dondolano in due voci prima di accendersi d’elettrico “Voglio prendere in giro”, scandiscono il movimento di fianchi di un blues canaglia “Il sole a scacchi”  e finiscono in quei quattro minuti e quarantotto di magnificenza, di lusso d’ascolto della ghost track che segna numero quattordici della tracklist, un Guignolesco atto declamatorio di poesia che sanguina bellezza.

Eccellente come un vino d’alta genealogia, come dire…Esclà (mativo) senza riserve!

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