Lorenzo Cetrangolo Author

Davide Viviani – L’oreficeria

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Nicolò Carnesi @ Arci Tambourine, Seregno (MB) | 27.10.2017

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Non ho mai visto Nicolò Carnesi dal vivo prima di stasera, ma l’occasione è ghiottissima: tour in solitaria, voce e pianoforte, voce e chitarra. Mi trovo particolarmente a mio agio quando le canzoni si scuoiano e ne esce, vivissimo, lo scheletro. Carnesi, dal canto suo, è un’anomalia piacevole nel panorama cantautorale italiano, soprattutto di questi tempi, e vederlo nudo – metaforicamente, s’intende – mi sembra un ottimo modo per verificarne la sostanza.

(foto di Eleonora Zanotti)

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Mudimbi @ Ohibò, Milano | 20.10.2017

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Anni fa scopro Mudimbi come tanti: riproducendo a nastro i suoi pezzacci su YouTube (su tutti, “Supercalifrigida”) per godermi i video pazzerelli, la voce scura e cantilenante, e in generale l’atteggiamento che sfiora il LOL-Rap di questo ragazzone che s’indovina simpatico oltre la patina del personaggio cinico e senza peli sulla lingua.

(foto di Eleonora Zanotti)

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Nouveau Festival pt.1 @ Tambourine, Seregno (MB) | 29.09.2017

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Il Tambourine di Seregno fa parte di quella costellazione milanese-brianzola di circoli ARCI che si possono fregiare ancora di essere locali col palchetto che fanno suonare davvero la gente, oltre a spillare birre e a piazzar su musica random.

(foto di Eleonora Zanotti)

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L’Officina della Camomilla @ Ohibò, Milano | 06.05.2017

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Ebbene sì, lo ammetto: sono un seguace (laico) del tempio de L’Officina della Camomilla da quando suonavano coi giocattoli nei sotterranei dei Navigli. In genere non riesco a innamorarmi del lo-fi, di questo aleggiante scazzo perenne come asse portante dell’arte e della vita, ma di Francesco De Leo i miei occhi (tutti e tre) hanno sempre visto con tenerezza il lato letterario, la lunaticità espressiva, l’assurdità avanguardistica degli esiti da quasi-cut-up dei suoi esperimenti di paroliere.

(foto di Eleonora Zanotti)

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Le Capre a Sonagli @ Serraglio, Milano | 20.04.2017

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Seguo con interesse Le Capre a Sonagli da tempo (qui, per esempio, si può leggere la mia recensione del loro secondo disco, Il Fauno, uscito nel 2015). Complice una serie di incastri organizzativi, riesco a passare al Serraglio per la data milanese del Cannibale tour, che accompagna l’uscita del loro terzo disco.

(foto di Eleonora Zanotti)

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Pollio @ La Salumeria della Musica, Milano | 30.03.2017

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Arrivo in Via Pasinetti senza aver ancora ascoltato bene il disco d’esordio da solista di Fabrizio Pollio, che all’attivo ha già tre dischi e un EP con gli io?drama. Non so bene cosa aspettarmi: ho seguito la parabola incostante degli io?drama da vicino, apprezzando molto i primi due dischi e perdendo un po’ di vista il progetto all’uscita dell’ultimo, Non resta che perdersi.

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Linoleum 3rd Birthday Party con Canova e Asia Ghergo @ Rocket, Milano | 24.03.2017

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00:45. Quando esco dal Rocket, sudato e senza fiato, mi riprendo passeggiando sull’alzaia del Naviglio Grande e penso due cose. La prima: concerti del genere vanno vissuti con bombole per ossigeno e lorica medievale, come minimo; la seconda: l’effetto che ha su di te un concerto dipende tantissimo da che cosa ti vuoi portare a casa quando finisce (a parte sudore di estranei e struscii indesiderati sul pacco).

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Giorgio Tuma + Laetitia Sadier @ Ohibò, Milano 24/11/2016

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Piove da giorni e non potrebbe essere altrimenti: siamo all’Ohibò di Milano per la serata organizzata da Sherpa Live con i ragazzi del Diluvio Festival. La serata si preannuncia densa – gli act in scaletta sono quattro (in realtà cinque, come vedremo) – ma la selezione è stata intelligente e, per non annoiare, la varietà non manca, nonostante una più che giusta affinità di mood (piovoso, spesso). Si parte, sapientemente, con i Tide Predictors, un duo basso+voce/tastiere+synth (+ basi, che saranno una costante per tutti i gruppi d’apertura). Rimango sorpreso: musica di chiaro stampo Electro-Pop eighties in inglese ma con evidenti richiami agli anni Sessanta nei riverberi della voce e in certi suoni di batteria. Nulla di nuovo, certo, ma i ragazzi scrivono bene, con un’attenzione all’armonia e ai ritmi che spesso non si limitano ai quattro accordi in quattro quarti o al motorik più abusato ma variano in modo piacevole, rimanendo sempre in un ambito gustosamente pop e ballabile, con qualche punta godereccia di rumore più sporco che non guasta. Atmosfere ombrose e piglio divertito mescolano cupezza e ironia senza sbilanciarsi troppo. Non il mio genere, ma aprono degnamente la serata. Approvati. Si presenta poi sul palco il solitario Vikowski, voce calda e tastiere (+ basi, come si diceva). La proposta è più comune: il punto forte è la voce, che Vikowski ha morbida e precisa. Canta bene, avvolgente in basso ed energico in modo struggente quando spinge di più. La presenza scenica abbastanza neutra non lo limita più di tanto, considerando che sul palco è da solo dietro la sua postazione, ma nemmeno lo fa brillare granché. Tutto sommato canzoncine piacevoli (e a me le canzoncine piacciono, sia chiaro), ma che non mi hanno colpito molto. Si può crescere, la misura c’è. Mi aggiro per l’Ohibò per dissetarmi e quando torno gli Abbracci Nucleari hanno già iniziato. Sono in due, pianoforte e voce (+ le sempiterne basi). Una sorpresa deliziosa. Un pianoforte mobile, luminoso e spaziale e una voce – femminile – perfetta. Davvero, perfetta: sussurra, si ingrossa, sale scende e fa un po’ il cazzo che le pare. Una padronanza cristallina del mezzo, unita a costruzioni armoniche e sonore in cui può appoggiarsi comoda e accogliente. Le canzoni sono forse il punto debole: rendono molto di più quando cercano di stupire virando sul Jazz o su ritmi più sincopati, da Elettronica quasi-glitch o da R’n’B moderno e cool; quando si appoggiano a una sorta di Post-Rock sui generis più lineare invece perdono molto. Le basi in generale aiutano: si indovina un ottimo lavoro di produzione, che però a volte fa a pugni con la semplicità dei testi, delle linee melodiche, delle strutture dei brani (spesso loop molto circolari, o così sembra). Rahma Hafsi, la cantante, sul palco è a casa sua, canta e si muove con una luminosità e una naturalezza incredibili, a volte forse troppo, considerando il genere. Un’ottima prova, che se non mi ha conquistato al 100% è solo per la mia cronica tendenza a sopravvalutare l’importanza del testo e della varietà strutturale di un brano – quindi mea culpa. Arriviamo all’headliner della serata… ma no: prima ci aspetta una massacrante mini-scaletta di Laetitia Sadier degli Stereolab, da sola. La cantante sale sul palco con calma, attacca la sua chitarra-elettrica-al-contrario (destra ma suonata alla mancina) e parte. Mood sognante, scarno, con solo la chitarra effettata ad accompagnare la sua bella voce limpida. Le canzoni non sono male, ma lei le suona male (si può dire che suonare fuori tempo, perdendo i colpi, e litigando col manico della chitarra è “suonare male”? O abbiamo già superato anche questa linea?). In più la Sadier si rende protagonista di un seccante teatrino quando ferma il pezzo in corso per ammonire il pubblico troppo rumoroso (c’era chi chiacchierava) per chiedere a chi non sia interessato di andarsene al bar. È seccante, il teatrino, perché il rumore era veramente minimo (e ve lo dice uno che non sopporta certi concerti col pubblico irrispettoso e vorrebbe, da asociale quale è, stare sempre seduto comodo e in silenzio nella poltrona di un teatro); perché, se ti distrai a suonare per due chiacchiere, probabilmente hai sbagliato mestiere; e perché, se pure pensi che la tua musica valga il silenzio del pubblico, o te lo conquisti a forza stile Low oppure fai l’artista inflessibile – con tutta la ragione del mondo! – e te ne vai. L’avrei apprezzata molto di più. Finalmente, dopo quasi tre ore di musica (buona musica, in ogni caso), sale sul palco Giorgio Tuma, che porta per la prima volta dal vivo le sue creazioni in giro per l’Italia nell’anno che lo ha visto pubblicare il suo quarto album, This Life Denied Me Your Love, e che stasera troviamo dietro le pelli e al microfono. Con lui Giuseppe Manta alla chitarra elettrica, Giulia Tedesco alle tastiere e voce e Gigi Cordella ai synth. Tuma è di un’altra scuola. L’impianto, nonostante synth e tastiere, è suonato, acustico in senso lato: è una band più vicina agli anni Sessanta che a qualsiasi altra cosa. L’atmosfera, a volte, si avvicina ai sapori crepuscolari e “liquidi” che abbiamo sentito durante la serata, ma li usa per crescere, gonfiarsi, alzare il tiro ed esplodere in lunghe code strumentali, in passaggi trippy, in sei ottavi rotolanti che Tuma gestisce con umanità da dietro la batteria, tenendo il polso delle canzoni in un modo che non ha nulla del robotico e del meccanico di certe precisioni infallibili, ma che al contrario ha il ritmo del sangue e delle parole che oscillano, ondeggiano, e se si inceppano (di un millisecondo, non importa) fa parte del gioco, fa parte della vita. Le canzoni di Tuma sono un’unica grande canzone, un oceano di suoni che accarezzano e poi trascinano, in cui si percepisce distintamente il suo gusto per l’arrangiamento e la libertà totale nello scrivere, che poi è totale subordinazione alla propria fantasia, alla propria voce interiore. Laetitia Sadier torna sul palco, all’inizio e alla fine del set, per duettare con lui, e il risultato è onirico, celestiale. Un concerto forse troppo breve ma che risucchia e sommerge, piacevolmente. Un’ottima chiusura, e questo senza considerare l’infinita umiltà e dolcezza di questo talento che rimane in disparte, parla poco, tentenna, come se stare sotto i riflettori fosse un male necessario per portare in giro i suoi suoni, la sua musica. Ecco, questa è la lezione numero uno che ci insegna Giorgio Tuma: la musica è ciò che deve stare al primo posto, il resto è e deve essere solo un contorno.

[foto di Eleonora Zanotti]

Tide Predictors
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Vikowski
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Abbracci Nucleari
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Giorgio Tuma + Laetitia Sadier
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Emiliano Mazzoni – Profondo Blu

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Di Emiliano Mazzoni apprezzo soprattutto la schiettezza. Quell’evidente trasparenza della scrittura che rende le sue emozioni tangibili senza ritocchi, senza filtri che non siano quella voce calda e sghemba, quei pianoforti zoppicanti. Già ascoltando il suo ultimo disco avevo goduto del suo sguardo netto sul mondo, che si inoltra negli orizzonti dalle montagne (si sente l’aura dell’eremo, io credo, nelle sue canzoni), si inerpica tra le valli della vita, osserva momenti sparsi, prova qualcosa e lo rende a parole piccole, intagliate nel poco.

Qui, rispetto all’ultimo disco, c’è un’armonia di fondo più centrata, un’ambientazione sonora che avvolge, un Profondo Blu, appunto: è una discesa nuda in un cupo che, a dispetto delle apparenze, non è freddo, anzi, e Mazzoni nudo ci si sente a casa, non ha paura: guarda la nuvola che passa e che va fuori dalla finestra, e lui lì, fermo, che sta molto bene dove sta (vacca se sta bene), complici anche gli arrangiamenti spesso sussurrati ma mai incerti, la voce calda e segreta, la semplicità storta (o la stortezza semplice) che serpeggia negli undici brani che raccontano di donne e dei loro fantasmi, di strade e dei loro bordi, di funerali propri ed estranei giorni d’amore, di immortalità.

Un disco laterale in cui si compie la più poetica delle traiettorie: sempre verso il centro, senza toccarlo mai: sfiorare.

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Divenere – Cities, Skies, Mountains, Seas And Other Useless Things

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Partono bene fin dal titolo, i Divenere: questo elenco di “cose inutili” così evocativo che si accompagna benissimo alla cover allucinata, dove una luna incontra montagne dietro uno zeppelin che sorvola una foresta stilizzata.

La musica del loro quarto disco sposa questo immaginario senza difficoltà. È Pop nell’anima ma è sognante, o forse, più che sognante, onirica: mari di riverberi e onde di delay che incrociano vibrazioni di percussioni in loop e voci eteree. È densa, piena anche se gentile, con qualche digressione più psichedelica inframmezzata alle strofe con batterie dritte e arpeggi di chitarra sospesi e liquidi. Il cantato, in inglese, non si fa notare troppo: linee melodiche morbide e familiari, che però compensano la mancanza di particolarità con la capacità di accompagnare puntualmente l’andamento strumentale, senza mai disturbare, ma conciliandone la permeabilità. L’ascoltatore è avvolto dal suono e non può fare altro che lasciarsene attrarre, anche in modo distratto, ma pur sempre inesorabile.

I cinque brani di Cities, Skies… si susseguono come un lungo volo verso un sole bianco, contro un cielo grigiazzurro. I Divenere pilotano lo zeppelin, questa imponderabile balena volante, con pochi scossoni, poche sorprese, ma qualche precisa, scintillante certezza: una traversata stabile che consente solo un lento rollio, un cullare rotondo. Quando ci sveglieremo saremo già arrivati.

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Persian Pelican – Sleeping Beauty

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Potrei stare ore a scrivere litanie di aggettivi presi dal campo semantico del sonno, della morbidezza, della levità, per darvi un’idea sonora del disco di Andrea Pulcini, in arte Persian Pelican, ma mi annoierei io e vi annoiereste voi.
Invece vi dico che ho ascoltato questo disco lasciandolo depositare prima nel sottofondo della mia giornata e poi nello sfondo di una salutare e pienissima dormita. Una tale perfezione nell’accompagnamento onirico l’ho provata solo con certe cose dei Low. C’è chi – ne conosco qualcuno – si offende quando dici che la sua musica concilia il sonno. Io lo trovo un complimento bellissimo: vuol dire mano precisa, voce calibrata, scrittura carezzevole. Certo, se fai Metal magari fatti qualche domanda.

Il terzo disco di Persian Pelican è questo: preciso, calibrato, carezzevole. Ma con gli aggettivi mi fermo qui. Quello che posso fare d’altro è consigliarvelo sinceramente, soprattutto se vi piacciono le canzoni piccole, con le chitarre perfette nella loro imperfezione, con questi rampicanti di elettrica che fanno scintille leggere, con una voce che spunta cauta dal riverbero, malinconica ma quasi mai triste, serena anche se forse poche volte allegra (e va bene così). Canzoni lievi ma (ci casco ancora) puntuali, esatte, affascinanti. Canzoni sottovoce che pure la batteria, quando appare, non riesce a scardinare da questo abbraccio alle orecchie e al sogno. Anche se la loro forza non si esaurisce lì, fatevi un favore: dormiteci su o, almeno, ascoltatele a occhi chiusi. Non ve ne pentirete.

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