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Uli – Black and Green

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Uli gioca all’ombra della schiena di Nina Simone a rincorrere i fantasmi di Bill Hicks, ma in realtà è una italianissima cantautrice e ha le idee piuttosto chiare per essere una che è appena al suo album di esordio. Al secolo Alice Protto, la Uli di Black and Green riparte dai tre brani dell’EP dello scorso anno e sceglie i colori con cui tingere la devozione nostalgica al sound atemporale del Folk e del Blues americani che già allora aveva confessato.

Eloquente nel chiarire il processo compositivo è ciò che accade all R’n’B delle liriche di “Nina Simone’s Back”, riarrangiata ora in chiave Psych su un fondale di elettronica discreta dai toni scuri, con la voce effettata che rimbalza nelle cavità profonde delle percussioni. Il nero intramontabile è quello di una Nancy Sinatra nell’intro di “Hicks Y Z” che occhieggia alle tonalità di “Bang Bang” e si destreggia sapientemente tra pieni e vuoti. Il verde lisergico è il Folk scanzonato di una KT Tunstall nell’incalzante “Martial Hearts”.
A confermare la bontà dell’intuizione c’è il fatto che i momenti migliori sono quelli in cui le cromie si mescolano a dovere: nell’incedere della marcia di “Dry River” col cantato di Uli che avvolto nel sax rimane sospeso nel tempo, negli accenni sintetici di una ballad ritmata come “Emerald Dance”.

La formula di Black and Green è semplice ma è declinata in maniera suggestiva, narrata da un timbro Neo Soul immediato come quello di Gabriella Cilmi ma immersa in un liquido amniotico à la Daughter che le dona il magnetismo giusto per distinguersi dal mero Pop. C’è più di uno spunto valido da coltivare in futuro.

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Morning tea – No Poetry in It

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Avevamo lasciato Morning Tea, moniker sotto il quale si cela Mattia Frenna, due anni fa con Nobody Gets a Reprieve (Sherpa Records), suo promettente e brillante disco d’esordio. Da allora un denso tour italiano e la presenza al Birmingham Popfest uniti ad un ottimo riscontro di critica hanno alimentato il fuoco creativo del folksinger milanese. Uscirà a febbraio, ancora una volta per Sherpa Records, No Poetry in It, giusto e naturale prosieguo del primo lavoro in studio. Il titolo dell’album, tanto evocativo quanto esplicito, ci parla di squarci di vita vissuta, istantanee di storie personali raccontate in modo diretto e asciutto. Non c’è nessuna magniloquenza nelle parole di Frenna, quanto piuttosto la ricerca di un ermetismo sia melodico sia testuale. “Florence” ne è una dimostrazione lampante: divisa tra il piano ed esplosioni Noise Elettro sintetizza il testo in uno statement glaciale: “I miss something/I miss something/I miss something/I miss something/I just don’t know what the fuck it is”. C’è tanto ricordo e qualche elemento di nostalgia nelle parole di Morning Tea e quelle corde appena pizzicate, il lieve tocco sui tasti del piano in “Letter to a Friend” e “Sad song” o, ancora più esplicitamente, nella stessa “No Poetry in It” arrivano a toccare il cuore di chi ascolta, riuscendo ad entrare nel suo complesso mondo interiore. A metà tra ricordo, perdita e un pizzico di speranza Morning Tea si confida come ad un vecchio amico, senza troppi giri di parole. No Poetry in It è un disco in antitesi col suo stesso titolo in cui la poesia è il racconto stesso della vita nel suo incedere, raccontata in maniera diretta. Una scelta vincente.

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Sakee Sed – Hardcore da Saloon

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Scherzando, dalle mie parti diciamo che in Brianza deve essere caduto un meteorite che piega lo spaziotempo o non si spiegherebbe la follia dei musicanti della zona. Credo una cosa simile succeda nel bergamasco, dove o vendono della droga molto buona o l’acquedotto filtra attraverso i resti di qualche bestia mitologica soprannaturale interrata nei paraggi che infetta la gente di lì e la rende mutante nella testa e nella musica. La prima spiegazione è più probabile, la seconda è più affascinante. Ci penso perché mi va in cuffia l’ultimo dei Sakee Sed, che avevo già incrociato ai tempi di A Piedi Nubi e che anche in questo Hardcore Da Saloon continuano nel loro meticciato di generi e spunti, creando un Far West che è talmente Far che forse non è più nemmeno West, dove il pianoforte sta in mezzo a tutto, facendosi roteare intorno ritmiche forsennate e distorsioni, voci seminascoste e gusto per teatralità e sorpresa. Non voglio fare paragoni troppo stringenti con altre band, e quindi non li farò. Ma posso permettermi di dire che anche a loro accade ciò che nella zona (geografica) succede spesso, ossia: una lodevole libertà compositiva e immaginifica che però lascia indietro la costruzione di un mondo lirico, di un racconto, per avere invece in cambio una panoramica a tinte forti e impressioniste che diverte e meraviglia, senza dubbio, ma non rimane impressa con la dovuta forza nella mente e, soprattutto, nel cuore. (Il riferimento geografico potrebbe essere anche frutto di un mio personale bias, ma il discorso non cambia). Brani come “Markala”, “Beck and Musical” (che ritornello!) o “La Fuga di Barnaba” creano sì colore e tensione, ma poi qualcosa si perde. Miscelano Rock, Folk, batterie pestatissime, frenesia e pianoforti inaspettati, fughe strumentali brevi ma pungenti, frasi melodiche sghembe, scalene, che allenano le orecchie, che soddisfano il palato, che tendono i muscoli facciali in un ghigno divertito e si fermano lì, sull’orlo del padiglione auricolare, senza penetrare nell’osso, nel sangue. L’energia e la gioia (in senso lato) che sprizzano da queste tredici tracce bastano a fare di Hardcore Da Saloon un buon disco? Sì. Per essere ottimo, però, ci vorrebbe forse anche qualcos’altro che i Sakee Sed, probabilmente, non sono nemmeno disposti a dare. Non importa: se facessero altro non sarebbero loro (e magari sarebbero peggio). C’è bisogno di band che fanno il cazzo che vogliono senza ruffianate. Io non mi convinco al 100% ma a loro, giustamente, che gli frega?

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Brother and Bones – Brother and Bones

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Prendete quel sound sporco ma preciso americano tipico dell’epoca Post Grunge, calatelo su cinque ragazzi della Cornovaglia che puntano a diventare immortali come Braveheart con le loro canzoni e avrete i Brother and Bones. Giunti al loro album d’esordio omonimo nello scorso agosto, gli inglesi (già opening act di Bastille e Ben Howard) stanno intraprendendo un lungo tour che vede toccata anche la nostra penisola (Milano e Torino). Ma cosa portano sul palco i Brother and Bones? Prima di tutto storie, raccontate in maniera epica ma incredibilmente vicine alle vicende quotidiane di tutti. “Omaha” ne è l’esempio più luminoso: cavalli neri al galoppo, citazioni bibliche, muscoli e testosterone si mettono al servizio di una narrazione spettacolare e intima allo stesso tempo che ci narra dell’essenza stesso dell’essere umano. La formula classica doppia chitarra-voce, basso e batteria consente alla band di spaziare tra vari ambienti passando attraverso porte che recano nomi come Pop, Grunge, Folk, Indie. La batteria si incendia grazie al combustibile di “Kerosene” che apre le undici tracce e ci parla di un amore vissuto a mille all’ora; la timbrica di ispirazione Cornelliana ci trasporta immediatamente in un’altra dimensione. Proprio giocando con le sue variazioni, i B&B riescono a rimanere attuali e moderni pur serbando un sound ormai lievemente datato. Declinando voce, chitarre e timpani al 2015 escono vincitori sia in momenti particolarmente raccolti come “Save you Prayers” e “For All We Know”, sia in situazioni dove si schiaccia di più l’accelleratore (“Crawling”, “Everything to Lose”). Freschezza dunque, coperta però da un lieve velo di nostalgia per il passato che, se in questo Brother and Bones può essere segnalato come valore aggiunto, nel prossimo lavoro dovrà necessariamente essere assimilata e messa in bagaglio. Al primo full length non ci si aspetta una qualità così elevata ma, complici anche gli ottimi East West Studios di Los Angeles, tutto ci appare già come un prodotto completo e credibile. I ragazzi sono la perfetta band da locale, dove si suda e si beve birra fino a perdere i sensi. Adesso però i grandi palchi li stanno aspettando e loro sembrano essere ormai pronti.

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Tymon Dogg – Made of Light

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La luce artificiale in copertina potrebbe ingannare. Una luce fredda e squadrata che poco si intona con il violino del musicista britannico. Cinquant’anni di carriera e un portfolio da far raddrizzare tutti i peli in corpo. Collaborazioni con Paul McCartney, James Taylor, Jimi Page, The Moody Blues, Ian Hunter. Per non parlare della sua fraterna amicizia con Joe Strummer, che l’ha portato a militare anche nei Mescaleros (stupendo il suo violino in “Silver and Gold” dall’album “Streetcore”). La luce è dunque vivida, offuscata dalle nuvole della Gran Bretagna, bagnata come la rugiada e bianca come la pelle dell’ormai sessantacinquenne Tymon Dogg. Made of Light è un album estremamente maturo eppure così vicino alle radici della musica Folk d’oltremanica, con un piede nella prateria e uno verso la grande città. Un suono di altri tempi trapiantato nel 2015. La forza della sua voce e del violino vengono subito sprigionate dalla rabbiosa “Conscience Money”, violenta, virale, quasi a risvegliare Strummer e i fantasmi della ribellione. “A Pound of Grain” è proprio un inno al veganesimo. A detta di Tymon la canzone è stata proprio ispirata dai discorsi con l’ex Clash riguardo lo sfruttamento degli animali da parte dell’uomo. I suoni sono acustici ma risuona in ogni nota la prepotenza del Punk degli anni d’oro e quello spirito gypsy che strappa sempre un sorriso sulle labbra. La title track è intensa, liturgica, grido straziante a richiamare un Dio dimenticato. Qui Tymon si fa accompagnare da chitarre classiche, mentre il violino innalza la voce verso il cielo. Le sfaccettature di questo disco non finiscono qui; “Like I Used to Be” e “Perfect Match” sembrano rubate ai Beatles di Revolver, un bel sorriso in un giorno esageratamente estivo in un paesino d’Inghilterra. La melodia danza indisturbata anche nella meravigliosa ballata “As I Make my Way”, simbolo della spontaneità e della semplicità di questo onestissimo musicista. Un canto quasi ubriaco, e per questo vera quanto mai. La voce di Tymon Dogg è tremendamente inglese e tremendamente saggia, in una canzone è capace di descriverci la meraviglia della vita buttando dentro suo padre, suo figlio e tutto se stesso. Aggiungiamoci la forza di un violino Punk mai troppo invadente e di una luce tutt’altro che artificiale, capace di illuminare il nostro paesaggio creando colori abbaglianti e ombre che con questo suono fanno meno paura.

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Fuochi di Paglia, ecco il video di “Le Sorelle Tisana”

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Divertimento assicurato con il nuovo singolo “Le Sorelle Tisana” della band toscana dei Fuochi di Paglia, quartetto originario da San Miniato (Pisa) con all’attivo l’album d’esordio Ménage à Trois (Labella Records) che amalgama con gusto Ska, Jazz, Folk e Cantautorato.

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I Salici – Sowing Light

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Natura, cultura rurale e territorio. Questi tre elementi sono già sufficienti a dare una prima immagine de I Salici, band friulana che coniuga un animo dichiaratamente Folk ad un’attitudine DIY. E’ infatti opera dei ragazzi il proprio studio di registrazione ricavato in una casa di pietra nella campagna friulana. Musica ma anche valorizzazione del territorio per I Salici che sette anni fa hanno dato vita al festival AESON, rassegna che porta performances culturali all’interno dei boschi e delle acque del fiume Isonzo. Ed è inevitabile che tutto ciò non si rifletta nella musica. Dopo il buon esordio, seppur acerbo, di Nowhere Better Than This Place, Somewhere Better Than This Place I Salici ritornano con Sowing Light. Mai titolo fu più profetico, seminare la luce è proprio ciò che la band riesce a fare in un disco rapidissimo e coinvolgente. Il passaggio da un genere all’altro avviene in modo molto fluido: il prog accennato di “Ocean’soutshine” cede il passo al Folk sudato di “Fernando” e a quello più tranquillo di “Wild One”. Ma Sowing Light non è solo un rimbalzarsi di questi due generi, c’è anche il Rock Blues radicale dei 70s (“Young Heart Be in Love Tonight”, “Got a Clock”). Il punto di contatto per tutto è il sogno, un’aleggiante atmosfera onirica che in musica si traduce con la psichedelia, concetto che permea ogni singola traccia dell’album. Siamo di fronte ad un prodotto fresco e nuovo che riesce a sposare in modo non troppo cervellotico l’unica via ormai possibile per la musica indipendente: il Crossover. Sowing Light ci regala dodici tracce mai stucchevoli che sebbene declinate in vari generi, trovano una perfetta coerenza interna che emerge e che qui ha il significato di riconoscibilità, in senso buono. I Salici superano abbondandemente la prova del secondo album con la faretra ancora piena di idee per il futuro.

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Il Rumore della Tregua – Una Trincea nel Mare

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C’è ciccia nel primo full length de Il Rumore della Tregua. Sono una band e suonano come una buonissima band, seri e capaci, sicuri e senza sbavature; hanno anche studiato i cantautori, e si sente. C’è come un’autorevolezza antica nella voce di Federico Anelli, una malinconia di fondo che vuole sembrare profonda, riflessiva, intensa. Lo è davvero? Probabilmente sì, ma chissà. Importa? Non so. (Ci torniamo dopo). Quello che so è che Una Trincea nel Mare è un disco complesso, non immediato, scritto bene, suonato bene, prodotto bene. Bisogna dare atto a Il Rumore della Tregua di aver saputo architettare un disco che non solo sta in piedi ma addirittura svetta: come suoni, arrangiamenti e maturità compositiva siamo a livelli d’eccellenza. La cosa che sento mancare è una voce, uno sguardo che sia solo loro. E qui torniamo a quella sensazione, fastidiosa come una mosca, di stare guardando uno spettacolo progettato con una perizia spaventosa ma che tradisce la sua natura artificiale: si notano forse le quinte, in fondo alle ombre, ai lati del palco? Sono luci di scena quelle, o sono stelle? È sangue finto, quello che sgorga? L’agonia ci fa piangere di dolore, di commozione, o solo spellare le mani applaudendo il primattore? Domande che lasciano il tempo che trovano, risposte che sono tema di conversazioni di mezzanotte al tavolo di un bar. Nel frattempo vi dico che il disco merita il vostro ascolto se masticate i cantautori, le colonne sonore di Morricone e certo Folk Rock malinconico e denso, intenso, di qualità. Da tenere d’occhio.

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Le Capre a Sonagli – Il Fauno

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Tornano i curiosissimi Le Capre a Sonagli e lo fanno con Il Fauno, un disco che è un’unica allucinata e lunga (ma neanche tanto) canzone psicotropa. Quattro suite che sono anche colonna sonora di un mediometraggio animato ma che a me suonano tantissimo come soundtrack di un videogame indie, folle e vorticoso, da smanettoni con le occhiaie. Ci troviamo all’incrocio tra un Rock dalle sonorità acustiche e svisate Blues, tanta passione per stilemi Folk e Country e uno spirito avventuroso e sconfinante molto anni ’90, tra il Desert Rock più immaginifico e certo sperimentalismo ibrido che non guarda in faccia a niente e nessuno. Diciamo insomma che il gusto di questo disco sta proprio lì, nel farsi portale per un viaggio psiconautico dove inseguire il protagonista Joe Koala nel suo andirivieni tra i mondi magici e ultraterreni della sua personale odissea. I brani, proprio perché pensati come parti di suite, sono brevi, secchi (il più lungo conta poco più di tre minuti): sviluppano una singola, circoscritta idea, spesso geniale: il riff di “Celtic”, l’ondeggiare ubriaco e molesto di “Demonietto nell’Organetto” (capolavoro) con quel fischio spettacolare che mi ricorda tanto “My Patch” di Jim Noir, il pestare semi-acustico con echi di Korn – giuro – di “Serpente nello Stivale”, il Brit Pop stile Blur di “Nonno Tom”, il valzer retrò di “Bobby Solo”… potrei andare avanti all’infinito, tanti sono i rimandi e i cristalli nucleari che si nascondono in questi brani-caramella. Ecco, forse l’unica macchia de Il Fauno è il concentrarsi maggiormente sul modulo, sull’elemento, sulla rifinitura (estrema) del dettaglio in quanto parte di un tutto, abbandonando, nei singoli pezzi, la costruzione architettonica, l’approfondimento. Insomma, diorami che rasentano la perfezione, ma non monumenti. Rischio accettabile, comunque, nella costruzione di un concept così strutturato, in cui per forza di cose la parte è in debito col tutto. Un disco del genere, in ogni caso, oggi serve, e moltissimo, perché ci ricorda che la musica è magma e può andare ovunque, è tappeto volante e polvere magica e ci può portare fin dove possiamo immaginare di arrivare. Quando sento gruppi da quattro accordi in quattro quarti o cantastorie da arpeggio sempre uguale mi viene da pensare a Le Capre a Sonagli e alla distanza siderale tra il loro immaginario (ricco, infinito, sempre nuovo, libero, strafottente) e la povertà di certe idee riciclabili. Lunga vita a Il Fauno.

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Lennon Kelly – Lunga Vita al Re

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Miscelare spirito Punk e sonorità Irish con inserti in dialetto (romagnolo), raccontare “storie vere, di speranza per un futuro migliore, di denuncia sociale e politica mai velata o censurata”: non si può certo dire che i Lennon Kelly cerchino l’originalità a tutti i costi, anzi… Il loro ultimo album, Lunga Vita al Re, è praticamente un album dei (primi?) Modena City Ramblers (c’è persino una comparsata del flautista Franco D’Aniello nell’ultimo brano, la ballata “La Morte di Corbari”). Un album senza infamia e senza lode, suonato con competenza, pieno di canzoni piacevoli ma che non rimangono granché nella testa, soprattutto perché manca una personalità forte, un’identità che li distacchi dai più famosi cugini. Se per voi di musica così non ce n’è mai abbastanza, ascoltateli assolutamente: la fanno molto bene, le canzoni filano, e scommetto che dal vivo sono danzerecci e scatenanti al punto giusto (la title track da questo punto di vista funziona benissimo, ma anche la piratesca “Sangue e Sale”, e in fondo praticamente tutti i brani si portano dentro una bella atmosfera festosa, da pinte di birra scura e balli infuocati). Il problema è riuscire a tenere sotto controllo l’effetto déjà vu, che a tratti è veramente insopportabile, e che purtroppo mina alle fondamenta l’approccio stesso del progetto.

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La Bestia Carenne – Catacatassc’

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Che Django Reinhardt si sia reincarnato in Campania fondendosi con le sonorità locali? Questo il primo pensiero che salta alla mente quando inizio ad ascoltare “Catacatassc’”, primo brano del disco d’esordio de La Bestia Carenne. Intendiamoci bene però: qui l’influenza del famoso ed indimenticato chitarrista belga si sente già dalle prime battute ma di Jazz c’è giusto qualcosa, solo un timido accenno; c’è tanto invece di rumorismo tipico della No wave newyorkese e persino di musica tradizionale mediterranea (in particolare greca). Folk quindi? Probabilmente sarebbe piuttosto limitante ascrivere queste tredici canzoni in un solo genere, per cui forse è meglio procedere continuando l’analisi brano per brano senza scadere in inutili “etichette”. In fondo di idee il gruppo è pieno, come si evince in “Il Sapore”, che a tratti ricorda anche Vinicio Capossela, e in “Billy il Mezzo Marinaio”, un dolce e malinconico Swing che ci riporta indietro fino agli anni cinquanta. L’inizio di “Le Cose che Desideri” addirittura rimembra lo stile Frippiano, ma conclude collegandosi con una traccia di appena ventuno secondi dal titolo eblematico “#1” in cui un piccolo vociare fa da sottofondo a un cantato in lingua inglese; giusto il tempo di introdurre “La Vacanza di un Ferroviere” dedicata a una categoria di lavoratori di cui spesso ci si dimentica di parlare nelle canzoni. Il viaggio sonoro prosegue con “Transkei” e “Una Macchina Trasversale”, in cui Giuseppe Di Taranto (voce e chitarra acustica) Antonello Orlando (chitarra elettrica), Paolo Montella (voce, basso e tastiera) e Giuseppe Pisano (percussioni) raggiungono l’apice del mio personale indice di gradimento. E così si giunge al secondo spartiacque, “#2” , che però forse avrei evitato, in quanto non aggiunge né toglie nulla al valore artistico del disco. “Jeanne” è un piccolo concentrato di perfetta arte sonora, genuina e spontanea, tanto quanto lo scorrere molto enfatizzato ed accentuato delle dita sulle corde della chitarra in “Toccare”. “Uno Studente e Vysotskij” e la malinconica “Cadillac” chiudono questo disco che è praticamente privo di difetti . I quattro ragazzi campani hanno già un curriculum fatto di oltre ottanta concerti di cui molti in apertura per artisti quali Brunori Sas, Francesco Di Bella, Folkabbestia, Giovanni Block, Nick Mulvey, Nino Bruno e le 8 Tracce, Modena City Ramblers e 24 Grana ma sono sicuro di una cosa: verrà il tempo (presto… molto presto!) in cui saranno loro i veri headliner della serata! Bob Dylan e Neil Young sono stati avvisati.

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Amaury Cambuzat – Amaury Cambuzat Plays Ulan Bator

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C’è tanto dietro una chitarra acustica, c’è il cuore e la passione, ci sono dita consumate, c’è soprattutto un uomo. Amaury Cambuzat imbraccia la chitarra e ripropone dei (vecchi) brani degli Ulan Bator (tra il 1997 e il 2010), ecco come prende vita (oltre la campagna crowdfunding) il disco Amaury Cambuzat Plays Ulan Bator. Conosco bene le produzioni di Amaury, le ho sempre considerate come capi saldi della sperimentazione, un musicista capace di trasformarsi sempre, anche in veste di produttore. La sua arte musicale è geniale, vertiginosa, non si ha mai la sensazione di ascoltare qualcosa di stantio. Amaury Cambuzat Plays Ulan Bator suona sorprendentemente bene nonostante la non “originalità” dei pezzi, il suo è un magico approccio alla composizione. Parlavamo prima della capacità di Cambuzat di trovare sempre nuovi stimoli artistici, basterebbe riascoltare i dischi degli Ulan Bator per rendersi conto delle variegate soluzioni proposte. Ma questa volta c’è qualcosa di veramente innovativo nella produzione dell’artista francese, qualcosa di insolito: la sessione acustica. Esatto, questa volta si appende la chitarra elettrica al chiodo, quella capace di buttarci dall’inferno al paradiso nello stesso attimo, questa volta si suona in acustico. Il disco parte con “La Joueuse de Tambour” (Ego:Echo), mi lascio conquistare dagli arpeggi, dalla chitarra multiforme, da una voce calda che trasmette tranquillità. Ho sempre adorato le rivisitazioni dei brani in chiave acustica, un feticcio che mi porto dietro da sempre. Accarezzo il cielo irrespirabile, mi alzo per camminare quando l’impazienza inizia a diventare insopportabile, “La Lumière Blanche” (Vegetale). Continuo a seguire sempre la stessa linea di emozioni, il binario è fisso davanti a me, non posso sbagliare, una stretta al cuore mi arriva con “Hiver” (Ego:Echo), per continuare incessante con “Terrosime Erotìque” (Nouvel Air). Perché essere artisti completi, come Amaury Cambuzat, comporta la responsabilità dello stato emozionale altrui, la possibilità di modificarlo, mi sento i nervi scoperti quando ascolto “Along the Borderline”(pezzo inedito). Ora potrei piangere ed urlare, potrei sentirmi vivo, potrei vivere di ricordi senza voglia di futuro. Amaury Cambuzat Plays Ulan Bator si attacca alla pelle, inizia a consumarla per poi entrare dentro, si fonde al cuore. Un disco quadrato nonostante tutte le regole delle banali canzonette vengano a mancare, il duemilaquindici inizia con forti emozioni (il disco è del 2014), armiamoci di grandi aspettative e lasciamoci conquistare da questo album. Io questo genere di lavori ho imparato a definirli grandiosi, perché quando la musica ti entra dentro non può che essere importante. Amaury Cambuzat entra dentro come pochi altri, la conferma di un grande artista. Vogliamo dargli tutta l’importanza che merita? La musica non può fare a meno di lui.

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