Depeche Mode Tag Archive

Der Noir – Numeri & Figure

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I Der Noir sono tre e sembrano cento: merito delle sonorità elettroniche, certo, delle drum machine e dei sintetizzatori, merito delle collaborazioni (Luca Gillian alla voce, Hannes Rief alla tromba, Anna Martino al violino elettrico, Pierluigi Ferro al sax, per citarne solo alcuni), ma merito anche della loro capacità di costruire intrecci musicali complessi, vere e proprie stratificazioni melodiche e suggestioni Noise.

L’album si apre con “Carry On” che subito ci catapulta in atmosfere New Wave rivisitate: una lettura più Dance, forse, con echi alla Depeche Mode. La title-track, “Numeri e Figure” ha un testo in italiano che si muove su sonorità anni 80 freddissime, retto da una linea melodica complessa, capace di un andamento sillabico e momenti più ariosi e sospesi. Segue “Zero”: vaghe reminiscenze dei Massive Attack per un testo nuovamente in inglese e un brano che predilige la pulsione ritmica alla costruzione armonica. “L’Inganno” è forse la canzone più bella del disco: liriche interessanti, un cantato sillabico, chiaro che si staglia pulito su un arrangiamento composito, tra suoni sintetici e il calore dello strumento a fiato. “Sunrise” è quasi tribale, “Kali Yuga” dà una sfumatura mediorientale che subito viene abbandonata per una visione più Industrial, oscura e suburbana, che prosegue nella successiva “Metamorfosi”, in un crescendo malinconico e ansiogeno. Con “She’s the Arcane” si torna a parlare al corpo in quel modo subdolo e indiretto di cui i Joy Division erano maestri: non è una canzone da ballare, ma è una canzone che sicuramente vi farà muovere la testa con compostezza. Il disco chiude con una meditabonda “The Forms” che sancisce la fine dell’album addensando le suggestioni tracciate nei brani precedenti, una bella summa di quello che i Der Noir sanno dare. Il disco non è perfetto, forse i momenti più cinetici sono anche i più bassi, mentre i brani più riflessivi tradiscono una capacità compositiva su cui la formazione dovrebbe concentrarsi maggiormente, ma è un bel disco, che vale la pena ascoltare.
Fatelo.

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The Foreign Resort – New Frontiers

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Fino a venti anni fa, in piena epoca Grunge ed Alternative Rock, orde di capelloni, depressi e disillusi in camicia di flanella e jeans strappati si accanivano ferocemente contro tutte quelle sonorità fredde e look da fighetto che rappresentano a tutto tondo quel caleidoscopico calderone denominato Post Punk o New Wave che dir si voglia. Dai primi anni Zero, grazie al successo di gruppi quali Interpol e Franz Ferdinand, è avvenuto un vero e proprio revisionismo storico nei confronti della “Nuova Onda” che ha attraversato il panorama musicale dal 1978 al 1983, regalandoci gemme che risplendono prepotenti ancora oggi nel firmamento Rock. La rivalutazione di tanto spessore e la continua citazione da parte di band emergenti sta rendendo nauseante e borioso il magnetismo oscuro di un’era artistica così estrosa, sia nei costumi e nel make-up, quanto permeata da un nichilismo e da un senso di disgregazione che ha fatto le sue vittime (Ian Curtis e  Adrian Borland su tutti).

I Foreign Resort sono un trio originario di Copenaghen, vero e proprio cuore nero d’Europa (basti pensare agli Ice Age), attivi sin dal 2009 e composto da Mikkel B. Jakobsen (chitarra e voce), Henrik Fischlein (chitarra e basso) e Morten Hansen (batteria e voce). Sfornano questo New Frontiers imbastendo un flusso sonoro carico di velata malinconia e di fantasmi mai svaniti che ormai è divenuto un cliché dal sicuro impatto sul pubblico anche se annoia brutalmente. Mikkel. voce e penna della band, strizza l’occhio a Robert Smith con quel cantato affogato e lontano per tutte e nove le tracce; musicalmente domina la ritmica funerea dei Joy Division , condita ora con elementi Synth Wave tanto cari ai Depeche Mode quanto ai Cocteau Twins, ora da sferragliate di feedback nella migliore tradizione Shoegaze (My Bloody Valentine, Jesus and Mary Chain).  Per quanto i riferimenti ai fasti del passato siano gloriosi, si finisce per essere risucchiati da un vortice tedioso e stucchevole; al massimo cercate un po’ di brio  nello spedito Post Punk a tinte epiche della titletrack.

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A Night Like This: lineup completa

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L’Associazione culturale A Night Like Thisin collaborazione con il Comune di Chiaverano, annuncia la line up completa di A Night Like This Festival, che ritorna per il terzo anno consecutivo il 19 Luglio 2014 a Chiaverano (TO). Art Pop, Synth Pop, Elettronica e Neo Psichedelia sono il filo conduttore di questa terza edizione. E tre sono gli artisti da oltreoceano in esclusiva per il Nord Italia per A Night Like This Festival 2014: Austra, trio Indie Electro canadese in perfetto equilibrio tra elettronica pulsante e un Folk ancestrale, sublimato dall’espressività vocale della bravissima cantante Katie Stelmanis; The Soft Moon, band Neo Post Punk americana guidata dal visionario compositore Luis Vasquez in ricerca del lato morbido della luna. La band ha accompagnato i Depeche Mode per il loro ultimo tour europeo; Slow Magic, dagli USA un ragazzo che si nasconde dietro ad una coloratissima maschera, a cui piace definirsi “il tuo amico immaginario” e che ti coinvolgerà in un viaggio di canti tribali ed atmosfere sognanti.

Inoltre: Soviet Sovietche con il loro album d’esordio Fate hanno fatto del Post Punk un mero punto di partenza, un’idea da colorare con le mille sfumature del loro inconfondibile sound. His Clancynessla band meno italiana dello stivale, con un sound moderno, affilato e cosmopolita. Nadàr Soloil trio che coniuga poesia Rock a live potenti e mozzafiato che stanno conquistando il pubblico un concerto dopo l’altro.

Gli altri artisti della terza edizione di A Night Like This Festival, saranno:
Niagara, Wemen, Flowers or Razorwire, Love The Unicorn, Il Terzo Istante, Invers, Johnny Fishborn, Mascara , Pocket Chestnut, Indianizer, The Gluts, Sorriso Tigre, Nobody Cried For Dinosaurs, Yellow Traffic Light.

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Fluon – Futura Resistenza

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Come se doveste aprire una medicina vi invito a leggere queste indicazioni prima di ascoltare il disco dei Fluon.


1) Questo lavoro non ha nulla in comune con i Bluvertigo se non il fatto che sotto la sigla Fluon si nasconde Andy che non ha mai smesso di darsi da fare dopo la seconda ibernazione del gruppo di Monza; se vi farà piacere al massimo consideratelo la sua naturale “evoluzione” (che è anche il titolo della opening track);
2) Se non vi piace la musica elettronica potete tranquillamente starne alla larga, ma se la adorate maniacalmente non ne potrete più fare a meno;
3) Se non amate il Kraut Rock stile Kraftwerk questo non è un articolo per voi; i Fluon possono essere considerati infatti i loro pronipoti.


Detto ciò, possiamo proseguire che troverete tante influenze in questo lavoro, in primis i Depeche Mode, per cui Andy è in fissa da sempre, pur mancando forse quel dualismo Gahan / Gore che  contraddistingue il sound e la musica dei tre di Basildon. Tuttavia lo spettro dei suoi tre ex compagni di avventura (Morgan, Livio e Sergio) si fa abbastanza evidente in pezzi quali “In Verità vi Dico” e “Dove si Comincia” e l’interrogativo più frequente che ci si pone è come avrebbero suonato tali canzoni se i quattro di Monza vi avessero lavorato assieme… Spezzo però una lancia a favore dei suoi tre nuovi compagni di avventura, Faber (synth, programmazione), Fabio Mittino (chitarre) e Luca Urbani (voce, synth) i quali svolgono il loro compito egregiamente. I Fluon hanno comunque un talento smisurato, soprattutto se confrontato ai tanti surrogati che ci propongono i vari Talent Show e manifestazioni canore quali il Festival di Sanremo. Qualcuno di voi probabilmente se ne era già accorto quando parteciparono al tributo a Enrico Ruggeri, “Le Canzoni ai Testimoni” con cui lasciarono già un segno della loro bravura riproponendo la sua hit “Polvere” persino in coppia in un videoclip col noto cantautore / scrittore / presentatore milanese. Dieci tracce insomma in totale che potrebbero impressionarvi facilmente, soprattutto per il contrasto che si crea fra apertura elettronica e chiusura in grande stile con un lento quale “Buio”, che permettetemi il paragone, mi emoziona tanto quanto quella “Somebody” dei Depeche Mode soprattutto nel finale dove il sax e la chitarra si incastrano perfettamente tra loro. Davvero un esordio all’insegna della classe e della raffinatezza!

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Analisi di un disatro annunciato! La classifica dei dischi più venduti nel 2013.

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Censored

Quello che trovate subito sotto è il risultato di una piccola analisi che ho voluto fare dopo aver letto le classifiche di vendita degli album in Italia nel 2013. Andiamo per ordine e cerchiamo di capire di che cosa si tratta. Qualche giorno fa sono stati resi pubblici i dati concernenti la vendita dei dischi nell’anno solare appena passato sul territorio italiano e in testa troviamo Ligabue con Mondovisione seguito da Modà e Jovanotti. A fine articolo trovate la lista delle prime cinquanta posizioni. Senza troppi giri di parole, la domanda è una sola: dove sta la nostra bella musica indipendente? Dove si sono ficcati quei nomi “giganteschi”, almeno per noi e probabilmente per chi ci legge, come Arcade Fire, Placebo, Low e via dicendo? Scorrendo la classifica, il primo nominativo sul quale vale la pena soffermarci è quello dei Daft Punk al diciassettesimo posto, tallonati dai Depeche Mode; poi abbiamo i Pearl Jam al trentesimo e più staccati David Bowie e i Muse. Andando oltre la posizione numero cinquanta, scopriamo il primo e unico nome tutto italiano del panorama Indie (passatemi il termine che mi permette di sintetizzare) e cioè quello dei Baustelle. La cosa che pare chiara, dunque, è che c’è una spaccatura netta tra il pubblico musicalmente “colto” o meglio quello che si pone con più attenzione alle uscite underground (in linea di massima le stesse proposte da webzine come Rockambula ma anche dai giganti Ondarock, SentireAscoltare o Rockit o le riviste cartacee come Rumore, Il Mucchio e via dicendo) e chi effettivamente i dischi li compra.

O quantomeno, il pubblico che ascolta e apprezza le band che questi magazine o webzine come la nostra promuovono, non è evidentemente abbastanza numeroso da far sì che i loro artisti preferiti possano entrare nelle classifiche riguardanti gli album più venduti, al fianco dei sopracitati re (con la minuscola) del pop/rock (con la minuscola) tricolore. In quest’ottica poco stupisce che gli Arcade Fire vendano circa seimila copie e i Marlene Kuntz appena settemila e comunque mille in più dei canadesi, che invece, nei nostri discorsi da musicofili, collezionisti di vinili, talent scout dell’Indie Rock, insomma, nelle chiacchierate tra noi Indie Snob che al concerto degli U2 se ne vanno dopo aver ascoltato il gruppo spalla, sembrano il non plus ultra del panorama mondiale. Partendo da questo presupposto e visto che il mio ruolo mi permette di affermare la scarsissima qualità delle classifiche di vendita nostrane, una domanda sorge spontanea ed è una questione che in molti hanno sollevato in questi giorni. Quando esattamente ci siamo ridotti cosi e cosa ci ha portato a questo? L’avvento dei reality show, l’affermarsi della Tv come principale strumento d’informazione, l’arrivo degli mp3, il download illegale, il generale impoverimento culturale? In quale anno, in quale preciso istante l’Italia è caduta nel baratro? Per cercare di dare una risposta a queste domande ho deciso di realizzare questo piccolo studio da cui scaturisce il grafico che trovate di seguito.

Grafico

Semplicemente ho considerato tutte le classifiche di vendita degli album, anno per anno, dal 2009 al 1964 (dati www.hitparadeitalia.it) e ho analizzato i dischi che si trovano nelle prime posizioni. Poi ho esaminato il gradimento di quei dischi, attraverso un portale che avesse un pubblico quanto più variegato possibile (www.rateyourmusic.com), usandolo come strumento quanto più oggettivo possibile per valutare la qualità (o meglio la percezione qualitativa di un dato pubblico) degli album analizzati. Ovviamente, parlando di giudizi su album, ci sarà una miriade di variabili da considerare (dal tipo di pubblico del sito, alla preparazione dei votanti e cosi via) tanto che una qualsiasi valutazione oggettiva è pressoché impossibile, ma ho cercato di usare gli strumenti più adatti allo scopo, tentando di non influenzare il risultato. Quello che ho cercato di capire è quanto la qualità media dei dischi più venduti è variata nel tempo e se c’è un momento storico in cui la spaccatura si è fatta più evidente.

Nel grafico dunque trovate tutti gli anni sull’asse orizzontale mentre in verticale è presente la valutazione qualitativa che, attraverso il mio sistema, va da un minimo di zero a un massimo di quindici. Tanto per capirci, i tre album con il voto più alto presenti nel sito arrivano a 12,84. Quello che emerge chiaramente è che (sempre considerando la presenza d’infinite variabili che rendono l’analisi interessante più come curiosità) pare esserci effettivamente un peggioramento nel pregio dei dischi che si trovano nella parte alta della classifica, ma, nello stesso tempo, non c’è apparentemente un momento preciso cui sembra corrispondere questo calo. La cosa lascerebbe supporre che nessun motivo unico scatenante debba riscontrarsi in questa spregevole inclinazione ma che anzi, inevitabilmente, una serie di concause, ci stia portando ad allargare il divario tra album di qualità e album più venduti. Allo stesso modo, sembra anche esserci una sorta d’inversione di tendenza dagli anni 2000/2001 ma si tratta di un periodo troppo breve perché si parli di vera ripresa in tal senso, anche perché, spostando tali considerazioni oltre il 2006 e analizzando proprio i dati 2013, potremo notare come l’anno appena passato, si piazzerebbe nel grafico sugli stessi bassissimi livelli d’inizio millennio.

Che cosa dire dunque. Noi continuiamo per la nostra strada, proseguiamo a promuovere e ascoltare quella musica che riteniamo essere veramente di qualità con la consapevolezza che sarà solo una minoranza a seguirci, quella stessa minoranza che però ci piace incontrare ai concerti dei Massimo Volume o, tra qualche mese, dei Neutral Milk Hotel. Probabilmente non ha senso cercare un solo e unico colpevole e probabilmente, quest’analisi andrebbe raffrontata con altre che rivelino la situazione culturale generale del paese e la sua involuzione. Allo stesso modo non possiamo che ridere di chi ancora è riuscito a stupirsi di questi dati, che trovate di seguito. Cosa vi aspettavate di vedere? I These New Puritans in vetta?

 

 Pos. Att. TITOLO ARTISTA
1 MONDOVISIONE LIGABUE
2 GIOIA … NON E’ MAI ABBASTANZA! MODÀ
3 BACKUP 1987-2012 IL BEST JOVANOTTI
4 STECCA MORENO
5 SCHIENA VS SCHIENA EMMA
6 SIG. BRAINWASH – L’ARTE DI ACCONTENTARE FEDEZ
7 #PRONTOACORREREILVIAGGIO MARCO MENGONI
8 MIDNIGHT MEMORIES ONE DIRECTION
9 20 THE GREATEST HITS LAURA PAUSINI
10 MAX 20 MAX PEZZALI
11 AMO RENATO ZERO
12 NOI DUE EROS RAMAZZOTTI
13 SONG BOOK VOL.1 MIKA
14 MARIO CHRISTMAS MARIO BIONDI
15 L’ANIMA VOLA ELISA
16 AMORE PURO ALESSANDRA AMOROSO
17 RANDOM ACCESS MEMORIES DAFT PUNK
18 DELTA MACHINE DEPECHE MODE
19 LA SESION CUBANA ZUCCHERO
20 INNO GIANNA NANNINI
21 UNA STORIA SEMPLICE NEGRAMARO
22 SENZA PAURA GIORGIA
23 BRAVO RAGAZZO GUE PEQUENO
24 GUERRA E PACE FABRI FIBRA
25 SUN MARIO BIONDI
26 CONVOI CLAUDIO BAGLIONI
27 TAKE ME HOME ONE DIRECTION
28 MERCURIO EMIS KILLA
29 AMO – CAPITOLO II RENATO ZERO
30 LIGHTNING BOLT PEARL JAM
31 PASSIONE ANDREA BOCELLI
32 CHRISTMAS SONG BOOK MINA
33 L’AMORE È UNA COSA SEMPLICE TIZIANO FERRO
34 A TE FIORELLA MANNOIA
35 THE TRUTH ABOUT LOVE PINK
36 MIDNITE SALMO
37 TO BE LOVED MICHAEL BUBLE’
38 THE NEXT DAY DAVID BOWIE
39 BELIEVE JUSTIN BIEBER
40 UN POSTO NEL MONDO CHIARA
41 LORENZO NEGLI STADI – BACKUP TOUR 2013 JOVANOTTI
42 LIVE KOM 011: THE COMPLETE EDITION VASCO ROSSI
43 SOTTO CASA MAX GAZZÉ
44 ORA GIGI D’ALESSIO
45 SWINGS BOTH WAYS ROBBIE WILLIAMS
46 THE 2ND LAW MUSE
47 LA TEORIA DEI COLORI CESARE CREMONINI
48 IN A TIME LAPSE EINAUDI
49 UNORTHODOX JUKEBOX BRUNO MARS
50 ARTPOP LADY GAGA

NON HO TROVATO UNA CANZONE PIU’ ADATTA!!!

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No Love Lost

Written by Interviste

Come ci piace fare spesso, Rockambula è stato media partner dell’evento organizzato questo dicembre a Sulmona (AQ) denominato Soundwave Christmas Nights, festival dedicato alla musica originale indipendente. Pur non trattandosi espressamente di un contest, Rockambula ha voluto comunque istituire un piccolo premio che consiste in un mini pacchetto promozionale comprensivo di recensione e/o intervista più banner pubblicitario sul nostro sito per circa un mese. La band che abbiamo scelto in quanto protagonista con il progetto più interessante e originale anche solo in ottica potenziale è stata quella denominata No Love Lost. In questa intervista cerchiamo di capire meglio di che progetto si tratta, quale possa esserne il futuro e cercheremo anche di ragionare su alcune tematiche care sopprattutto alle scene di provincia.

Iniziamo da una domanda ovvia. Il vostro nome richiama alla mente la grande band capitanata da Ian Curtis e voi avete iniziato la vostra avventura proprio come cover band dei Joy Division. Aver fatto cover è più utile a scrivere e proporre pezzi propri o più un ostacolo dovuto al rischio “imitazione”?
Aver iniziato come cover band dei Joy Division ha sicuramente contribuito a creare amalgama e affiatamento nel gruppo. Il rischio imitazione volontaria non c’è mai stato perché in fase compositiva seguiamo le nostre idee e l’istinto del momento senza doverci preoccupare di imitare qualcuno o assomigliargli. Se ci sono delle affinità con altre band non sono volute e cercate ma sono solo frutto dei nostri ascolti e gusti giovanili. Quando abbiamo deciso di cominciare a proporre un nostro repertorio abbiamo iniziato come nuovi No Love Lost e non come costola della cover band che eravamo prima.

Perché avete scelto di iniziare con le cover e perché avete scelto di passare a proporre pezzi vostri? Suonate ancora brani dei Joy Division dal vivo?
Il gruppo inizialmente è nato come una sfida a proporre una band poco conosciuta ai più e comunque poco coverizzata. L’idea era di fare alcune esibizioni in pubblico e divertirci a suonare una musica che aveva sempre esercitato un certo fascino su di noi. Abbiamo deciso di cominciare a proporre brani nostri perché da sempre noi tutti abbiamo avuto un approccio compositivo alla musica, ci viene naturale. Ognuno di noi tre normalmente compone in proprio e a maggior ragione trovandoci tutte e tre insieme, idee vecchie e nuove si sono accumulate con una certa rapidità dandoci la possibilità di scegliere tra un materiale numericamente consistente ancora in fase di definizione e composizione. In eventuali serate dal vivo in cui avremo la possibilità di suonare per più di un’ora sicuramente riproporremo dei brani dei Joy Division.

La vostra formazione attuale non prevede batteria, o meglio batterista. Il suo ruolo è affidato all’elettronica. Quanto la batteria elettronica può essere un vantaggio (Albini ci ha costruito una carriera, passatemi il termine, con una certa Roland) e quanto un limite per la vostra proposta? E perché avete fatto questa scelta?
La batteria elettronica (ma le basi in generale) per noi e per il nostro sound è un vantaggio in quanto la nostra musica necessita di ritmi definiti e ben schematizzati; ci da la possibilità di far lavorare il basso in modalità non usuali (uso di ottave alte quando lavora in contemporanea con un basso synth) mantenendo una certa corposità del suono e avendo virtualmente una sorta di seconda chitarra. Inoltre la batteria elettronica permette al basso di esprimersi liberamente con riff definiti e di effetto e permette al cantante/tastierista di dedicarsi totalmente al canto. Attualmente non vediamo svantaggi nell’utilizzarla e non escludiamo neanche il ritorno di una batteria acustica in futuro quando e se necessario.

Vi ho ascoltato dal vivo durante l’esibizione a Sulmona (AQ) al Soundwave, un piccolo Festival di cui Rockambula è stato media partner (ndr I No Love Lost hanno vinto qui il premio Rockambula). Perché avete scelto di parteciparvi? È questa la strada migliore per la musica emergente? Cosa non vi è piaciuto?
Abbiamo scelto di partecipare al Soundwave Christmas Night per avere una vetrina e far sentire i nostri brani inediti a un vasto pubblico. Per i gruppi della scena Indie la via migliore per farsi conoscere è comunque soprattutto quella di partecipare a manifestazioni ad hoc come questa e ovviamente utilizzare la rete nei suoi numerosi canali e avere tanta voglia di mettersi in gioco credendo a quello che si fa. Più di quello che non ci è piaciuto, preferiremmo invece mettere in rilievo il fatto che questa manifestazione non era un concorso ma appunto una rassegna. È stata un’ottima idea in quanto nei concorsi è molto facile che a vincere sia la band raccomandata o che porta più pubblico; diverso è stato invece creare un premio per il progetto e l’idea espressa da una band come ha previsto il Soundwave con Rockambula.

Una cosa che, ad esempio, mi pare di aver notato è che, specie nelle piccole realtà cittadine, mancano vere e proprie scene e ognuno tenda a fare musica inseguendo, spesso scimmiottando, i propri idoli, senza alcuna voglia di sperimentare, osare, innovare. Uscire da questo tunnel credete sia possibile? Come?
Uscire dal tunnel delle imitazioni è possibile ma richiede apertura mentale, un discreto background culturale, creatività e voglia di mettersi in gioco. Il problema principale è che si tende, soprattutto nelle nostre realtà, a giudicare l’operato di un musicista solo ed esclusivamente dal punto di vista tecnico senza mettere in rilievo che la creatività costituisce un elemento fondamentale per chi fa musica.

Una delle soluzioni potrebbe essere una certa apertura (date, concerti, festival, contest) alle band, anche poco note, che vengano da fuori (vedi il Progetto Streetambula di cui siamo co/organizzatori). Ma il pubblico dei piccoli centri è pronto a questa sorta di “rivoluzione”? Sembra piuttosto disposto ad ascoltare solo i propri amici, di là dell’interesse ridotto verso la musica.
Finché i piccoli centri ragioneranno con la logica bigotta e culturalmente ristretta, non ci sarà alcuna rivoluzione. La rivoluzione va stimolata e secondo noi, molti in questa valle (Valle Peligna, provincia de L’Aquila ndr), a partire da chi organizza eventi musicali e si occupa di band emergenti come voi di Rockambula, stanno lavorando bene per creare un circolo virtuoso in tal senso.

nolove

Cambiamo discorso ma non troppo. Perché i musicisti vanno con tanta fatica ad ascoltare i colleghi?
Molti musicisti (non tutti), disertano le serate dei loro colleghi, semplicemente per mancanza di umiltà, attenzione, informazione e forse anche invidia. È una costante fra colleghi, Morrisey ci ha scritto anche una canzone.

Passiamo a voi. La vostra musica è fortemente influenzata dal Post Punk dei Joy Division. Quali altre influenze vi si possono ascoltare?
La nostra musica è influenzata da diversi artisti del passato e del presente. Sicuramente i Joy Division hanno avuto un’influenza importante ma non principale. Prima di loro vorremmo citare Gary Numan, Depeche Mode, New Order, Asylum Party, Pj Harvey e Massive Attack senza dimenticare le forti influenze Punk che arrivano dalla nostra chitarrista Francesca Orsini e in particolare in brani come “Closer”, “Torture” e “The Party’s Over” che speriamo avrete presto la possibilità di ascoltare su disco.

Che progetti avete per scoprire il vostro peculiare sound e renderlo più moderno?
Premesso che oggi parlare di suono vecchio e nuovo risulta un po’ difficile in ambito Indie, vista la varietà e le molteplici combinazioni sonore tra i vari decenni e tra i vari generi, stiamo valutando di “svecchiare” il suono cercando, in fase di registrazione, di applicare con astuzia quelle caratteristiche sonore che possono far risultare il prodotto più moderno e muovendoci all’interno di questo impianto sonoro per mantenere il nostro suono volutamente vintage.

Oltre al limite dovuto dall’ovvia somiglianza con i padri del genere, ho notato che, dal vivo, c’è ancora qualche imprecisione soprattutto in chiave vocale e andrebbe attuata anche una più attenta ricerca melodica. Come pensate di muovervi in tal senso? Credete di dover lavorare ancora anche sulle canzoni ormai già ascoltate live?
Per ciò che riguarda la voce stiamo lavorando continuamente per perfezionare quanto già ascoltato dal vivo. Sicuramente un paio di brani richiedono una maggiore attenzione melodica e rivisitazione da parte nostra, per molti pensiamo che la soluzione attuale sia soddisfacente ma sappiamo che un gruppo deve essere sempre alla ricerca di novità’ e aperto a rivedere le soluzioni già date per stabili se necessario e se rispondono a una reale esigenza dei compositori. Pertanto anche le versioni live che avete ascoltato sono suscettibili di qualche cambiamento in fase di registrazione.

Uno dei modi migliori per superare i propri limiti è distruggere quelli mentali che ci portano ad ascoltare sempre le stesse cose. Per questo credo che per tutti, e ancor più per i musicisti, sia importante ascoltare tanta musica, vecchia e nuova, e sempre molto diversa. Qual è il vostro modo di approcciare alle nuove sonorità, alle nuove band? Chi vi piace tra le nuove proposte italiane e straniere e consigliateci un paio di dischi di questo ormai andato 2013?
È essenziale uscire dagli schemi mentali acquisiti, pertanto ci poniamo sempre con grande interesse all’ascolto di quanto di nuovo viene proposto dal mercato discografico soprattutto indipendente. Del 2013 ci sono piaciuti il nuovo dei Soviet Soviet e degli Arcade Fire senza dimenticare The National ma anche in ambito Pop ci sono molte produzioni di valore.

Sul palco si nota una certa spensieratezza alle chitarre (basso incluso) mentre Fabrizio D’Azzena (voce) mantiene un’aria seriosa, tesa, quasi preoccupata e ansiosa. Studiate attentamente le vostre performance, anche per quanto riguarda l’immagine oppure suonate cosi, come viene?
Sinceramente abbiamo ancora forse poca attenzione per l’immagine globale del gruppo ma ciò’ deriva principalmente dal fatto che per ora non è la priorità e pensiamo che sia la nostra musica a dover trasmettere sensazioni emotive a chi ci ascolta. Indubbiamente il nostro cantante è tipo ansioso ma la sua espressione seriosa è risultato di forte concentrazione e passione.

Per ora non avete nessun album pronto. Tra le varie motivazioni che ci hanno spinto a dare a voi il premio Rockambula c’è: “una delle band di cui ascolteremmo molto volentieri il prossimo disco”.  Ce n’è uno in cantiere?
Attualmente stiamo per entrare in studio per registrare il nostro primo cd; vi diamo qualche anticipazione, si chiamerà Lust e sarà composto di otto o nove brani, sette li avete già ascoltati live e due che stiamo selezionando tra il corposo materiale a nostra a disposizione.

Vi faccio il nostro “in bocca al lupo”.

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John Grant – Pale Green Ghosts

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L’abito non fa il monaco”, recita un vecchio adagio popolare. Infatti, a giudizio esclusivo della front cover – non eccezionale, ammettiamolo – il secondo appuntamento discografico di John Grant (già leader dei Czars), Pale Green Ghosts, si configura a prima vista come il solito e dozzinale prodotto Country statunitense, elemento che ben si accorda con l’estrazione geografica del soggetto in questione (la cittadina di Parker, Colorado). Ed invece no. Pale Green Ghosts é tutta un’altra storia. ”Non é lo stesso fottuto campo da gioco, non é lo stesso campionato e non é nemmeno lo stesso sport”, affermerebbe seccato Samuel Lee Jackson nei panni del sicario filosofo Jules Winnfield.

L’esordio solista di Grant si concretizza in Queen of Denmark, dato alle stampe nel dicembre 2010 ed accolto nel panorama discografico internazionale con il plauso unanime di critica e pubblico (album dell’anno secondo l’influente rivista specializzata Mojo). Il cantautore di Denver, dopo la militanza decennale negli Czars e la malinconica esperienza Folk Rock dei Midlake, persevera nel proprio percorso artistico dando libero sfogo al lato più sintetico della sua indole creativa, riportando alla luce (soprattutto nelle bonus tracks della versione deluxe) le fredde e marziali partiture elettroniche di New Order, Ultravox e Depeche Mode, straordinarie colonne sonore di una generazione indomita e ribelle che affollava i club Synth Wave sul finire dei mitici anni ottanta.

Tutto sembra girare per il meglio, quando… deus ex machina. Grant viene a conoscenza di una realtà infausta e terribile: la positività al virus HIV. A questo punto bisogna ricomporre con lucida pazienza i frammenti di un’esistenza trascorsa tra follie ed eccessi di ogni genere, archiviare definitivamente il passato nell’angolo più remoto della coscienza per cavalcare, ancora una volta, la cresta più alta dell’onda. Un bisogno impellente di tranquillità, da raggiungere ad ogni costo, con ogni mezzo. Il cantautore statunitense sceglie la via dell’esilio, emigrando tra i solitari ghiacci d’Islanda dove, nel celebre studio Oroom di Reykjavik, viene alla luce Pale Green Ghosts, con il fondamentale contributo artistico di Chris Pemberton (il tastierista che da tempo accompagna Grant nei suoi tour), Birgir Þórarinsson dei Gus Gus, Paul Alexander e Mckenzie Smith (rispettivamente bassista e batterista dei Midlake, presenti in due ballate ortodosse come “Vietnam” e “It Doesn’t Matter to Him”), il sassofonista Óskar Gudjónsson e la celeberrima Sinead O’Connor nell’inedita e compiaciuta veste di backing singer (autrice di una splendida performance in “Why Don’t You Love me Anymore”). Il multiforme e tormentato Pop/Folk Rock targato Czars/Midlake viene ripetutamente filtrato attraverso un flusso elettronico malsano, percussivo e minimale (particolarmente evidente nella title track “Pale Green Ghosts”), vero e proprio marchio distintivo del talentuoso Birgir Þórarinsson a.k.a. Biggi Veira, partorito attraverso l’ausilio di drum machine e sintetizzatori dal sapore squisitamente ottantiano. Troneggia su tutto il sorprendente registro baritonale di Grant, in grado di regalarci, per l’ennesima volta, liriche estremamente pungenti e sarcastiche (assolutamente fantastico in “GMF”: “sono il più grande figlio di puttana che potrai mai incontrare”); esperienze di vita vissuta, cronache di prostrazione e rivalsa, omosessualità ed omofobia, fino alla sconvolgente rivelazione della positività all’HIV, affidata al sax tenore di Óskar Gudjónsson nel brano “Ernest Borgnine” (“dad keep looking at me says I got the disease…”).

Per i feticisti del dettaglio: lo stesso John Grant, rievocando con una certa dose di malinconia gli anni ruggenti della gioventù, rivela che all’epoca era solito percorrere l’interstate 25 per raggiungere i vari club Synth Wave della zona; nei quaranta chilometri del tratto Denver – Boulder l’autostrada era fiancheggiata da numerose piantagioni di ulivi russi, le cui piccole foglie argentate acquisivano una particolare luminosità al chiaro di luna (le Pale Green Ghosts del titolo, per capirci). Fenomenologia e poetica dell’immagine, celebrazione tramite emotività e ricordo, rappresentazione figurativa che di per sé vale già il prezzo il biglietto.

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Fitz And The Tantrums: annunciata l’unica data italiana

Written by Senza categoria

Reduce dal clamoroso successo dell’album di debutto del 2010 Pickin’ Up the Pieces, la band soul pop di Los Angeles arriva in Italia per un’unica data per presentare il nuovo More Than Just a Dream, in uscita il 7 maggio del 2014. Prodotto da Tony Hoffer (Beck, M83, Depeche Mode, Phoenix) presso The Sound Factory, Studio B a Los Angeles, il nuovo lavoro sarà pubblicato da Elektra Records. Sarà possibile sentire la band dal vivo in un’unica data italiana, al Tunnel di Milano il prossimo 14 marzo.

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Yumiko – Tutto da Rifare

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Ascolto: in macchina verso un week end di live

Umore: soleggiato e rilassato come di chi scappa dalla sua vita.

Davvero, e questo non significa che ho ascoltato solo questo, il disco degli Yumiko si può spiegare tutto dai primi trenta secondi del primo pezzo. O meglio, l’ascolto di tutto il disco conferma pienamente l’impressione di pancia che l’incipit ti fornisce. Produzione stratosferica, suoni sintetici di gran gusto e potenza, sezione ritmica europea e un timbro di voce non particolarmente riconoscibile ma pur sempre capace e adatto al suono complessivo del progetto. A questo punto in una recensione interviene il signor MA e questo è il punto in cui nella mia irrompe a gamba tesa come un arcigno difensore di annata: il punto dolente degli Yumiko, o per lo meno del loro disco “Tutto da rifare”, è il messaggio testuale. Faccio la telecronaca dei miei pensieri in quei fatidici trenta secondi di cui ho parlato: metto su il disco e subito si staglia un basso synth potentissimo e distorto, ecco che entra la batteria con un quattro quarti ruggente e al tempo stesso non antico, campioni e riverberi in sottofondo non banali (questo è davvero piacevolmente inusuale),  poi entra la voce;  dico ” ok,  timbro alla Depeche Mode, ci sta tutto”, assaporo meglio come un degustatore di vino con l’orecchio la linea della voce pensando “questa linea l’ho già sentita dai Depeche Mode, poco male, pure Morricone dice che il plagio nella musica moderna non esiste”, mi gusto ancora un pò l’arrangiamento ossevando che anche le doppie voci per terze siano stilisticamente vicine a quelle di Dave Gahan e soci, ma mi piacciono quindi prosaicamente penso “Sti cazzi!!!”.

Il pezzo oramai è al culmine della salita verso il ritornello, ci siamo quasi. Il mio spirito sta già danzando e si aspetta una frase di quelle che dice tutto e non dice nulla, una di quelle cose che ti rimangono in testa per tutto il giorno, una di quelle cose che sotto la doccia stai tutto il tempo a rimuginare sull’interpretazione giusta e sulla bellezza della scelta della parole. Arriva il ritornello e cito testualmente: “Fammi entrare nel tuo inferno, l’unica sicura via per capire in fondo la follia”.  E’ la poca cura delle parole e il criminale uso italiano della rima baciata che distingue un disco da ascoltare sotto la doccia da uno che ti fa pensare sotto la doccia.

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Cockoo – Buongiorno

Written by Recensioni

Dopo il buon esordio con “La Teoria degli Atomi” che fu prodotto artisticamente nel lontano ottobre 2009  da Max Zanotti (Deasonika, Rezophonic) tornano finalmente gli astigiani Cockoo, che tanto devono a gruppi quali Bluvertigo e Subsonica. L’Elettronica è infatti il filo conduttore di Buongiorno, racconto di un risveglio, il risveglio di una persona che scopre un nuovo modo di vedere e percepire il mondo, non solo come una realtà esterna, ma anche come dimensione interiore di emozioni, intuizioni, sogni e anche un po’ di magia. L’episodio migliore rimane certamente il singolo estratto dall’album, “Baby” (bellissimi i versi “Sai l’amore è una cosa che si impara”)ma anche “Nel Bianco dei Tuoi Occhi” in cui ci sono persino echi dei primi Depeche Mode e della più pura New Wave anni Ottanta.

I tempi scanditi alla perfezione in “La Leggenda Personale” ricordano all’ascoltatore che per sentire musica di questo genere non è necessario sconfinare (in fondo l’Italia musicale ha ancora tanto da dire). La melodica “Il Mio Corpo” potrebbe quasi essere considerata una sorta di spartiacque con la sua diversità che introduce alla durezza del basso e della batteria di “Supernova”. La successiva “Kafka” ha il sapore intellettuale ma anche quello alternativo degli americani Deftones e Korn e in essa il gruppo fa capire di essere maturato tantissimo a livello di arrangiamenti. Insomma nel complesso un lavoro fatto di suoni raffinati e batterie impetuose, di basse vertiginose e dimensioni oniriche, di beat elettrici, di viaggi elettronici e sensazioni acustiche (che troverete tutte nella title track) e di un Pop smaliziato e gradevole che non scade mai nel banale.

Fantastica poi la traccia che chiude il tutto, “Lady G” in cui le chitarre e le tastiere viaggiano di pari passo a braccetto senza mai lasciarsi. Se con la loro prima prova discografica i Cockoo avevano saputo far parlare di sé tanto da aggiudicarsi la “Targa Giovani 2010” al M.E.I. 2011 e il “Premio Testi Opera Prima” al Festival Internazionale della Poesia di Genova sezione Musica c’è da scommettere ora che potrebbero essere la sorpresa di questo autunno musicale.

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La Band Della Settimana: Christine Plays Viola

Written by Novità

La band abruzzese è ormai una vecchia conoscenza per i più affezionati lettori di Rockambula, dopo la recensione del loro ultimo Ep, la video intervista realizzata sempre da Ulderico Liberatore e il live report ad opera di Riccardo Merolli. Chi li ha imparati a conoscere sarà rimasto affascinato dalla loro musica misto di Darkwave, Gothic e Post Punk, tra Depeche Mode, Piano Magic, Christian Death, Bauhaus e Sister of Mercy.

Ora la redazione di Rockambula ha deciso di premiare i Christine Plays Viola freschi del ritorno dall’ennesima data fuori dai confini italiani. Zurigo è solo l’ultima tappa di una serie interminabile di date in cui Massimo Ciampani, Fabrizio Giampietro,  Desio Presutti e  Daniele Palombizio si sono esibiti in giro per l’Europa. In attesa di assistere alla loro esplosione anche in terra italiana, gustiamoci ancora il sound oscuro dei Christine Plays Viola.

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Midnight Faces – Fornication

Written by Recensioni

Le due facce di mezzanotte che stanno dietro a questo progetto arrivato direttamente dalla capitale dello stato capitalista per eccellenza sono Philip Stancil e Matthew Warn. Warn inizia ben presto a fare musica con un amico d’infanzia, Jonny Pierce, poi voce dei The Drums (con lui Jacob Graham, Adam Kessler e Connor Hanwick), band Indie Pop in orbita dal 2009, con all’attivo due full lenght, l’omonimo esordio e “Portamento” del 2010, oltre a numerosi singoli, Ep e partecipazioni a compilation. Dopo un primo album pubblicato con l’amico Pierce, Warn fonda insieme a Josh Tillman (dall’anno scorso ex batterista dei Fleet Foxes, oggi più noto come Father John Misty), i Saxon Shore, formazione Post Rock di buonissimo livello.

I Midnight Faces nascono dall’incontro di Warn con Philip Stancil, anche lui cresciuto con la musica intorno, giacché la sua è proprio una famiglia di musicisti. Warn aveva già realizzato le parti strumentali e invitò quello che ne è il compagno artistico ad aggiungere le sezioni vocali. Prese cosi vita questo Fornication.

Dieci tracce, dieci canzoni melodicamente Pop ma dai mille retrogusti. Si passa da alcuni momenti più oscuri, quasi Darkwave, specie nella sezione ritmica e negli echi delle chitarre (“Fornication”, “Kingdome Come” “Turn Back”), ad altri nei quali la vocalità e l’approccio cantautorale di Stancil prendono il sopravvento (“Identity”, “Heartless”). Tanti sono i passaggi nei quali l’Alt Rock (“Crowed Halls”) si addolcisce per seguire strade più popolari e di più facile ascolto (“Give In Give Out”, “Now I’m Done”), grazie anche a un’attenta e puntuale ricerca melodica e moltissime sono le congiunture nelle quali tutta la vita di Warn e quindi le sue conoscenze personali, più o meno dirette (abbiamo detto The Drums, Fleet Foxes, Saxon Shore), sono riportate in musica. I brani più riusciti sono quelli nei quali il Dream Pop particolarmente sintetico si sposa con l’elettronica creando suggestive ambientazioni filmiche, a tratti danzereccie quasi eighties (“Feel This Way”, “Give In Give Out”, “Kingdome Come”) in uno stile perfetto che richiama il grande Anthony Gonzales (M83) ma anche, volendo ampliare il proprio spettro di vedute, i Depeche Mode (“Holding On”), cosi come gli Slowdive, ovviamente con ritmi più dinamici.

Un disco che miscela quindi atmosfera e melodia, con cura ed eleganza, puntando forte sulla voce ma senza tralasciare l’aspetto strumentale, elettronico soprattutto. Sceglie melodie orecchiabili e non calca troppo la mano su artifizi di alcun tipo finendo però per sprofondare nell’altro versante della questione. Eccessiva semplicità che si trasforma in povertà d’appeal e melodie che, per quanto gradevoli, finiscono per essere di facile oblio, perché troppo simili le une alle altre. Dieci episodi che si presentano, in linea di massima, tutti ugualmente apprezzabili e facilmente godibili, senza però riuscire a suscitare un interesse che vada oltre la semplice amabilità sonora. Per chiudere, se avete difficoltà a trovare mezze misure, questo è il disco perfetto per affibbiare la vostra sufficienza, niente di più, niente di meno, almeno per questa volta.

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