Angelo Violante Author

Nicolò Carnesi – Ho una Galassia nell’Armadio

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Luogo d’ascolto: sotto un albero, vicino ad un autostrada.

Umore d’ascolto: come di chi pensi che quello sotto cui sta ascoltando Carnesi è l’unico albero rimasto nel mondo.

Il secondo disco è sempre una cartina al tornasole per capire l’evoluzione di un artista. Se il primo è quello dell’ingenuità, delle idee potenti e potenziali buttate alla rinfusa, il secondo è quello della strada dritta, della precisione, quello che fa capire a quale velocità potrà andare la macchina. Avevo sentito parlare di Nicolò Carnesi tempo fa come un promettente autore della cerchia gravitante intorno a Brunori Sas e la sua Picicca dischi; non avevo ancora ascoltato nulla e quindi, come spesso avviene, appena mi è arrivato all’orecchio la news del suo secondo disco Ho una Galassia nell’Armadio sono andato il giorno stesso a spizzare su youtube il suo primo singolo “La Rotazione”. Mi ha colpito molto il suo timbro che richiama in alcuni passaggi un certo Battisti anni 80 o magari Graziani nella ricerca di melodie apparentemente semplici ma subito catchy e quindi tutt’altro che banali, magari anche Branduardi nel profilo della chioma e nella tendenza ad andare sulle note alte con la voce sottile sottile sottile. Mi ha davvero colpito la produzione del pezzo. Di lì il passo al disco e alla recensione è stato immediato. Ho scoperto che Nicolò è davvero un ottimo autore e che davvero la sua voce ha sfumature molto particolari e che i suoi testi sono un miscuglio ben riuscito di cielo e terra, di stelle e di asfalto. Questo secondo disco ha spalancato un’autostrada su cui Carnesi può portare tutto il suo talento a 200 all’ora verso il pubblico più vasto che si possa aspettare da un cantautore. Ho una Galassia nell’Armadio è un perfetto esempio di Pop impegnato, leggero nei suoni, non forzatamente pretenzioso nei temi, mai banale nelle scelte stilistiche. Dicevo della produzione: Tommaso Colliva è un maestro dei suoni e in questo disco ha l’indiscusso merito di spostare l’ambiente musicale in cui Carnesi si era mosso nel suo precedente lavoro in un territorio più europeo, in un territorio di suoni di synth analogici e pad soffusi quasi Dance, di spruzzate di Funk bianco alla Alan Sorrenti che ben si adattano a versi come “ Campa ragazzo che l’erba cresce e la fumi pure, la felicità la trovi in farmacia, tra vita e morte c’è di mezzo uno stato neutrale, ma non è la Svizzera”. Un terreno su cui il timbro di Carnesi ne esce valorizzato e rende piacevole anche l’ascolto meno attento, tipo quello della fantomatica casalinga di Voghera mentre fa le pulizie di casa.

Tra i pezzi più riusciti sicuramente “ Numeri”, testo meraviglioso e musica da ascoltare ad occhi chiusi in una giornata assolata e con il sorriso stampato in faccia, sotto l’ombra: “poi uso troppo gli addii, forse per paura di riceverli”, un verso illuminante e malinconico che colpisce in quella canzone come una carezza di un genitore che sta partendo. Ho sempre pensato che l’attenzione alla produzione e alla possibile fruizione del lavoro discografico, chi mi conosce lo sa, sia un pregio inestimabile di una produzione, l’unica cosa che rende un talentuoso autore di canzoncine un artista da classifica e un riferimento per una scena. Dieci più al Signor Colliva, mi sbilancio. E un buon sette e mezzo per questo giovane Carnesi che fa ben sperare per il terzo disco, quello del salto nel vuoto contro lo zoccolo duro dei fan della prima ora che ti vorrebbero sempre identico a te stesso ma anche criticabile proprio per questo. Per il momento non è il caso di pensarci ma di goderci questo, di ancheggiare un po’ sul posto e magari di fare le pulizie ad alto volume senza necessariamente riflettere. Perchè la musica, ricordiamocelo sempre, è la colonna sonora della giornata e un modo per sublimare il quotidiano, non solo e non per forza in ogni ascolto un modo per elevare lo spirito. Carnesi lo ha capito.

Lunga Vita a Carnesi.

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Rebis – Naufragati nel Deserto

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In un mondo musicale Indie in cui spesso fa la voce grossa in termini di copertura mediatica il suono e spesso il volume di musicisti nel più dei casi poco dotati armonicamente e tecnicamente, fa strano ascoltare un disco come quello dei Rebis. Fa strano innanzitutto perché la loro musica è acustica e popolare e poi perché non ha la pretesa di essere di moda ed in questo risulta piuttosto genuina, oltre che ben curata. Un disco che ti riempie la testa di suggestioni cinematografiche e di paesaggi sabbiosi, di paesi del sud del mondo in cui la musica è ancora un veicolo per raccontare storie ataviche e antiche e per ballare danze che si sanno senza sapere di saperle, che arrivano da chissà dove e forse da posti che hanno a che fare con la nostra infanzia. Dicevo del Mediterraneo: in questo lavoro dei Rebis ci sono molte delle lingue che si affacciano su questo grande ventre di acqua che unisce culture diverse ma al tempo stesso radicate nella stessa terra storica: l’italiano, il dialetto siciliano, l’arabo e persino il francese di colonie africane come Tunisia e Algeria o Marocco.

Troviamo musicisti molto capaci e arrangiamenti curati sempre a cavallo tra la musica d’ autore e etno; troviamo violini, clarini, chitarre acustiche e classiche, troviamo echi gitani e persino klezmer. Nonostante tutto questo e nonostante ci siano ottimi pezzi nella tracklist (per esempio “Naufragata nel Deserto”con quell’andamento ciondolante tipico del quarto col punto e con il passaggio cromatico in minore, oppure “La Notte di S.Giovanni” ben orchestrata in una danza tra il Soft Prog e il Jazz), il disco alla fine risulta un po’ troppo lungo e denota una certa carenza di melodie davvero popolari; spesso la voce si trascina un po’ nel lamento facile e prende spesso un’inclinazione operistica un po’ posticcia. Il finale del disco complessivamente sembra più debole dell’inizio, esempio ne è l’indulgere in varie ballate chitarra e voce. Complessivamente un disco meritevole di ascolto ma non troppo profondo nella ricerca musicale per renderlo un disco memorabile di musica popolare.

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Be Forest – Earthbeat

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Luogo d’ascolto: davanti ad una puntata di Ballarò senza volume, il miglior modo per capire la politica, guardando solo le facce.

Umore: come di chi non si spiega perché ha voglia di pulire lo schermo con la carta igienica.

Secondo lavoro a distanza di tre anni (il primo Cold era del 2011) per i pesaresi Be Forest. Pesaro in musica, dove l’avevo già incontrata? Già, poco tempo fa avevo recensito il disco dei Soviet Soviet che condividono con i Be Forest la provenienza. Evidentemente non è un caso, seppur con mio sommo stupore considerato il clima e la vocazione estiva della città marchigiana, perché lì dove la cadenza abruzzese cede il passo a quella riminese deve esserci una scena molto devota a certo tipo di atmosfere musicali demodè e piuttosto 80’s. Non che i Be Forest siano simili ai Soviet Soviet, per carità, il punto di contatto è che entrambe le band sembrano attingere a quel lato più cupo e ipnotico di quegli anni Ottanta che furono di band come, la prima che mi viene in mente e senza nemmeno sforzarmi, i Cure. Operazione meritoria, troppo spesso e per troppo tempo quegli anni li abbiamo identificati con le spalline di Simon Le Bon e i colpi di sole di Nick Rhodes, invece in quegli anni si costruì quel movimento che avrebbe influenzato sotterranei di rock di almeno altri tre decenni, benché riconoscerlo non era facile e spesso lo si arguiva solo dai riferimenti che professavano band che risultavano molto diverse in termini di proposta musicale. In questa ventata di Alt Rock tutta italiana invece sembra di sentire proprio quell’odore di quegli anni, in maniera chiara ed inequivocabile, non solo per le armonie o le progressioni dei pezzi ma anche e forse soprattutto per i mixaggi. In Earthbeat i riverberi sembrano ricostruiti fedelmente ad immagine e somiglianza di quelli dei tempi che furono, tutto sembra esser stato scelto in funzione di un’idea onomatopeica della musica, di un disco che evochi i suoni della natura. L’uso insistito di timpano e di linee di basso ostinate sugli ottavi ricorda i addirittura i primi U2, i temi della chitarra sono così soffusi da integrarsi benissimo con la voce fredda di Costanza Delle Rose come due fari di una macchina nella neve al buio.

Il disco inizia con ben undici secondi di silenzio prima di “Totem”, il primo pezzo, ed è sicuramente una scelta rischiosa perché presta subito il fianco alla battutaccia del recensore stronzo “sono gli undici secondi migliori del disco”; non sarà il mio caso perché il disco l’ho ascoltato più volte e l’ho gradito dal primo ascolto. Inizia e segnalo un arpeggio molto simile ad una suoneria di iphone: mi ha messo diverse volte in difficoltà perché pensavo di ricevere una chiamata ogni qual volta mettevo su il disco. Tra i pezzi da segnalare in una tracklist che scorre via fluida ma anche fin troppo liquida c’è sicuramente “Ghost Dance” tutta imperniata con melodie pentatoniche dal vago sapore giapponese che sembrano scritte usando solo i tasti neri di un piano, impreziosita anche da un bel suono di synth analogico molto vintage; inoltre “Sparale”, onomatopeica e ipnotica con il suo tema costruito su una scala maggiore ripetuto fino allo sfinimento che riesce a riprodurre mirabilmente l’idea visiva di uno scintillio, che poi diventa un abbaglio e poi colpo di sole che alla fine ti stordisce per quanto è ossessiva. Complessivamente i Be Forest, rispetto al primo lavoro (lo dico senza mezzi termini, mi è piaciuto di più) cercano una normale e fisiologica evoluzione che solo in parte si è sostanziata in idee musicali valide. Sembra che vogliano andare verso una direzione ma ancora non hanno chiara la strada da percorrere. I pezzi sembrano non esplodere mai e rimangono sempre molto sospesi in un terreno emotivo in cui l’ascolto finisce per essere disorientato. In questo disco è altissimo il rischio di non ricordarsi un pezzo più di un altro, altissimo il rischio di non mettere il disco per ascoltare ma per accompagnare con il sottofondo un’altra attività, fortissimo la sensazione che utilizzare lo stesso chorus su ogni chitarra del disco finisca per azzopparne la versatilità.

Forse però il vero problema è un altro ed è il mio: forse il problema che ho recensito i Soviet Soviet prima di loro e forse, non so se succedeva anche negli anni Ottanta, al secondo disco in quindici giorni questa scena comincia a diventare moda, comincia già a risultare un po’ posticcia. In due parole mi ha rotto un po’ i coglioni.

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Mark Lanegan – Imitations

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Luogo di ascolto: in macchina nel tentativo disperato di incassare un assegno prima del fine settimana.

Umore: come di uno che sta per fare un fine settimana dispendioso.

Mark Lanegan è affetto da un morbo serio e debilitante, nel suo caso è stato colpito da poco e la malattia è solo ai primi stadi: l’ex vocalist degli Screaming Trees è malato della sindrome di Morgan. Già, quella malattia che nei periodi di magra creativa spinge l’ex leader di una band ben riuscita ad uscire con dei dischi di meravigliose canzoni di altri, o come fa figo chiamarle, cover. Certo nel caso di Morgan la malattia che giustamente porta il suo nome è ai massimi livelli, il suo personaggio televisivo oramai è diventato ipertrofico rispetto alla caratura di artista di cui oramai non si ricorda nemmeno un pezzo degno di nota ma molte acconciature di gran bizzarria. Torniamo a Lanegan, Imitations (il titolo è chiaramente esplicativo degli intenti con cui lo si è registrato, evidentemente) è un disco di cover a cui non si può voler male ma nemmeno dire un mondo di bene. L’occhio tra le dodici canzoni che compongono la tracklist mi è caduto subito sull’ultima, “Autumn Leaves” quindi l’ascolto ha seguito una strada piuttosto sghimbescia (per quelli che leggono Signorini, significa storta): era troppa la curiosità di sapere come sir Lanegan avesse affrontato il pezzo più interpretato del sistema solare, sconquassato da sbrodolamenti jazzistici per 40 anni, infangato con versioni in inglese tradotte a membro di segugio (per i lettori di Signorini: a cazzo di cane), deturpato con pronunce francesi improponibili da parte per lo più di inglesi che non sanno altre lingue e dicono agli italiani che non sanno cantare in inglese. Direi che con “Autumn Leaves”, date le premesse, Mark se l’è cavata abbastanza bene; nulla di più però di un buon pezzo riarrangiato in maniera da calcare finalmente il battere di ogni accordo come mi ero disabituato a sentire dopo decenni di spostamenti ritmici swing, con un bell’arrangiamento di archi e batteria in modalità spazzole.

Mark Lanegan penso sia l’unico al mondo, al pari di Johnny Cash, a potersi permettere di cantare a tonalità subumane, avere la presenza scenica della stele di Rosetta (per i lettori di Signorini, il gossip qui non c’entra, Rosetta non è mai entrata nella casa del grande fratello) e al tempo stesso rapirti dal vivo come se non ti trovassi più a casa tua o in un palazzetto dello sport. Quando ascolti la voce di Mark Lanegan la sabbia che al mare trovi nelle pieghe dei pantaloni diventa terra rossa del deserto del Mohave e il cellulare in tasca diventa una pistola nella fondina. Quando ascolti tutte quelle chitarre arpeggiate dal suono così antico e al tempo stesso così caldo pensi di aver sbagliato a nascere nel vecchio continente e ti bombardi il cervello di suggestioni cinematografiche. Imitations poi non è cantato male, anzi; Lanegan dimostra di essere anche un ottimo emissore di note medio alte, arricchendo la sua tavolozza vocale di sfumature che sinceramente non credevo ci fossero. “Brompton Oratory” è un pezzone, davvero azzeccata l’interpretazione e la cornice, “Mack the Knife” è troppo simpatica in veste Country con le acustiche a fare il contrappunto alla melodia della voce, “Elegie Funebre” invece sembra cantata invece che in francese in coreano tanto è brutta la pronuncia . Il disco non è malaccio, ma è sempre un disco di cover e per di più senza nemmeno rischiare tanto, lo vedrei bene come colonna sonora di Nashville, la nuova serie Sky sul Country, ma nulla di più. Da un popò di artista così è lecito e doveroso aspettarsi un disco solo quando ha materiale per farlo, mica deve pagare le bollette come Morgan.

Almeno spero.

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Mogwai – Rave Tapes

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Ascolto: un album dei Mogwai lo devi sempre ascoltare lontano dalla luce; immaginate un posto piacevole al buio, non in solitudine. Ecco, l’ho ascoltato là.

Umore: un po’ confuso e sudato.

Dovunque si trovino i non più giovanissimi e talentuosi scozzesi sono sicuro che stanno già tremando all’idea che una mia recensione possa stroncargli per sempre la carriera. Scherzi a parte, per spiegare meglio quello che sto per scrivere vorrei partire dal mio ricordo live dei Mogwai: li ho visti due anni fa al Perfect Day di Verona e oltre che guardare un ottimo live ho avuto un’esperienza sonora nuova che tutti i mille e mille live che ho visto mi avevano mai garantito. A metà concerto mi giro per commentare con un mio amico quello che stavo vedendo, scelgo accuratamente quel momento perché la dinamica del pezzo che stavano suonando (non ricordo quale) era scesa di molto. Era uno di quei pezzi lenti, che ad un certo punto riduce al minimo le note, che si fa flebile e pensoso. Scelgo quel momento per dire una frase, una sola frase. Mi giro verso il mio amico e dopo non più di due o tre parole dalle casse mi arriva tra capo e collo un cartone sonoro talmente forte che indietreggio fisicamente di due o tre passi, come se davvero avessi preso un ceffone in uno dei peggiori bar di Caracas. Mai sentita prima una pressione sonora così forte, mai sentita prima un passaggio dal piano al forte così esagerato e così improvviso. Sono rimasto sconcertato e mi sono gasato come un bambino che comincia a capire di non esserlo più. Quei cinque secondi di musica hanno condizionato il mio parere su Rave Tapes. Secondo me, e con questo non voglio essere presuntuoso o tantomeno irrispettoso nei confronti di un gruppo che ammiro sinceramente, non è un gran disco. Più che altro sono convinto che sia interlocutorio. La loro esperienza di scrivere la colonna sonora di Revenants forse ha determinato questo strascico un po’ sbilenco che dichiara una via nuova ma al tempo stesso non la spiega bene. Complessivamente, ed è una tendenza che ho notato in svariati dischi non propriamente mainstream usciti nel 2013, in Raves Tapes c’è poco spazio per i chiaroscuri, per il dialogo tra silenzio e musica. Il fluire di questa assomiglia più ad un rubinetto lasciato aperto a metà nel bagno piuttosto che alla sciacquio ritmico e ristoratore delle onde che modellano la costa. Più un ruscello sotto casa che una cascata nella foresta.

Analizzando qualche pezzo, “Heard About Your Last Night” inizia con scampanellii molto Post Rock e ti fa immaginare uno sviluppo del disco molto diverso, “Simon Ferocius“ è un ipnotico crescendo che incalza lentamente ma alla fine non esplode mai. “Remurdered” invece mi sembra fare eco alla colonna sonora di Escape from New York di Carpenter e questo mi è piaciuto molto: un bass synth dallo spiccato sapore anni 80 fa da perno a tutto il pezzo e detta il crescendo senza segni distintivi melodici che arriva dalle basse frequenze come un terremoto che poi (mi passino la metafora forte) però non devasta. “Blues Hour” , pezzo cantato come un mantra, dà più il senso di autentico Post Rock d’annata, un pezzo lento come se si stessero scaricando le pile all’ipod ed invece energica come se ti stesse ricaricando dentro. In questo pezzo, le onde le senti tutte e ti lavano a meraviglia. Purtroppo in questo disco un episodio piuttosto isolato.

Ricapitolando, un disco dei Mogwai non può prendersi da Angelo Violante un’insufficienza; per definizione e rispetto. Ma il disco mi ha lasciato con un senso di insoddisfazione fastidiosa. Quello che mi è mancato è il dialogo tra il silenzio e il rumore, tra il pieno e il vuoto. Anzi no, mi è mancato proprio il silenzio. Il silenzio è la nota non suonata più bella, quella che ti rende meravigliose le note suonate, quello che ti permette di essere colpito al cuore.

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I Nastri – I Nastri

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Luogo d’ascolto: ai fornelli, as usual.

Umore: di uno che vorrebbe esser tornato da un viaggio in Indocina per capire quanto è prezioso quello che sta cucinando.

Nel comunicato stampa I Nastri ci dicono di aver un’impostazione Elettropop alla Bluvertigo o Subsonica. Ed infatti una certa tendenza ad atmosfere rarefatte in cui le chitarre siano poco incidenti c’è tutta. In “Love Love Love” la metrica serrata della linea melodica, delle parole e un certo sapore di Prog tutto cambi di tempo e organi spinti fanno pensare ai Bluvertigo di “Acidi e basi”. I Subsonica invece proprio non li ho sentiti, troppo diversa l’impostazione rispetto alla Dub House di Samuel e soci. I Nastri esordiscono con un disco molto corposo, di quattordici pezzi. Esordio ambizioso davvero che presuppone la sicurezza che tutti i pezzi siano degni di entrare in un album. Vi dirò, ho pensato che avessero ben riposto questa sicurezza: buone trovate armoniche, voce particolare ma non sgraziata, ottimi suoni e temi di synth e piano, arrangiamento nel complesso molto curato e non troppo easy per essere pop; tutto buono, almeno fino al quarto pezzo “Niente è Importante” o come l’ho subito ribattezzato “Se mi fai un altra rima baciata rimetto”.

Cito testualmente in modo da attenermi ai fatti: “spara a chi non sarò mai, ci crederai, perfetta complice, spara a chi non sarò mai, non mi tradirai, ma dai; sparo a chi non sarò mai, non mi vedrai, continuo a fingere, sparo a chi non sarò mai, tanto già lo sai; non fare rumore, niente è importante… ” e via proseguendo fino alla fine del pezzo. Dopo tale virtuosismo in rima mi sollevo sulla sedia e comincio ad ascoltare gli altri testi. Purtroppo, scoprendo la tracklist, mi rendo conto che il gigantesco disco d’esordio de I Nastri è nient’altro che un buon Ep. Troppi quattordici pezzi per un disco,sarebbe troppo anche per Springsteen. Troppi i brani che manifestano un ego ipertrofico rispetto alla qualità di almeno metà di questi. Troppa pochezza testuale ed esercizio di rime, poggiata su un impianto musicale gradevole che però nel complesso suona un pelino patinato. Le parole spesso sembrano buttate a caso solo per far suonare bene la melodia, senza o con poca ricerca lessicale; per intenderci, come si fa nelle voci guida in pre produzione, registrate in un finto inglese solo per dare l’idea del testo ancora da scrivere, quei provini in cui i versi finiscono sempre con why, faraway o say.

Lo so, direte voi Nastri: ogni pezzo mica deve essere un canto della Divina Commedia e le hit anglosassoni tradotte dall’inglese non sempre sono capolavori testuali. Avete ragione. Absolutely. Ma in Inghilterra quando devono cucinare il loro piatto nazionale aprono un barattolo di pelati e ci si mettono intorno con dei piatti e dopo esser andati di corpo non si puliscono il muscolo detrusore dell’ano (ndr leggi culo). Io invece sono ben fiero di cucinarmi,mentre ascolto il vostro disco, una bella amatriciana e poi di potermi fare un meritato bidet. Comunque dai, vi aspetto ai fornelli per il secondo disco.

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Soviet Soviet – Fate

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Ascolto: in una latitudine del mondo comunque sbagliata

Umore: come di chi si presenta in montagna con la muta da sub

Ci sono lavori come questo che un recensore fatica a recensire. Perché è immensamente più facile spiegare le motivazioni per cui una cosa non ti piace o ti sta sul cazzo che scovare nel dizionario le parole all’altezza di spiegare una cosa che ti piace. Se non ti piace un disco, non dosi le parole, non le scegli accuratamente; ti vengono spontanee, sarà anche per un umanissimo desiderio di lasciar fluire i giudizi negativi che non puoi dare vis à vis nella tua giornata al cliente o al vigile urbano che ti ha appioppato la solita 40 euro di multa per divieto di sosta per trenta centimetri sulle strisce pedonali. Ecco perché sul secondo lavoro dei Soviet Soviet non voglio soffermarmi molto di più di quello che può essere spiegato in poche parole dall’espressione “ Gran bel disco” oppure “Destinati al riscontro pieno e deciso anche fuori dai confini italiani”. Il voto è un bel sette e mezzo come nell’italianissimo gioco delle carte.

Fate è ipnotico, avvolgente, straniante, di quei dischi in cui perfino le imprecisioni ti sembrano messe ad arte. I Soviet Soviet dimostrano appieno di aver digerito la lezione New Wave e Punk, dimostrano di aver pasteggiato con il Post Rock e aver accompagnato il tutto con bicchierate di Dark con abbondante ghiaccio. Il basso suonato sempre con il plettro e costantemente effettato caratterizza non solo le ritmiche ma anche il colore complessivo del disco, finalmente. È piuttosto raro infatti che a livelli underground ci sia un apporto così deciso e caratterizzante del basso. Le linee melodiche sono riproducibili ma mai paracele con un timbro di voce a volte nasale  e a volte slabbrata; si appoggia (o a me dà quell’impressione) nell’interpretazione a qualcosa che ricorda i Placebo ma senza che risulti un’imitazione. Probabilmente ed in maniera in fondo fisiologica e salutare si tratta solo di aver respirato nella stessa aria musicale e di aver mangiato allo stesso piatto. Chitarre dal riverbero talmente figo che non ha solo il potere di valorizzare i temi o le ritmiche, ha anche il potere di teletrasportarti in un altro posto fisico del mondo e in un’altra era, come in “Gone Fast” , pezzo già pronto per uno spot di macchine e di paesaggi ripresi dall’alto. Stop, la mia recensione finisce qui, non c’è bisogno di altre inutili parole per descrivere un bel disco se non “ è un bel disco”. Ad una donna che le devi dire di più di “Ti amo” per spiegarle l’amore?

Anzi no, ci ho ripensato: scendo a capo e riapro il file word per affrontare una considerazione pensata in extremis forse più interessante che mi ha suggerito l’ascolto di questo disco: lo straniamento geografico. Ci sono dei dischi o delle band che ti fanno immaginare anche un intorno fisico e  temporale oppure, al contrario, intorni fisici e temporali che se non li incroci non capisci perché quella musica può venire solo da quella latitudine e da quei paesaggi. I Soviet Soviet hanno questo dono: li ascolti e pensi alla pioggia di Berlino raccolta in pozzanghere che sbuffano tremolanti l’immagine riflessa  del cielo di piombo; ti immagini a camminare, mani in tasca, con una bella tipetta bionda tinta con il chiodo, piercing vistosi sul naso e faccia pallida per Mühlenstrasse, la strada che corre di fianco il muro. Ti immagini di andare a trovare David Bowie nel suo studio mentre sta registrando un nuovo disco Glam Rock. Ti immagini di calciare lattine vuote di birra abbandonate dagli sbandati che si trascinano in zona. Ti immagini il freddo che ti sega le orecchie  e i tuoi guanti di lana tagliati sulle dita e le bottigliette di vodka dentro le tasche del cappotto scuro comprato in un mercatino a Kreuzberg. Ti immagini diverso e trasandato; e più figo, magari anche più alto e con più capelli. Poi mentre continui ad immaginarti, distrattamente leggi la biografia dei Soviet Soviet e vedi che arrivano da Pesaro. Ti ricordi che l’unica volta che hai visto Pesaro era in un’estate torrida mentre sgambettavi sul sedile di un risciò  sul lungo mare con una palma ogni venti metri; le signorone dell’est con i costumi variopinti e i loro visi resi paonazzi dal primo sole. Non arrivavi nemmeno ai pedali. Eri un bimbetto di undici anni occhialuto, un po’ paffuto e con i calzoni corti. Per niente scafato.

Ho sempre pensato che le biografie non servano ad un cazzo.

Cazzo.

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Cinema Bianchini – Qualche Santo Sarà

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La prima cosa che penso quando ascolto “Qualche Santo Sarà” è Jovanotti. La seconda è Grignani. Non perché i Cinema Bianchini siano assimilabili a quello che fanno Lorenzonenazionale o Gianlucatroppobelloperaverecervello; piuttosto perché se da oltre un decennio due riconosciuti campioni di stecca senza tavolo da biliardo, continuano a sfornare dischi che suonino, non dico vocalmente aggraziati, ma quantomeno intonati vuol dire che intonare una linea della voce anche artificialmente (con le immani possibilità del software musicale di nuova generazione) non è così poi difficile. In pratica il discorso è: se addirittura Grignani, da cui ho sentito dal vivo assassinare (oltre le sue, poco male) anche pezzi di Battisti che voleva omaggiare, può fare un disco intonato, ma perché i Cinema Bianchini danno alle stampe un buon disco e poi lo rovinano lasciando tutte le linee di voce stonate? Se è una scelta low profile o low fi, vorrei urlaglielo in modo incontrovertibile, è solo LOW. Anche perché a tratti le linee melodiche dei pezzi di questo sono anche più che accattivanti, sono interessanti e si lascerebbero ascoltare con piacere se non fossero tutte traballanti e incerte nell’intonazione.

Un misto tra Verdena, Timoria dei tempi di “Viaggio Senza Vento” e qualche tirata più Sangiorgesca. Non posso dire che tendenzialmente non possano piacere, posso dire che sicuramente se ne accorgerebbe anche Grignani che il cantante dei Cinema Bianchini stona come un ossesso. Peccato davvero perché anche gli arrangiamenti suonano benino e strizzano l’occhio alla tradizione anglosassone e americana con un batterista in gran forma che dà vita ad un groove danzereccio e non banale. I testi sono ben scritti e nascondono anche qualche bella frasetta da ricordare e sfoggiare con qualche tipa un po’ brilla: “Ci siamo innamorati delle crisi, ci siamo innamorati dell’amore, più dell’amore che della sostanza”. Certo, spero di aver sentito male,  ad un certo punto si sente uno strafalcione grammaticale, un “non smettavamo più” ripetuto due volte in “Mercurio”, che se è una svista è una svista da pennarello rosso nell’occhio; per non dire altro. Concludendo: per essere il primo disco completo, i Cinema Bianchini esordiscono benino, indirizzandosi al segmento dei piccoli adolescenti che si vorrebbero pure emancipare dai loro coetanei discotecari, pur senza grande impegno. Dovrebbero aggiungere all’organico della band due elementi: un Autotune e un correttore di bozze.

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White Lies – Big Tv

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Ascolto: serata da divano, senza pretese.

Umore: discreto senza pretendere molto da sé stessi.

White Lies, che bella band. Vi ricordate gli anni 80? Li conoscete davvero o ne avete solo sentito parlare e quindi ne avete parlato di conseguenza, alimentandone la fama? Riformulo la domanda, vostro onore. È vero, era una domanda pretenziosa. Intendevo dire: siete abbastanza vecchi da sapere cosa davvero c’era in quelli che sono stati tramandati come i favolosi anni 80? Io sì; permettetemi di spiegare: negli anni 80 c’era l’esplosione della produttività affarista yuppie e contemporaneamente la vecchia macchina produttiva che perdeva pezzi con le fabbriche che chiudevano. C’erano le orrende spalline e le giacche colorate e la pelle nera dei primi punk. C’erano gli sfigati di nicchia e c’era Sharon Zampetti della terza C. C’erano, nella società come nella musica, degli eccessi che rendevano squilibrata la percezione di quasi tutto; tutto aveva un bianco ed un nero e quasi sempre il bianco e il nero erano in antitesi. O ascoltavi e ti incupivi a bestia con la New Wave oppure ti gasavi emettendo urletti per i Duran Duran (grande band che abbiamo cominciato a considerare tale venti anni dopo quando le adolescenti son diventate mamme e quando ci siamo sentiti più sicuri della nostra personalità per smettere di odiarli solo perché immensamente belli).

Perché questo sproloquio? Vostro onore, presto detto, non sto divagando. I White Lies sono assolutamente anni 80 e lo riconosci da molte cose: dal modo di cantare di Harry McVeigh (simpatico anche da vedere con quel visetto da British polite boy un po’ paffuto stile cicciabombo dei Take That), sempre su tonalità basse e baritonali alla Jim Kerr dei Simple Minds, dai riverberi usati sul rullante o sulla stessa voce, dagli archi sintetici usati a mo’ di tappetone su cui stendere trame di chitarre rarefatte e martellanti, dagli arpeggiatori bassi e da quel modo di intendere le linee ritmiche dritte che più dritte non si può. Del resto, lo dico da quando avevo i calzoni corti, se la canzone e l’arrangiamento sono fatti come si deve la batteria non ha alcun bisogno di schiodarsi dal quattro quarti (vero Rolling Stones?). Rispetto ai primi due lavori la produzione (di Ed Buller, già a lavoro con gli Suede) è più sofisticata e il suono più mainstream, rimanendo comunque coerente con l’impostazione della band; Big Tv è più bello da sentire sull’impianto di casa, qualcuno direbbe estetizzante, per me è semplicemente più figo.

PERO’. In ogni mio processo mentale c’è sempre un’arringa difensiva o un’ipotesi accusatoria che comporta un “però”.

PERO’ i White Lies sono moderni e non sono tristi.

Però i pezzi sono ben architettati e ipnotici ma non soporiferi, ti fanno muovere la testa su e giù come se stai ascoltando i Joy Division ma pure il bacino come se fossi ad ascoltare Simon Le Bon e soci. Senza dimenticare il battito delle mani e lo scrollo alternato delle spalle con o senza spalline.  Si vostro onore, mentre ascoltavo Big Tv mi sono sorpreso a dimenarmi tra il divano e il frigo: lo confesso. Vostro onore sono un po’ coglione? Si, vostro onore. Ma è un gran disco del terzo millennio, altro che anni 80. Ho concluso vostro onore.

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Yumiko – Tutto da Rifare

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Ascolto: in macchina verso un week end di live

Umore: soleggiato e rilassato come di chi scappa dalla sua vita.

Davvero, e questo non significa che ho ascoltato solo questo, il disco degli Yumiko si può spiegare tutto dai primi trenta secondi del primo pezzo. O meglio, l’ascolto di tutto il disco conferma pienamente l’impressione di pancia che l’incipit ti fornisce. Produzione stratosferica, suoni sintetici di gran gusto e potenza, sezione ritmica europea e un timbro di voce non particolarmente riconoscibile ma pur sempre capace e adatto al suono complessivo del progetto. A questo punto in una recensione interviene il signor MA e questo è il punto in cui nella mia irrompe a gamba tesa come un arcigno difensore di annata: il punto dolente degli Yumiko, o per lo meno del loro disco “Tutto da rifare”, è il messaggio testuale. Faccio la telecronaca dei miei pensieri in quei fatidici trenta secondi di cui ho parlato: metto su il disco e subito si staglia un basso synth potentissimo e distorto, ecco che entra la batteria con un quattro quarti ruggente e al tempo stesso non antico, campioni e riverberi in sottofondo non banali (questo è davvero piacevolmente inusuale),  poi entra la voce;  dico ” ok,  timbro alla Depeche Mode, ci sta tutto”, assaporo meglio come un degustatore di vino con l’orecchio la linea della voce pensando “questa linea l’ho già sentita dai Depeche Mode, poco male, pure Morricone dice che il plagio nella musica moderna non esiste”, mi gusto ancora un pò l’arrangiamento ossevando che anche le doppie voci per terze siano stilisticamente vicine a quelle di Dave Gahan e soci, ma mi piacciono quindi prosaicamente penso “Sti cazzi!!!”.

Il pezzo oramai è al culmine della salita verso il ritornello, ci siamo quasi. Il mio spirito sta già danzando e si aspetta una frase di quelle che dice tutto e non dice nulla, una di quelle cose che ti rimangono in testa per tutto il giorno, una di quelle cose che sotto la doccia stai tutto il tempo a rimuginare sull’interpretazione giusta e sulla bellezza della scelta della parole. Arriva il ritornello e cito testualmente: “Fammi entrare nel tuo inferno, l’unica sicura via per capire in fondo la follia”.  E’ la poca cura delle parole e il criminale uso italiano della rima baciata che distingue un disco da ascoltare sotto la doccia da uno che ti fa pensare sotto la doccia.

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Klogr – Till You Turn

Written by Recensioni

Ascolto: durante la preparazione di un pranzo post sveglia.

Umore: impreparato per il metal di prima mattina.

Confesso una cosa che un recensore non dovrebbe mai dire: non sono il tipo più adatto per recensire un disco di metallo pesante, non mi appartiene come modo di sentire la musica e forse non mi apparteneva neppure quando avevo 14 anni e avevo capelli lunghi e rabbia adolescenziale ammassata in gran quantità dentro. I Klogr per di più non sono nemmeno male e il loro disco si lascia anche ascoltare: riff di chitarra molto energici e ben congegnati, sezione ritmica buona e inappuntabile. La voce è esattamente quello che vuole ascoltare un estimatore dell’Hard Rock, completo il campionario di graffi, urla ad ottave che confinano con i richiami per i cani, metrica dei testi sempre serrata e ben avvitata all’arrangiamento.

I Klogr suonano da manuale ma forse troppo in stile; il metal nei suoi mille e cinquecento rivoli diversi che non ho mai imparato né avuto la pazienza di capire nel dettaglio continua ad essere uno stile inossidabile e sembra nonostante tutto non patire flessioni, forse perché legato ad un pubblico coriaceo e ostile alle mode. Questo, va detto con fermezza, è un punto a favore anche dei Klogr che suonano il loro disco “Till You Turn” davvero con maestria e sorprendentemente come una band planetaria abituata ad esserlo da anni, il che è facilmente riscontrabile nelle ultime tracce registrate dal vivo. Il loro limite, o forse il mio nel doverli giudicare freddamente e senza alcun attaccamento a questo suono, è che non si capisce bene quale band planetaria sia, il disco suona talmente in stile che sembra essere un disco di un’altra band. La coriacea ostilità alle mode ed anche alle contaminazioni che spostano l’asticella del progresso musicale un po’ più in là colpisce, come quasi tutti gli ascoltatori metal, anche i Klogr: troppo attenti ad essere perfetti da sembrare perfettamente una band qualsiasi. Una band di cui non conosco il nome. Ampia sufficienza ai Klogr, pienamente meritata, insufficienza inevitabile per il recensore impreparato.

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The Spezials – Crazy Gravity

Written by Recensioni

Ascolto: in riva al mare. Luogo: Barcellona, spiaggia dei nudisti adiacente  hotel Vela. Umore: vacanziero e tendente alla traversata alcolica della giornata in solitaria.

Dopo aver messo su il disco dei The Spezials il mio primo pensiero e’stato: “ci vorrebbe un’organizzazione che impedisca alle band di ogni latitudine di applicare il flanger sulla voce (nell’intenzione dovrebbe far percepire la voce come se cantasse in una bottiglia e molto più spesso invece la fa arrivare dal mezzo delle tette di una cicciona nera di Harlem al fastfood  dopo la messa della domenica). Ci vorrebbe qualcuno che in giacca e cravatta bussasse alla porta del cantante e lo prendesse a scappellotti sulla nuca urlandogli: “non si fa più”. Flanger e scherzi a parte questo Crazy Gravity e’ un disco davvero godibile, The Spezials sono un trio che nulla ha da invidiare alle band di cui si intravede la scia creativa: Artic Monkeys su tutti. Pezzi tutti molto centrati, sezione ritmica davvero in palla e suono molto ben strutturato. La voce e le tracce di chitarra di Giovanni Toscani hanno nelle corde il pontile sul mare di Brighton, le nebbie dei sobborghi di Manchester e una  dose di rabbia in cravatta, un’ostentazione di precisione estetica quasi Mod, pure qualche eco Ska alla Madness. Pochi appunti alla produzione:  una certa tendenza, secondo me veniale, a suoni di chitarra che portino l’orecchio più negli  Stati Uniti che in Inghilterra e un limite, questo un po’ più grave, nel non lasciare un tema memorabile (forse solo “Two Girls”) alla fine del disco. Mille buone idee musicali. Ogni pezzo ha spunti a sufficienza per tre, troppo per una band che dichiara  la sua vocazione Dance Rock. Peccato, perché le buone premesse ci sono tutte. I The Spezials non devono far capire ad ogni costo e in ogni singolo pezzo quanto siano bravi , la distanza per dimostrare l’ arte si misura in decenni, non in minuti.

I secondi dischi, comunque, esistono per questo.

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