Ivan Filippone Author

Shellac – Dude Incredible

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Vi ricordate di quel derelitto, occhialuto e schivo, che ha forgiato a suon di sferragliate il Rock alternativo degli ultimi trent’anni? Inutile ribadire l’importanza di Steve Albini, sia come musicista che come produttore (tra i più famosi Nirvana e Pixies); ciò che ha veramente rilevanza è che a distanza di sette anni dallo splendido Excellent Italian Greyhound, interrompe il suo mutismo e torna a violentare la nostra psiche con Dude Incredibile ultima fatica dei suoi Shellac. Accompagnato come sempre da Bob Weston (basso) e Todd Trainer (batteria), Albini ci ripropone la sua formula; battito marziale, geometrie pitagoriche e spigolosità chitarristiche, appuntite come cocci aguzzi di bottiglie. Tutto magnificamente abbinato ai classici stop and go da sindrome di Tourette, vero marchio di fabbrica del loro sound.

Certo, la misantropia furiosa del passato (Big Black, Rapeman) si è affievolita, lasciando spazio persino a tratti definibili melodici, senza mai abbandonare quello humor nero e perversamente violento che pervade i suoi testi. La grandezza di Albini è sempre stata quella di vomitare addosso all’umanità le putride meschinità concepite dal cosiddetto homo sapiens sapiens: non a caso la copertina dell’album ritrae due primati che lottano, immortalati nella loro istintività fatta di brutale purezza che risulta meno aberrante di qualsiasi periferia del nostro Paese, dominata da degrado ed emarginazione sociale. La title track apre le danze con oltre sei minuti di cupo e cigolante Post Hardcore a tinte Prog, dove questo power trio dialoga splendidamente generando un frastuono ferroso e controllato. “Complicant” è uno di quei pezzi dove la nevrastenia schizoide dei nostri raggiunge livelli drammatici nei conati finali di Albini, risultando il brano migliore del disco; il Post Rock slintiano di “Riding Bikes” accompagna magistralmente il cantato di Albini che si tuffa in un nostalgico, quanto doloroso, tuffo nel passato fatto di quell’ irriverenza bellicosa che si possiede solo a venti anni. “All the Surveyors” spiazza per la somiglianza con il Crossover rabbioso dei primi Rage Against the Machine; “Mayor/Surveyors“ è una breve jam funkeggiante che ricorda molto i Minutemen in salsa Noise.

“Surveyors” (pionieri) chiude l’album con il suo incedere diretto e viscerale, il ritmo è  scandito come un metronomo dalle sei corde di Albini grattugiate dai suoi plettri di rame, mentre Weston si dimostra uno tra i migliori bassisti in circolazione. A proposito di pionieri, innegabile che Albini lo sia, è altrettanto innegabile che sia un gradasso tirannico e sadico che concede la propria mostruosa genialità con meticolosa intermittenza, vista la cadenza temporale delle sue produzioni da musicista. Ovviamente il disco non è stato promosso con alcuna pubblicità e non ci sarà un tour conseguente, soltanto rare apparizioni live; Albini è  padrone totale della propria libertà compositiva. Può esserci vittoria più grande per un artista? Credo di no…ma ora alzate il volume e  fatevi flaggelare da sua maestà che reclama il proprio tributo, sperando di non dover aspettare di nuovo sette anni.

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Lydia Lunch & Cypress Groove – A Fistful of Desert Blues

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With too much patience and too much pain

I’m going to the mountain with the fire spirit

To make amends for all of me

And the fire will stop

The Gun Club- Fire Spirit (Fire Of Love, Ruby Records, 1981)

Attraversare più di tre decenni di carriera, vissuti pericolosamente e sempre da borderline, adottando come modus vivendi un’insaziabile sete di malsanità e depravazioni di ogni genere. Raschiare il fondo del proprio inconscio, fino quasi all’autodistruzione e poterlo raccontare è fortuna di pochi. A vederla adesso Lydia Lunch, ultracinquantenne, voce ruvida, viso anfibio e consumato, sembra non aver perso quella nevrastenia creativa, che le permette di evolversi continuamente nelle forme sonore più disparate. Quest’anno si presenta nelle vesti di blues woman mortifera, accompagnata dal chitarrista Cypress Groove, alias Tony Chmelik. L’incontro tra i due avviene durante il funerale di Jeffrey Lee Pierce ugola dei grandissimi Gun Club, passato quasi inosservato in vita, morto di emorragia cerebrale nel marzo del 1996 a soli trentasei anni dopo un’esistenza segnata da alcol, droga e malattia. Cypress Groove di nazionalità britannica, collaborò con Pierce quando viveva a Londra, a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Per pura casualità nella sua mansarda Chmelik ritrova alcuni nastri con bozze di canzoni registrate da Pierce prima di morire e decide di contattare alcuni dei suoi più cari amici (Nick Cave, Mick Harvey, Debbie Harry, Mark Lanegan, David E. Edwards ed appunto la Lunch) per formare un’iper band: The Jeffrey Lee Pierce Project e sviluppare quei frammenti sonori.

In quell’occasione la Lunch e Chmelik, registrarono insieme l’ottimo brano Country Noir “St Mark Place”, riproposto nella loro ultima fatica A Fistful Of Desert Blues. Le undici tracce proposte da questo sodalizio funereo, navigano sulle coordinate di un Desert Blues, torbido e sanguinante, sorretto perfettamente dalla voce della Vestale Nera, dalla chitarra dolente di Chmelik e dallo spirito di Ramblin ‘ Pierce. Il paesaggio che ne viene fuori rimanda alle epopee western più crepuscolari di Sam Peckinpah, colme d’inquietudine e peccato; il viaggio attraverso questo deserto dell’anima costa fatica e si rischia di morire di sete o assaliti da un branco di sciacalli puzzolenti e affamati.

Fa da apripista l’ipnotica “Sandpit” dal sapore iberico, “ Devil Winds” incanta con il suo Folk sulfureo e deviato. In “I’ ll Be Damned “ la litania orchestrata dai due tocca vertici di pathos altissimi, “Jericho “ e “Tuscaloosa” sono i brani migliori, ritmati e movimentati dove soprattutto nella chitarra l’influenza di Pierce fa sentire tutto il suo peso. Insomma per i fan più accaniti della Lunch e gli estimatori dei Gun Club, è un album imperdibile. Carico di un misticismo sciamanico e desolante, il disco ci trasporta attraverso un flusso di coscienza rivelatore, dove si cela nascosta la verità più grande; l’amore.

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The Foreign Resort – New Frontiers

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Fino a venti anni fa, in piena epoca Grunge ed Alternative Rock, orde di capelloni, depressi e disillusi in camicia di flanella e jeans strappati si accanivano ferocemente contro tutte quelle sonorità fredde e look da fighetto che rappresentano a tutto tondo quel caleidoscopico calderone denominato Post Punk o New Wave che dir si voglia. Dai primi anni Zero, grazie al successo di gruppi quali Interpol e Franz Ferdinand, è avvenuto un vero e proprio revisionismo storico nei confronti della “Nuova Onda” che ha attraversato il panorama musicale dal 1978 al 1983, regalandoci gemme che risplendono prepotenti ancora oggi nel firmamento Rock. La rivalutazione di tanto spessore e la continua citazione da parte di band emergenti sta rendendo nauseante e borioso il magnetismo oscuro di un’era artistica così estrosa, sia nei costumi e nel make-up, quanto permeata da un nichilismo e da un senso di disgregazione che ha fatto le sue vittime (Ian Curtis e  Adrian Borland su tutti).

I Foreign Resort sono un trio originario di Copenaghen, vero e proprio cuore nero d’Europa (basti pensare agli Ice Age), attivi sin dal 2009 e composto da Mikkel B. Jakobsen (chitarra e voce), Henrik Fischlein (chitarra e basso) e Morten Hansen (batteria e voce). Sfornano questo New Frontiers imbastendo un flusso sonoro carico di velata malinconia e di fantasmi mai svaniti che ormai è divenuto un cliché dal sicuro impatto sul pubblico anche se annoia brutalmente. Mikkel. voce e penna della band, strizza l’occhio a Robert Smith con quel cantato affogato e lontano per tutte e nove le tracce; musicalmente domina la ritmica funerea dei Joy Division , condita ora con elementi Synth Wave tanto cari ai Depeche Mode quanto ai Cocteau Twins, ora da sferragliate di feedback nella migliore tradizione Shoegaze (My Bloody Valentine, Jesus and Mary Chain).  Per quanto i riferimenti ai fasti del passato siano gloriosi, si finisce per essere risucchiati da un vortice tedioso e stucchevole; al massimo cercate un po’ di brio  nello spedito Post Punk a tinte epiche della titletrack.

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Current 93 – I Am the Last of All the Field Fell

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Chi è David Michael Baunting, più comunemente conosciuto come Tibet? Un filo nazista alla ricerca di Agarthi, un nomade errante nel deserto del Gobi o un esperto di occultismo dedito a riti magico-sessuali degni del suo massimo ispiratore Alex Crowley? David Tibet è un mutante poliforme, che più volte ha cambiato pelle nel suo trentennale percorso iniziato da quel maelstorm esoterico che è Nature Unlived,vera liturgia iconoclasta di Industrial dal sapore magmatico. Oltre all’innegabile valore artistico della sua intera opera, gli va riconosciuta la grandezza come uomo in quanto tale, pieno di limiti e per nulla perfetto, che si interroga fino all’ossessione sulle sorti di un’umanità che assume  sempre più i colori e la bizzarria di un quadro di Bosch. Ed eccolo ancora oggi,come Giasone alla testa dei suoi sempre diversi Argonauti (lui unico deus-ex machina del marchio Current 93), ci trascina in un’opera nera come la pece dantesca ed eterea fino alla rarefazione in egual misura.

Accompagnato in questo I Am the Last of All the Field Fell da musicisti d’eccezione, partendo da Jack Barnett dei These New Puritans (organo, sound design, voce), Tony Mc Phee (chitarra), John Zorn (sax), fino al commovente duetto finale con Re Inchiostro. Con “The Invisible Church” il percorso iniziatico si svela con il piano solenne e la chitarra sbilenca che accompagna i salmi drammatici di Tibet bilanciati angelicamente da Bobby Watson dei Comus; arcangeli e diavoli danzano tediosamente in una tregua epocale. Il clima si fa più teso, in “These Flowers Grey” è Zorn a far da padrone con i suoi tocchi ora rabbiosamente Free ed isterici, ora deliziosamente morbidi e malinconici, regalando sacralità a tutto l’album. Il dolore lo attraversa come un dardo lanciato da una balestra, lasciando brucianti ferite emotive colme di contraddizioni e dubbi lancinanti; ciò rende grossolana e superficiale ogni catalogazione dei singoli brani. Non resta che ascoltare e lasciarsi trascinare da Tibet con i suoi cerimoniali arcani, attraverso un percorso di abisso e redenzione che in anni così disumanizzati commuove.

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Ecole Du Ciel – Heartbeat War Drum

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Ecole Du Ciel è un progetto nato nel 2010 a Bari dalle menti di Cosimo Savino (voce, chitarra) Chris Dilfino (batteria, percussioni) e Massimiliano Colamussi (basso, cori), che dopo il loro primo Ep omonimo, martellata Screamo Post Hardcore, ci consegna questo Heart War Drum scarno, combattuto, sanguinante, grondante di emozioni e sentimenti che in contrasto totale tra loro finiscono per dissolversi flebilmente nel vuoto. Resta un’unica certezza, lanciare un urlo stridente per dimostrare a se stessi la propria esistenza, la propria individualità. Apre ”Forever Up There” con un arpeggio di chitarra Post Rock e morbidi cori  fanno presagire un’atmosfera rassicurante; segue “ From My Farthest Shores” pezzo dinamico e distorto, dove le capacità collettive del trio pugliese di fondersi in un dolce frastuono, rendono evidente l’apertura verso altri lidi sonori e la voglia di sperimentare. “Stars Feed On Fire” è un fendente Post Hardcore dritto e veloce che termina in un caos urlato, si allenta il fiato con “Wheelboat” breve intermezzo etereo e quasi scanzonato dove la chitarra elettroacustica dialoga dolcemente con la sezione ritmica.

Ma sono solo due minuti: batteria dal battito epico, basso incalzante in pieno stile Post Punk, riff monocordi ed echi lontani scandiscono il tappeto sonoro della title track ,splendida jam session di sei minuti cadenzata da conati di vomito latrati, che ha il sapore di capolavoro. La conclusiva “Dead Leaves” (Milk Teeth) ci porta in territori Noise ammorbidito da certa psichedelia degli anni novanta(lontano un certo riflesso di Catartica) alternato da improvvisi silenzi un po’ snervantidelineandosi sempre più una progressiva lentezza. Sicuramente non brilleranno per totale originalità ma quello che ne esce è un manifesto di veridicità e schiettezza emotiva non comune. Il merito va anche alla v4v Records italianissima e scopritrice di talenti nel sempre più affollato e variegato panorama underground italiano.

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Have a Nice Life – The Unnatural World

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Ascoltando il secondo disco degli Have A Nice Life, The Unnatural World, si sente un brivido lungo la schiena, quasi come se la morte per settantuno minuti rimarcasse ossessivamente la sua sovranità sulla vita. Dan Barret e Tim Machuga continuano imperterriti, dopo sei lunghi anni dal loro concept Deathconsciousness, a tuffarsi nelle acque più buie dell’animo umano con una passione e un trasporto atroce, congelando minuto dopo minuto le fioche speranze di un individuo alla ricerca della propria stabilità, annullandone completamente l’istinto di autoconservazione. L’eco arriva da lontano, come la loro musica distesa su una fitta coltre sonora, riportandoci indietro a più di tre decenni fa nella nebbiosa periferia di Manchester, dove un ragazzo appassionato di Rock e poesia cantò al mondo la sua disperazione, il senso diinettitudine totale nei confronti tutto ciò che lo circondava ed una solitudine siderale, finendo poi soppresso da tanto peso a soli ventitré anni. Ma The Unnatural World va al di là di semplici riferimenti didascalici e musicali; la sofferenza ce la senti come una morsa che ti stringe lo stomaco e ti lascia senza respiro.

“Guggenheim Wax Museum” apre l’album con un poderoso synth distorto memore dei Depeche Mode di Black Celebration; un cantato baritonale, caldo molto simile a Dave Gahan ma con qualche feedback in più. “Defenstration Song” non rallenta il fiato: un Post Punk diretto e veloce condito di chitarre Post Gaze e litanie industriali sottovoce. L’eterea “Burial City” ci trascina con calma apparente, verso la dissoluzione con tocchi di Ambient; il Drone ancenstrale di “Music Will Unntune the Sky” richiama riti funebri di vestali deliranti. Il capolavoro dell’ album è “Unholy Life” dove basso e batteria creano una struttura ritmica gelida e rassicurante infranta dallo strillo di una lancinante chitarra Noise. “Emptiness Will Eat the Witch” chiude il cerchio con il suo incedere lento e delicato, la chitarra tratteggia contorni indefiniti, il lamento di Barrett è struggente e denso di tetra inquietudine, di chi ha accettato l’ineluttabilità del proprio destino (ricorda molto il Robert Smith di Faith). Un disco non facile: non si gioca a fare il maudit ma ci si confronta con le proprie paure e angosce più recondite , se non si hanno i nervi saldi  ci si può far male.

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Seta – Interferenze

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Leggendo il comunicato stampa del primo album dei Seta, Interferenze, prodotto dall’etichetta veronese Atomic Stuff Records, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un progetto interessante, non tanto per la fusione tra Elettronica e Rock, quanto per la filosofia portante del gruppo che parte da questo concetto fondamentale: “Sid Vicious Is Dead”. Senza rimpianti verso le grandi rockstar del passato, di cui oggi è rimasta solo l’ombra, i Seta si proiettano idealmente verso un futuro musicale fatto di testi “taglienti”e melodie immediate.

No, niente di tutto ciò.

L’omaggio al fuhrer dei Sex Pistols suona oltraggioso ben oltre i limiti oltrepassati in vita dal giovane Punk: il testo di “Sid” ne esalta i lati più eccentrici e trasgressivi ma non come esempio da seguire e questo è di certo un messaggio maturo e responsabile visto che migliaia di adolescenti frustrati ancora oggi prendono esempio da queste icone maledette. Però sono estremamente convinto, che se il buon Simon Ritchie fosse tra noi, ascoltando quest’album, ci avrebbe spruzzato del “vomito amaro”. Ma lasciamo da parte Sid ed entriamo nel vivo di un album che di testi taglienti non lascia alcuna traccia. “Lame Di Luce” ci catapulta verso le sonorità classiche del Rock made in Italy, ed è quasi un biglietto da visita per l’ormai andato Festivalbar. L’elettronica eterea, reminiscenza dei Subsonica e stacchetti di puro Hard Rock (con la buona prova del chitarrista Lorenzo Meuti), non salva il loro sterile e superficiale tentativo di analizzare un tema complesso come “La Follia”.

Quinta traccia (“Per un giorno in più”), primi secondi, sembra Post Punk di matrice inglese, mi rendo conto che sono dei musicisti con esperienza, ma allora perché confezionano un lavoro così banale quando le intenzioni dichiarano altro? Il video su YouTube svela l’arcano: anche i Seta sono intrappolati nell’odiosa estetica hipster: apparentemente insofferenti, annoiati e disinteressati alla materialità della vita, nascondono la loro vera natura attenta alle esigenze commerciali e finiscono per sembrare la caricatura di ciò che avrebbero voluto essere. Inevitabilmente la mia tolleranza arriva al limite ma ho imparato a gestire le emozioni e dopo un bel respiro mi distacco dai miei sentimenti e con tanta buona volontà continuo il mio ascolto professionale. “Romanza” preferisco evitarla, “Istante” ed “Indifferente” si muovono tra un Rock alla Negrita e trascurabili sferzate di synth. “Clock” quasi mi stupisce musicalmente: ritmica potente, tastiere New Wave e la chitarra che fa da padrona rendono l’ascolto piacevole; “Alibi” è condita da un timbro vocale che richiama un Renga più ricercato; l’ultimo pezzo è quasi totalmente sintetico, (non a caso “Syntesi”) composto di House, tribalismi, cori angelici spezzati da un intermezzo silenzioso, è il brano più movimentato e “alternativo” dell’album ma che appare già datato. Insomma, in Interferenze non c’è ricerca, non c’è sperimentazione, non c’è spessore né profondità, tutto è stereotipato dalle solite sonorità nostrane, alle tematiche affrontate nei testi più vicine a Maria de Filippi che al vero Rock.

Allora ai Seta io rispondo: Sid Vicious Was Innocent”.

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Superhorrorfuck – Death Becomes Us

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Superhorrorfuck: un nome che già lascia intendere per esteso l’obiettivo di questo quintetto veronese (rimaneggiato per 3/5 dalla loro line-up originale) che dal 2005 “terrorizza” mezz’Italia con le sue esibizioni sanguigne, irriverenti, fatte apposta per quella fetta di pubblico ancora affascinata dalla teatralità grandguignolesca tipica del re del trash Alice Cooper. Quel che terrorizza di più, in verità, è proprio il loro concept che racchiude quel che di più pacchiano, forzato e grossolano gli anni Ottanta ci hanno offerto. I riferimenti musicali ed estetici dei Superhorrorfuck sono più chiari dell’eccentrico make-up del loro frontman Dr Freak, una sorta di Dee Snider incrociato con un Marilyn Manson un po’ troppo acchittato e dal cantato sguaiato; per completare quest’immagine effetto photoshop, metteteci pure una punta del più aggressivo Axl Rose, se volete. Tutta la scena Street Metal e Glam Metal anni Ottanta (Motley Crue, Twisted Sister, Guns N’ Roses) viene rimescolata all’Horror Punk caro a band inarrivabili come Cramps e Misfits, il tutto senza brillare né per inventiva né per originalità, scadendo in un’avvilente banalità.

Musicalmente la proposta dei Superhorrorfuck non si discosta affatto dai suoi punti di riferimento storici sopra citati: pezzi tirati, riff ed assoloni Hard Rock, coretti e refrain melodici presi dai Bon Jovi più struggenti, ma tutto ciò avviene senza convincere, senza coinvolgere. Già dalla prima traccia “Dead World I Live In”, s’intuisce lo sterile tentativo di riesumare dalle tombe zombie, cannibalismo e satanismo finendo per mettere sul piatto un minestrone kitsch che rende l’ascolto del brano insipido. “Voodoo Holiday” è un pezzo di puro Rock N’ Roll che, per quanto semplice e parodistico, incarna perfettamente il pensiero di questi aspiranti zombie nostrani: “Can you guess how it feels being a rockstar living-corpse? Zombie slayers stalking me to blow away my head, horny groupies huntin’me to blow me on my bed […] Stress is bad for living dead, i need a Voodo holiday!”. E a questo punto quasi rinuncio all’esplorazione dei testi per paura di ritrovarmi di fronte frasi fatte e logore. L’intro drammatico di “The Ballad of Layla Drake” sembra far presagire qualcosa di differente, le tastiere sataniche in sottofondo rendono il brano quasi interessante, ma l’effetto dura poco e si torna subito a danzare con i morti.

Gli episodi migliori del disco sono “Break Your Shit” dalla ritmica spedita e punkeggiante e “Horrorrchy Pt. III, The Lord”, un buon brano Heavy Metal ma questo non basta: Death Becomes Us non può essere salvato neppure da un rito Vudù. Forzatamente controcorrente, forzatamente sopra le righe in realtà non provocano, non stupiscono per presenza scenica, né colpiscono per la qualità della loro musica. Forse destinati a rimanere confinati nella loro nicchia ma probabilmente non desiderano neppure uscirne.

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Babyshambles – Sequel to the Prequel

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Siamo negli anni Zero, il Rock sembra veramente morto dal lontano cinque aprile 1994 dopo quel fatale colpo di fucile che spappolò una delle menti più geniali di tutti i tempi; critici e pubblico gridano “rivoluzione” con l’uscita di Is This It degli Strokes guidati da quel finto rocker sbarbatello che è Julian Casablancas.In contrapposizione, dalla terra d’Albione, spunta un giovanotto dai denti marci, il colorito cirrotico ma con un gusto per il glamour che non lascia indifferenti: lui è Peter Daniell Doherty insieme ai suoi Libertines. Lanciati e prodotti dal grande Mick Jones ebbero un impatto fortissimo sui giovani londinesi e su di me, con le loro divise da guardie reali, completamente strafatti ma capaci di partorire un sound a metà tra Clash e Smiths.

Fu solo un abbaglio, un flash, come uno stupefacente che regala quell’attimo di onnipotenza per poi lasciare ancora più vuoto e insicurezza di prima. Questo è Pete Doherty e la sua arte è inscindibile dal suo stile di vita, dalla tossicodipendenza e dai suoi tormenti da moderno bohemien fuori moda; personaggio controverso che finisce per diventare, a distanza di dieci anni, la parodia di se stesso accettando di partecipare a un reality di tossicodipendenti per la tv inglese dove sforna consigli su come risalire la china ma è pronto, subito dopo, a consumare l’ennesima dose con il compenso ricevuto dalla partecipazione allo show.

Ma qui si sta parlando di musica e di Sequel to Prequel, nuovo album dei Babyshambles che tornano sulle scene dopo un gran brutto periodo (Doherty, Mick Whitnall e Drew Mcconnell hanno avuto un incontro ravvicinato con la morte; i primi due per droga, il bassista in un incidente stradale) con un lavoro paradossalmente solare e autoironico che racconta con leggerezza la loro condizione di disperati ed è forse proprio questo atteggiamento beffardo ad aver salvato Pete Doherty da se stesso e dal buio che si era creato intorno. Prodotto dall’inglese Stephen Street, maestro del Brit Pop, (per intenderci, lo stesso che ha lanciato Blur, Smiths e Cranberries) il disco parte con “Fireman” piccolo capolavoro Punk Rock sgraziato e trascinante come solo il nativo di Hexham riesce a confezionare seguita da “Nothing Comes to Nothing”, ballata Pop melensa e dal sicuro successo commerciale. I brani successivi s’infilano uno dietro l’altro senza particolare grazia, senza distinguersi particolarmente, generando sbadigli e noia fino a “Dr. No” interessante esplorazione nel Reggae più fumoso e bianco. Da citare “Picture me in a Hospital” piccola gemma Folk che rafforza un dubbio atroce che mi porto dietro ormai da anni: Pete Doherty è un poeta o un pagliaccio?

La scelta d’inserire nel disco delle bonus track non risolleva di certo le sorti dei nostri redenti squatter a parte la deliziosa “After Hours”, pretenziosa cover dei Velvet Underground. In sostanza questo lavoro non propone nulla di nuovo rispetto al solito repertorio di Doherty nonostante McConnell abbia fornito un contributo notevole alla realizzazione dell’album, soprattutto nella scrittura dei testi. Alla prima presentazione Doherty si è mostrato con ben novanta minuti di ritardo, insomma, siamo alle solite: di nuovo con una bravata da inguaribile tossico o è l’unico modo per destare l’attenzione del pubblico?

Beh caro Pete, è evidente che la seconda ipotesi è la più veritiera, e ti dico con sincerità che è molto più poetico vedere su You Tube il video in cui canti spensierato per le strade di Bratislava. Inoltre, potresti anche pensare di prenderti una pausa e rinchiuderti in un centro di riabilitazione in modo da schiarirti un po’ le idee.

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Ghiaccio1 – The First EP

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“Non crediamo nell’esistenza dei generi musicali, la musica è un fiume ed è unica, dunque nelle nostre canzoni potrete trovare le influenze di numerosi artisti e numerose altre band”.

È così che si presentano i Ghiaccio 1, quattro (ora diventati tre) audaci e bizzarri musicisti del teramano che mossi da una certa genuinità smaliziata e liberi da ogni pregiudizio, fanno con la musica un po’ quel che vogliono. Ho avuto il piacere di vederli sul palco di Streetambula, contest dedicato a formazioni emergenti Pop e Rock che si è svolto lo scorso 31 agosto a Pratola Peligna e ora vi racconto cosa ne penso. È vero, il loro intento è quello di non aderire a nessun genere in particolare; forse ci riescono o forse no. In realtà il filo conduttore del loro primo lavoro, una demo di quattro tracce, è un Pop camaleontico che assume forme e sfumature diverse durante tutti i sedici altalenanti minuti.

“Tic Tac” parte con un liquid guitar, un basso pulsante e una batteria marziale che si fondono in un Funky abrasivo e incalzante che però puzza di un po’ di Negramaro. “Mary” col suo ritmo allegrotto condito da sferzate di feedback e virate Psych Rock, è un evidente richiamo al Folk italiano che inaspettatamente s’incupisce grazie a un infantile e macabro carillon burtoniano. “Lisergia” è di certo il loro pezzo migliore, chiaro è il riferimento all’immortale Psichedelia di stampo floydiano ed è qui che le capacità tecniche dei nostri giovani abruzzesi si fanno avanti, la voce di Alberto Di Festa perde l’inclinazione melodica per farsi più matura e aspra, chitarre e batteria procedono fluide e decise. Nella conclusiva “Labbra e Fauci” di nuovo prepotente il bisogno di Di Festa e compagni di non rispettare nessun canone musicale proponendo un improbabile connubio tra Verdena e le Vibrazioni conditi con un pizzico di misoginia.

È chiaro i Ghiaccio 1 hanno un forte desiderio di sperimentare, quasi per non sentirsi etichettati o incatenati a un genere preciso; il problema è che la loro eterogeneità rischia d’incamminarsi verso l’inconsistenza, o meglio, nella spersonalizzazione. È bene che s’incanalino invece verso tendenze quantomeno più precise e circoscritte, che costruiscano uno stile personale e riconoscibile, è questo ciò di cui hanno necessariamente bisogno i Ghiaccio 1 e non c’è niente che gli impedisca di riuscire.

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Artic Monkeys – AM

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Tipo strano Alex Turner: considerato dalla critica tra i migliori cantanti della sua generazione, accostato ai nomi più autorevoli del pantheon del Rock su tutti il Modfather Paul Weller; artista capace di togliere quell’odioso ghigno dal volto dei fratelli Gallagher superando il record raggiunto da Definitely Maybe nel 1994 vendendo,con Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not, trecentosessantaquattro mila copie in una settimana, aggiudicandosi così il Guiness dei primati per il “disco di debutto con maggior numero di copie vendute”.

Profeta anti-hype ma al tempo stesso avido opportunista, trasformista a trecentosessanta gradi memore della lezione bowiana,Turner torna a far parlare di sé con AM, quinto e attesissimo album, accompagnato come sempre, dalle sue fedeli Scimmie Artiche. Sin dal primo ascolto ci si rende conto che AM è un lavoro destinato a suscitare pareri discordanti. I fan accaniti si sentiranno in qualche modo traditi dalla loro inversione di tendenza, quelli più distaccati forse ne saranno lieti e, chi ancora non li conosce, probabilmente ci si avvicinerà. Questo disco ci trasporta da subito in morbidi territori Alt Pop in cui suoni più audaci di matrice Rock si amalgamano a languide e pericolose tendenze R&B quasi da boy band; miscela evidente in “One For The Road” pezzo che, col suo cantato melodico alla Justin Timberlake, risulta stucchevole. Una parte oscura si nasconde in AlexTurner, irrequieto beatnik musicale che sembra non trovare pace e quasi quasi mi viene da pensare a un disturbo di personalità ascoltando “R U Mine?” brano che, in un colpo solo, cerca di fondere imprudentemente i Black Sabbath con sonorità Hip-Pop; la cosa sorprendente è che ne viene fuori un pezzo orecchiabile e adatto anche al pubblico più ingenuo.

Un po’ ci si riprende con l’intro di “Arabella” che ha un vago profumo di Morphine e chitarroni anni 70 devoti a Tony Iommi. Vogliono tutto e subito questi Artic Monkeys, lo si capisce da “I Want It All” col suo abbordabile ritornello da Hit Parade contornato da un pulsante Alternative Rock che s’imprime da subito nella mente. Merita di essere citato il video di “Why’d You Only Call Me When You’re High?” perché la dice lunga sull’intento della band; è guardando questo video che capirete molte cose sul contenuto dell’album:protagonista è ovviamente il nostro caro Alex Turner che, con un look alla Gene Vincent, gioca a fare il maledetto perdendosi nei fumi dell’alcol e della mescalina mentre tutto fila via, scontato come un telefilm per teenager,su una base alla Craig David. L’album procede con lentezza fino alla dodicesima e ultima traccia, “I Wanna Be Yours” perfetta per un ballo di fine anno stile America anni Cinquanta. Mi piace pensare che queste sonorità faranno storcere il naso anche a Josh Homme che nel 2009 produsse “Humbug”, disco dalle sonorità squisitamente Stoner ma che già lasciava intravedere una sottile furberia commerciale.

Seppur abili nell’arte del remake-remodel, gli Artic Monkeys di AM mancano di spessore, troppo intenti a confezionare un disco accessibile si dimenticano della sostanza scivolando in una banale palude sonora. Insomma,un lavoro fumoso che non ha di certo alte ambizioni artistiche.

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Echo Bench – Echo Bench

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Siamo in Israele, crepuscolo della civiltà, terra sacra nota per aver dato vita alle religioni monoteiste più influenti del pianeta e ai conflitti più sanguinari della storia dell’umanità ma, di certo,non per aver contribuito in maniera interessante all’evoluzione della scena musicale. Però è proprio dal Vicino Oriente che arriva quest’album cazzuto, diretto, oscuro ma nello stesso tempo piacevolmente orecchiabile grazie a una line-up classica ed essenziale. Shahar Yahalom al basso, Alex Levy alla batteria, voce e chitarra Noga Shatz: loro sono le Echo Bench, tre ragazze che senza mezzi termini fondono abilmente Noise, Post-Punk e un tocco di Pop smaliziato costruendo un sound dall’atmosfera magnetica, a tratti rarefatta ed equilibrata. Suoni scarni, grezzi e lievemente offuscati s’intrecciano alla voce tanto infantile quanto pungente della Shatz che richiama l’enfasi teatrale e disperata di Siouxsie, l’isterismo un po’ addolcito di Lydia Lunch e la carica energica di Exene Cervenka; insomma, ciò che di meglio il gentil sesso abbia mai offerto alla musica Rock. Quest’album d’esordio si apre con l’ammaliante “The Same Mistake” brano dall’incedere quasi meccanico, una sonorità nostalgica e trasognata che stride con la traccia successiva, “Out of The Blue” (la mia preferita), dall’indole imprevedibile e discontinua che con la sua schizofrenia No-Wave ha suscitato in me più di un brivido. Singolare la track numero tre, “High Noon” riempita da un riff penetrante che richiama sensuali sonorità esotiche che con disinvoltura si mescolano ad un soft e personalissimo Psychobilly. L’album procede con coerente attitudine Garage-Noise (“After Party” e “High Roller”) e spirito da Riot Girl fino all’ultima funerea traccia “Flesh a Bone”, il cui basso alla Steve Severin orchestra un teatrino oscuro e ipnotico. Echo Bench è un album che, in fin dei conti, concede poco spazio alla novità, un esordio carico di riferimenti a un passato estremamente sfaccettato, dal retrogusto anni ottanta ma non per questo privo di qualità e intuizioni creative. Disco finemente retrò testimone di un talento destinato a imboccare, si spera, una strada del tutto personale.Non a caso ci ha creduto anche Colin Newman leader dei Wire, che, colpito dal loro stile, ha recentemente realizzato un remix di “French”, nona traccia dell’album.

Artefice di questa brillante scoperta è l’etichetta discografica italiana V4V che, con cinica ironia, amadefinirsi indipeRdente e vi da la possibilità di scaricare gratuitamente dal sito l’intero album di Echo Bench.

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