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L’Inferno di Orfeo – L’Idiota

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Passano due anni dal precedente Canzoni della Voliera e tornano i piemontesi L’Inferno di Orfeo con L’Idiota, un disco decisamente irriverente e con sfumature di Rock da buttare giù a grandi sorsate, rivoluzione interiore al passo con i tempi moderni sempre più bui. L’Idiota nasce sulla base dell’istinto, i pezzi vengono buttati energicamente senza rifletterci troppo, si passa poche volte verso la parte della ragione e i componimenti risultano crudi e viscerali nonostante i riff esprimano in qualche modo una miscela di tristezza e allegria. “La Manovra” apre l’album con una classica canzone italiana dai variegati paragoni di confronto ma con una freschezza comunque personale che narra di un mozzo alle prese con le proprie considerazioni rivolte al capitano della nave incapace di condurla. “La Guerra è Qui” è un pezzo molto interiore fedele alla classica tradizione del Rock leggero cantautorale made in Italy, un modo per riflettere sui sconsiderati atteggiamenti della vita quotidiana. Ballatona dai toni tristi per capirsi meglio.

Non rimango certamente di umore buono. Chitarroni Rock in “Arrampicate” dove L’Inferno di Orfeo tira fuori le proprie radici Prog Rock che non seguono esattamente il passo di quello attuale, sound molto “vecchio” ma non del tutto arrugginito. Si cerca di fare Blues con la traccia “L’Amore ai Tempi del Barbera” e in qualche modo il risultato risulta piacevole nonostante la mia attenzione è rivolta più verso il testo e la voce simil bruciata dalle sigarette che sulla musica. “L’Arte della Manutenzione” dovrebbe essere un brano dal ritmo incalzante ma non riesco mai a lasciarmi trasportare e l’effetto divertimento in poco tempo si trasforma in noia mortale. Non sono abituato a cambi improvvisi di genere, ogni pezzo sembra appartenere ad una diversa band, faccio fatica a rimettere insieme i pezzi. “Col Senno di Voi” inizia a dare il giusto senso al mio ascolto, sarà quella spiccata somiglianza (soprattutto nell’intro) a “Color me Once” dei Violent Femmes o quell’Ambient più cupo, una buona prestazione.

Il pezzo che titola l’album “L’Idiota” è una cavalcata in stile Folk e anche qui trovo piccole ma piacevoli sorprese, forse per la somiglianza voluta all’Indie Folk dei Marta Sui Tubi. L’Inferno di Orfeo descrive “Il Paese che Dorme” come una favola dei giorni nostri immortalata da una polaroid ed effettivamente si sente la paura di sentirsi abbandonati, le sensazioni impazziscono e il brano merita davvero la giusta considerazione. Per la prima volta durante l’intero ascolto de L’idiota sono riuscito a sentirmi sullo stessa frequenza de L’Inferno di Orfeo, riesco a metabolizzare il contenuto e renderlo in qualche modo personale. Ancora Rock che purtroppo non digerisco in “Uguale il Mare”, giuro di essermi impegnato ma la stanchezza delle idee prende il sopravvento. Non trovo il metodo di contatto. Il disco si chiude con “Paola” e gli strumenti elettrici lasciano spazio a quelli acustici per una canzone delicata e dolce quanto un brano dei Negramaro con la voce a fare da padrone. Fermamente senza fissa dimora il mio giudizio verso L’Inferno di Orfeo, quello che non mi piace eguaglia quello che mi piace e la confusione alla fine lascia L’Idiota tra quei dischi che di certo non segneranno quest’annata musicale. Insomma, c’è tutto per fare il salto di qualità basta scegliere la strada da intraprendere.

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Furious Georgie – You Know It

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E’ difficile catalogare il progetto solista di Giorgio Trombino, musicista palermitano che si propone in veste solista sebbene sia già conosciuto per militare in numerosissimi gruppi underground siculi. Il ragazzo spazia molto e lo racconta già la sua biografia. Tra le sue “corde” c’è il Death Metal degli Haemophagus, lo Stoner dei Sergeant Hamster e degli Elevators to the Grateful Sky, fino ai suonatori di colonne sonore Funky-Jazz: The Smuggler Brothers. Un bel minestrone mi verrebbe da dire, ma più che altro nulla a che vedere con questo suo primo album.
Giorgio parte in quarta con il blusaccio di “Giggrind”, voce graffiante, armonica impazzita,  battiti di mani e chitarra acustica sparata a macinare groove. Muddy Waters con un tocco di bianco, sembra quasi che Palermo abbia il suo Jack White. Con “Screaming Parrot” le sonorità si placano e George Harrison benedice uno dei brani tra i più riusciti del progetto, spostando improvvisamente la rotta da una simpatica cavalcata verso gli inferi ad una onirica traversata di nuvole e arcobaleni. Il Blues torna un po’ più ammorbidito con “Day of the Dead” e “Lost and Found”, arrivano anche echi a giovani e vecchi cantautori americani con le loro infinite praterie ed il vento tra i capelli (due nomi? Ryan Adams e Neil Young su tutti). C’è anche spazio per un brano in italiano dalle vedute Progressive, che da ancora più colore al suono. Il pennello però rischia di uscire dalla tela, imbrattando tutto ciò che sta intorno. Le idee di “NGC 6543” sono comunque ottime con echi alla Ziggy Sturdust riuscitissimi, peccato che la canzone sia veramente fuori dal seminato. Sicuramente un pezzo spiazzante e non consono alle sonorità del disco, messo a metà scaletta e di durata nettamente superiore rispetto al resto. Scelta coraggiosa, ma priva di gran senso logico.
Le distanze sono dilatatissime nella cantilena di “Years Gone by” e nella struggente ninna nanna di “Watch the Drift as it Goes”, Furious Georgie dimostra che la musica del diavolo è nelle sua anima e la scarna produzione aiuta semplici canzoni come queste ad elevarsi nell’atmosfera. Nel finale del disco c’è spazio per altre sfumature: la divertente e spensierata “Kiwi Roll”, la furente (sebbene acustica) “Armed Peace” e per concludere la ballata “Young Lard” che strizza l’occhio alle lunghe cavalcate di Jagger e Richards.
Questo è un disco che non annoia. Eterogeneo, variopinto e estroverso. Geogie non ha di certo paura ad esporre la sua immensa e rara creatività, aiutato da una versatilità che è dimostrata non solo da questo album, ma già anche dalle miriadi di diverse collaborazioni a cui partecipa. Il palermitano esprime bene il Blues, gli ampi spazi di un Cantautorato distante, le note lunghe del Progressive e gli episodi più svarionanti del Rock inglese anni 60. Qui però la sensazione è che le grandi idee (che è inutile nasconderlo, ci sono!) siano offuscate dalla foga di mettere troppa carne al fuoco. Peccato perché con qualche pezzo in meno e con qualche melodia in più questo sarebbe stato davvero un disco grandioso. Sperando in meno impulso e più riflessioni, aspetto con ansia il secondo episodio.

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Hola La Poyana! – A Tiny Collection of Songs About Problems Relating to the Opposite Sex

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Raffaele Badas meglio noto come Hola La Poyana! torna dopo l’esordio di sole cinque tracce dello scorso anno che ottenne un buon successo di pubblico e di critica. Le note per la stampa indicano invece per questo disco: “Hola la Poyana è la ricerca dell’intensità attraverso pochi ed essenziali strumenti: chitarra, voce e stomp box, come nella tradizione Blues americana. Vibrazioni acustich epregne di metallico ardore”. Mai parole furono più giuste essendo noi di fronte a una sorta di one man band che non fa mai rimpiangere la quasi totale assenza di altri strumenti.

A parte l’accoppiata chitarra e voce, infatti, si possono sentire soltanto una cassa, delle piccole percussioni ed un violoncello. A volte un po’ Nick Drake, a volte un po’ Beck e talvolta persino un po’ sua maestà “slow hand” Eric Clapton, qui ci troviamo di fronte a un esempio netto di musica nuda e spoglia che sa sempre emozionare agendo in maniera un po’ timida ma convincente. Tra le influenze principali si trovano però anche tracce del blues di Skip James e di Mississippi Fred McDowell, delle ballate Country di Neil Young, del Folk strumentale di John Fahey e persino alcune divagazioni più spiccatamente Indie Rock, il tutto accompagnato da testi in parte ironici e in parte malinconici.

Musica genuina e spontanea quindi che viene dal cuore, come lo era il Grunge degli Alice in Chains (ma qui non troverete però nulla di loro), per questo lavoro registrato egregiamente da Piergiorgio Boi e prodotto in uno stile lo-fi ma molto gradevole da Simone Sedda. Di grande impatto anche la capacità vocale di mr. Badas, impeccabile nella sua pronuncia inglese tanto da sembrare un ibrido fra un Dave Grohl (Nirvana, Foo Fighters) e un Bon Iver. Da pochi giorni è partito il tour dell’artista che lo porterà in giro per tutta la penisola italiana per tre mesi. Se dovesse passare dalle vostre parti occhio quindi a non lasciarvelo sfuggire! Vi potreste pentire della vostra eventuale assenza!

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Milagro Acustico: a Roma per Medina Sound

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Con il nuovo disco Sicilia Araba che verrà presentato il prossimo 28 novembre all’Auditorium Parco della Musica, i Milagro Acustico Medina Sound tornano a parlare della storia remota e oscura della Sicilia araba, periodo storico che ha contraddistinto quasi l’intera produzione discografica e di ricerca del gruppo in venti anni di attività, ma lo fanno questa volta con la lingua stessa dei poeti arabi, grazie alla collaborazione con il musicista e cantante iracheno-tunisino Marwan Samer, utilizzando come sempre gli strumenti della tradizione mediterranea come oud, baglama, ney, daf e molti altri e con arrangiamenti che tendono a mettere in risalto la modernità dei versi di poeti come Ibn Hamdis e degli altri poeti arabi vissuti in Sicilia a cavallo dell’anno Mille. In particolare, vengono utilizzate le poesie che parlano della Sicilia, terra natia per molti di loro, dall’esilio forzato o con stralci tratti dai racconti di viaggio fatti nell’isola da poeti, mercanti e notabili arabi dopo la caduta del dominio islamico durato in Sicilia tre secoli e nella vicina Spagna quasi sette secoli. Trovate informazioni dettagliate sulla pagina Facebook dell’evento.

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Saluti Da Saturno – Dancing Polonia

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Dancing Polonia è il terzo disco dei Saluti da Saturno, progetto artistico guidato da Mirco Mariani, di caposseliana memoria. Le loro specialità sono la leggerezza, lieve e sognante, di un Dream Pop/Jazz Folk dai toni evanescenti e sottili, e il parco strumenti vario e sorprendente (Ondioline, Ondes martenot, Glassarmonica, Cristal Baschet, Mellotron, Intonarumori…), qui appoggiato alla spina dorsale impalpabile di un pianoforte che loro definiscono “strumento per eccellenza della canzone d’autore farcita con velature e sfumature di Free Jazz”.

Dancing Polonia è una colonna sonora onirica, fantastica, che pesca dai ricordi e dalla nostalgia, ma anche dalle distanze e dall’esotismo più magici. Ispirato a “sapori e immagini di film finlandesi, armeni e italiani”, diventa poi materiale fondante di cinematografie ancora più irreali: quelle che vengono messe in scena nella mente degli ascoltatori, liberi di crearsi sceneggiature, scenografie e ambientazioni proprie in cui far vivere gli spazi immensi e i sapori retrò di queste canzoni così impalpabili eppure così immediate, naturali.  Tra episodi più intensi (“Dancing Polonia”) e momenti di apertura ritmica (“Un Giorno Nuovo”) si snocciolano perle di luce soffusa (“Venere”) e stralci di una musica stonata proveniente da locande fuori dal tempo (“Di Notte”), così come caleidoscopiche giostre di suoni giocattolo (“Canzone di Cera”), canti chiaroscuri da occhio di bue su piccoli palchi in ombra (“Scintilla”), morbide, ampie aperture di cori e chitarre (“Le Luci della Sera”, con Paolo Benvegnù).

Dancing Polonia vede la collaborazione di un folto numero di artisti, dal già citato Benvegnù ad Arto Lindsay, da Massimo Simonini, produttore artistico, a Alessando “Asso” Stefana, Taketo Gohara, Vincenzo Vasi, Christian Ravaglioli, Giancarlo Bianchetti, Marcello Monduzzi, Bruno Orioli, Roberto Greggi e anche questo può dare un’idea del tipo di complessità che aleggia nel prodotto dei Saluti Da Saturno, pur se ben nascosta sotto strati di leggerissimo panno musicale, vellutato e morbido: è la leggerezza dei castelli di carte, che stanno in piedi apparentemente senza sforzo, ma in realtà grazie ad un sistema di equilibri magicamente determinati dal lavoro certosino e paziente di qualche “architetto” sapiente. Il disco perfetto in questo momento di cambio di tempo, mal di testa, e nubi pesanti all’orizzonte. Come un palloncino legato al cuore, come un ombrello a fiori.

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Daushasha – Canzoni Dal Fosso

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Ascolto: durante la preparazione della cena di un lunedì. Località: il mio paese. Umore: da sereno a nostalgico poi tendente all’inquietudine violenta.

Complimenti ai Daushasha: complimenti perché mi hanno provocato un moto spontaneo di vergogna. Anch’io ascoltavo e andavo ai concerti dei Modena City Ramblers: avete presente quei tipi sotto il palco tutti scompigliati con i denti viola, vestiti come se si fossero tuffati nell’armadio al buio? Io ero così, come molti di voi che state leggendo, non lo negate; ero uno di quei ragazzi che stava più al centro sociale a dividere il pasto con i cani che a casa. Nel loro comunicato stampa dichiarano di rifarsi, tra gli altri,  a De Andrè: davvero? Non mi pare che Canzoni Dal Fosso sia un disco memorabile, anzi: melodie semplici al limite dell’infantilismo,  insistito e strumentale richiamo al vino e alle droghe leggere come se fossero i primi musicisti a sballarsi un po’, temi da sagra di paese senza però le meravigliose storie di poesia del paese. A parte il fatto di proporre uno stile che sembra uscito dal Cretaceo, a parte il fatto di rifare il verso ai Modena e agli Yo Yo Mundi, senza averne capacità di arrangiamento e intuizioni testuali. A parte la chitarra distorta come nemmeno in In Utero dei Nirvana. A parte tutto, non si può dire che ti ispiri a De Andrè e poi scrivere: “buona sera, voglio sbatterti ancora, birra chiara e gandja e poi tra le tue lenzuola” oppure il memorabile “e quando tra cinquantanni anni le rughe solcheranno il tuo viso, tu sarai proprio un gran cesso ma la campagna sarà bella lo stesso“. I pezzi migliori di questo disco sono quelli cantati in russo, solo perché non conosco il russo.

Dori Ghezzi, citali per diffamazione: non si può, ogni volta che chiunque voglia darsi un tono poetico, dire che ci si ispira  a De Andrè. Ci vuole la poesia, prima.

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Sound of Ireland: Let’s Folk!

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Annascaul, un villaggio di cento abitanti in culo all’Irlanda, nella contea di Kerry. Lontano dalla vita cittadina che una città come Dublino può offrire, lontano da contaminazioni metropolitane e frenesia turistica, ma vicino alla vita rurale, alle pecore, a stradine, ad un lago ed all’oceano; dove si respira aria pulita, odore di terra bagnata, rumore di bicchieri che brindano, gusto di birra e musica Folk, ecco dove mi trovo. Dopo solo due ore dal mio arrivo sono nel pub di fronte casa, al bancone con una pinta di birra locale in mano, ascoltando storie su un uomo che nel 1900 ha esplorato il polo sud e che dopo essere tornato a casa sfinito ma ancora vivo, ha deciso di aprire questo pub, chiamato non casualmente il South Pole Inn. Il suo nome era Tom Crean e la birra che sto bevendo si chiama Crean’s in suo onore. Bene, direi che il mio alcolismo qui si chiama normalità e che l’immaginario collettivo dell’irlandese perennemente sbronzo è confermato. Nei giorni successivi scopro che niente è più falso della credenza che gli irlandesi siano unicamente rossi e dalla pelle bianca per la perenne pioggia, infatti fanno ventitre gradi ed intorno a me ci sono persone castane in calzoncini con la pelle bruciata dal sole. Quindi toglietevi dalla testa che siano tutti come “Anna dai capelli rossi”, perché è una cazzata.

Siccome la mia permanenza in Irlanda non é di poche settimane, andando avanti col tempo mi rendo conto delle differenze culturali tra un italiano ed un irlandese, e soprattutto le differenze nel vivere la quotidianità. Andando oltre il fatto culinario (qui si mangiano patate, patate e ancora patate) direi che una differenza fondamentale sono anche i luoghi di ritrovo e gli orari d’uscita: noi abbiamo una cultura di piazza, infatti ci troviamo da qualche parte per poi spostarci in un bar, locale o concerto, loro hanno la cultura dei pubs. Sarà forse anche per una questione meteorologica, ma qui ci si ritrova al pub verso le 18/19 e poi al pub ci si rimane finché non ti sbatteranno fuori. Ecco dunque da dove nasce il mito dell’Irish Pub. Al pub ci entri, bevi, parli, ascolti musica prevalentemente Folk e live, e soprattutto ti metti a cantare ed a battere le mani con il tuo vicino di bancone o con il vecchio dal naso rosso. Questo é il bello, questo é ciò che noi non abbiamo, qui non ci sono distinzioni di classe o età, ed affianco a te potrebbero esserci i tuoi amici oppure tua madre ubriaca quanto te che sta cantando una canzone tradizionale a squarcia gola. Vi é mai capitato di cantare quotidianamente al bar Lucio Battisti sbronzi con vostra madre/padre? Io credo di no, o meglio non credo che sia la norma dell’italiano medio. E non è un caso che ci sia proprio uno slang completamente irlandese per descrivere tutto questo: la parola “the craic”, e l’espressione “the craic was grand!” Il craic (e non si sta parlando di droga) è proprio questo modo di celebrare l’Irish life: con musica, grida, gioia, vecchi amici e nuovi amici appena conosciuti, e dire “The craic was grand!” è come dire Ieri sera ci siamo divertiti!”.

Insomma a livello musicale noi abbiamo la canzone melodica italiana come simbolo nazionale, loro hanno il Folk, caratterizzato ovviamente da un setup acustico composto al completo da chitarra acustica, violino, fisarmonica, il whistle (flauto irlandese), un benjo oppure il bouzouki (strumento però greco), il bodhràn (una specie di mini bongo-tamburo), cucchiai di legno usati in modo percussivo (stile nacchere), e soprattutto voci basse, piene e vive che raccontano storie quotidiane di bevute, marinai, amori internazionali, ribellione, e viaggi verso paesi lontani. La musica tradizionale irlandese non è fatta di giri di parole e sole-cuore-amore, infatti qui i testi più che cantati vengono raccontati, ed i ritornelli sono caratterizzati da “cori di massa”. Qualche esempio? Gli storici The Dubliners, The Clancy Brothers, The Dublin City Ramblers, o i più Punk The Pogues capitanati dal marcissimo Shane MacGowan, e canzoni come “Irish Rover”, “Spanish Lady” “Whiskey in The Jar”, “Pub With No Beer”, “Seven Drunken Night”, e la mia preferita: “The Wild Rover”. Una sorta di “parabola del figlio al prodigo” in chiave alcolica.

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Viva Lion! – The Green Dot EP

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C’è grande magia nella musica delle radici, quella della campagna, dei paesaggi distesi, più visiva che mai, degli amori lenti e forse meno ragionati, della passione che fa esplodere le vene, delle fabbriche che si avvicinavano sempre di più e ora (purtroppo) non ci fanno più paura. Storia? Possibile, ma negli ultimi tempi (e non solo se scaviamo bene tra gli scaffali impolverati dei negozi di dischi) queste note di libertà sembrano essere tornate in voga, con quella naturalezza che molto spesso completa la scaltrezza del Pop. Ed ecco a voi la magia del Folk: una chitarra e tante differenze tra est e ovest, tra nord e sud, ma un popolo che si riconosce sempre nelle sue radici, che siano tarantella o canti celtici.

Il caso di Viva Lion! non è forse sulla carta il più azzeccato per elogiare le virtù di una musica così ancorata alla propria terra. Daniele Cardinale arriva infatti da Roma e, senza tanti mezzi termini, il suo suono ha il sapore di praterie e deserti americani. La meraviglia sta però nella spontaneità. La sensazione di farci sentire a casa nonostante l’internazionalità del progetto, che vanta pure numerosi ospiti. Americani come la cantautrice Megan Pfefferkorn, che brilla di luce propria nella chiara ballata rupestre “Goodmorning/Goodnight”, ma pure italianissimi (anche se come Daniele propensi all’espatrio) come Gypsy Rufina e Roads Collide. Nonostante le miriadi di contaminazioni e sebbene i confini geografici siano letteralmente annientati direi proprio che questo è Folk purissimo.

“The Green Dot EP” è poi un prodotto Cosecomuni e lo zampino dei Velvet si sente e non solo a causa della collaborazione nella spensierata cover di “Footloose”. La limpidità del pop senza pretese è sicuramente caratteristica della band romana e si riflette anche in questo prodotto della loro etichetta. Le canzoni così svecchiano e passano dallo starti vicino a prenderti addirittura per mano. Nonostante l’impostazione chitarra e voce gli arrangiamenti non scadono mai nel confezionato e preservano la freschezza dell’aria pulita e incontaminata, anche in un brano più intimo e articolato come “The Thrill”. Si attaccano la spina e addirittura il distorsore ma la sensazione è solo di vento e nubi, lo smog è tenuto alla larga. Questo brano arricchisce ancora di più di sfumature un progetto dai lunghi orizzonti, che vive in mezzo alla natura più cruda. Si ancora saldo alle radici di ogni pianta e succhia tutto il nutrimento dalla fonte.

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Takadum Orchestra: mini tour calabrese!

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TakaDrom – Suoni al Confine è il secondo album della Takadum Orchestra uscito a Febbraio 2013. Dopo l’uscita del primo disco l’orchestra ha allargato il proprio organico includendo violino, voce, chitarra e tromba; ciò ha ampliato le possibilità di ricerca e composizione e soprattutto ha consentito un miglioramento delle performance live: la Takadum Orchestra sarà impegnata in un tour tutto calabrese di quattro giorni, in cui sarà possibile ascoltare le musiche folkloriche delle tradizioni mediterranee e osservare balli e coreografie. Di seguito le date:

 
Sabato 17 Agosto: @PALIZZI (RC) -“Festival di Peleariza”.
Domenica 18 Agosto: @BUONVICINO (CS) – LA NOTTE BIANCA.
Lunedi 19 Agosto: @SARTANO (CS)
Martedi 20 Agosto: “Radicazioni Festival” (Festival delle culture internazionali) @ALESSANDRIA DEL CARRETTO (CS).


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Nuovo album per Alessio Premoli

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Uscirà in autunno il nuovo disco di Alessio Premoli, Even silence has gone. Il disco, a cavallo tra sonorità acustiche folk e musica ambient d’ispirazione post-rock, si avvale della collaborazione di Riccardo Feroce all’oboe, Ludovica Pirillo alle percussioni, Luca Cirio e Federico Cavaliere alle voci. Presto verranno comunicati tutti i dettagli su data di uscita e reperibilità dell’album.

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Sestomarelli – Acciaierie e Ferriere Lombarde Folk

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Mai sazi di musica dal sangue caldo, mai stanchi di andare a tempo con le lotte della vita e mai fiacchi di volontà alla ribellione dai comandi. Sono quelli del “combact folk ibrido” e sono quelli che in questo momento lo interpretano meglio di chiunque altro. Da cover band a band inedita a tutti gli effetti, il combo dei lombardi Sestomarelli è la personificazione dell’impegno “contro” immutato, e Acciaierie e Ferriere Lombarde Folk è l’ufficialità della loro “fede”, il primo disco per portare alla massa un nuovo terremoto di suoni, complicità e ritmi indiavolati.

Un lavoro dalla duplice anima che giunge ad animare di nuova linfa i già rodati live act del “non ci stò”, dieci tracce che appena messe in moto non smettono di far ballare, sognare, viaggiare con orecchie, cuore e cervello, canzoni nuove che parlano di oggi e ieri, moderno e  antico, storie di pace e guerra, d’amore, attualità, sogni e collane sgranate, rosari da imprecare e venti d’Irlanda che soffiano sulle idee dei cambiamento e sugli odori acri di acciaierie e ciminiere, ghise e mani sporche di lavoro che vorrebbero accarezzare un futuro e che per il momento si accontentano di sognarle; con i Pogues sugli altari delle rimembranze, i Sestomarelli agitano divinamente la circolazione ematica con le loro storie mediate e metaforiche, compongono un quadro d’insieme che rappresenta un deciso passo in avanti nel definire il patrimonio di canzoni (quello che gli anglosassoni definirebbero songbook) della formazione e nel consolidare – già da adesso –  il loro percorso da protagonisti nella moderna canzone Folk meticcia.

Ballate, prese rapide di ingegno Jiga’n’Roll “Lasciami Sanguinare”, “Gli Stones (come dicono)” caracollii, polveri d’un Bennato d’antan “Che la Festa Cominci”, “Briciole”, suggestive cantautorali  ora acustiche ora elettriche “Lo Strano Caso Del Signor Rossi” e una travolgente maturità di orizzonti sonori con pogo sfrenato come bagaglio a mano, sono le costanti febbricitanti che questi Gogol Bordello con la tuta firmano con tutto il meticcio possibile che si possa trovare ora in circolazione; tutte coordinate artistiche che questo combo armato di simpatia, turbini e cavalcate senza sella sottolinea come una botta di vita se non addirittura come benzina per corpi e cervelli intorpiditi da cretinerie seriali.

Cercate canzoni sdolcinate, disimpegno o effimeri suoni alla moda?  Fate jogging più in la grazie!

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L’Orage – L’Età Dell’Oro

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Da assiduo ascoltatore dei Modena City Ramblers (dei tempi d’oro) e da estimatore profondo e convinto di Francesco De Gregori, questo disco non poteva risultarmi indifferente. La band valdostana L’Orage, cui solamente le biografie dei membri raggiungono la lunghezza di un piccolo pamphlet o di un lungo racconto minimalista, me li riporta alla mente per motivi più che ovvi: come i primi, i sette musicanti della Valle si cimentano nella canzone d’autore in forma popolare, recuperandone stili, timbri e strumenti (ghironde, cornamuse, organetti, mandolini); il secondo, invece, pare apprezzarli parecchio, tanto da condividere con loro un intero concerto, tenutosi ad inizio 2013 a Saint-Vincent, andato sold out in pochi giorni.

Mi butto quindi alla ricerca del disco dei L’Orage, e scopro che i sette hanno da poco firmato con la Sony per pubblicare il loro primo disco “ufficiale” (i loro primi due dischi, Come Una Festa e La Bella Estate, autoprodotti e senza nessuna distribuzione, sono arrivati a vendere, negli anni, svariate migliaia di copie). Il nuovo disco, che contiene i brani migliori delle due produzioni precedenti oltre a tre inediti, titola L’Età Dell’Oro, e riesce anche, grazie a tre brani registrati dal vivo, a darci un senso delle loro esibizioni live.
Il disco è, senza dubbio, un gran disco. È suonato bene (anzi, benissimo), e davvero ci si ri-lancia nel paragone con i Modena City Ramblers, che, almeno secondo il sottoscritto, sono il gruppo Folk tecnicamente più riuscito che il Bel Paese abbia partorito da parecchio tempo a questa parte. Inoltre, L’Età Dell’Oro rischia anche di avere una vena cantautorale più approfondita, più studiata: la testa che Alberto Visconti presta alle liriche del gruppo è una gran bella testa, a quanto pare (la sua voce, invece, pare quella di un Max Gazzè meno folle, più cantastorie – non che sia un male).

Le canzoni dei L’Orage sono un misto di Folk, musica popolare europea e cantautorato uptempo, e risentono del meticciato etno-geografico della band. Ci si diverte e si sogna, con L’Età Dell’Oro, tra riferimenti a Rimbaud (“Queste Ferite Sono Verdi”, testo dello scrittore Dario Voltolini)e omaggi ad Apollinaire (“A Loreley”), una cover de “Il Panorama di Betlemme” (sempre di De Gregori), inni al “mondo della nuova musica acustica europea” (“La Canzone Dell’Orecchino”); o, ancora, si danza un lento levare con “Come Una Festa”, si viaggia con ballate di violini verso “La Bella Estate”, si cantano tradizionali francesi, come “La Voltigeur”, e si rimane stupiti nello scoprire una delle perle del disco, la bella “La Teoria Del Veggente” in versione live con in prestito la voce (sempre più ricca col passare degli anni, bisogna ammetterlo) di Francesco De Gregori.
Come sempre per i dischi che s’accostano al cantautorato, il consiglio è di approcciarlo senza cinismo, e farsi trascinare dalle storie e dalle suggestioni di questo stupendo melting pot di musicisti sospesi tra le Alpi e Torino. Il resto, credo, verrà da sé.

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