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Misachenevica – Come Pecore in Mezzo ai Lupi

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Misachenevica è un nome veramente figo per una rock band, un nome talmente bello da influenzare tutto l’ascolto del cd (davvero!). Ti piacciono subito senza una reale motivazione, hanno un nome grandioso e nessuno può farci niente, sono quelle cose che ti rendono grande o sfigato dall’inizio. Arrivano dal nord est e ci sparano in presa diretta l’album Come Pecore in Mezzo ai Lupi sotto etichetta Dischi Soviet Studio. Il rock italiano più classico degli anni novanta come linea da seguire per orientarsi dentro questo lavoro non sempre coerente con le proprie potenzialità, nel senso che assaporo dei pezzi grandiosi e dei pezzi sinceramente superflui, come presenze indesiderate durante la migliore festa dell’anno. Una festa mesta per evocare i Marlene Kuntz del primo periodo catartico, una potenza meno sviluppata ma comunque sempre dietro l’angolo quella sprigionata dalle chitarre dei Misachenevica, meno graffianti ma molto emozionali. Misachenevica, devo sempre ripetere questo nome fino allo svenimento, ne sono rimasto troppo attratto. Misachenevica. Come Pecore in Mezzo ai Lupi in qualche maniera mantiene viva quella schiera di adoranti sognatori del primo indie (italiano) che vedevano perse le proprie speranze e non riuscivano più a riconoscersi in nessuna manifestazione musicale attuale, le pecorelle smarrite che ritrovano la retta via per rimanere nell’argomento lasciato percepire dal titolo del disco (anch’esso di una bellezza fuori dal comune).

Il pezzo “Figlio illegittimo di Kurt Cobain” lanciato come singolo impressionabile del disco (e qui sotto potete spararvi il video) tira da subito fuori una cattiva essenza di rock duro, primordiale e con una struttura melodica pop orecchiabilissima, si impara subito la strofa di un ritornello studiato alla perfezione e canticchiarla non è poi così male. Indubbiamente non parliamo del disco dell’anno, per quello bisogna guardare altrove ma non tutto è da prendere alla leggera, la band appartiene sicuramente alla fascia buona della musica italiana, quella che sovrasta la cattiva di molte migliaia di distanze. Ebbene il nome della band gioca a loro favore e incuriosisce un vago ascoltatore, se mi trovassi a scegliere un disco alla cieca sopra uno scaffale di un vecchio negozio di dischi la mia scelta  cadrebbe senza esitazioni sopra di loro. I Misachenevica hanno già il potenziale commerciale nel sangue, una produzione più attenta e mirata li renderebbe competitivi sotto ogni punto di vista. Come Pecore in Mezzo ai Lupi al momento rimane un bel ricordo con tantissimo bisogno di conferme future, il vero rock si vede alla distanza.

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Naomi Punk – The Feeling

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The Feeling è un insolito miscuglio di cose anche assai diverse tra loro.
C’è del grunge, e come potrebbe essere altrimenti? I Naomi Punk vengono da Seattle, e non nascondono il loro tributo alle grandi band degli anni ’90 della scena dello Stato di Washington, soprattutto per quanto riguarda l’atteggiamento, musicale e non, “primitivo” (come amano ripetere ai visitatori del loro sito ufficiale: “DO YOU APPRECIATE PRIMITIVE INTERNET?”). Lo si sente anche nell’oscurità che permea il lavoro, che non ha niente di dark, ma piuttosto un’anima caotica, imprevedibile, in qualche modo lo-fi.
C’è poi del punk, indiscutibilmente, nel loro modo di porsi, nella loro filosofia do it yourself, nell’approccio visivo (che loro ammettono essere importante): tutto in bianco e nero perché è più facile da fotocopiare. C’è del punk anche nella loro musica, libera da ogni pregiudizio, che si fa inseguire, semplice e diretta. Però non c’è rabbia, non c’è rivoluzione, c’è più che altro un ghigno ironico a sostenere i loro suoni, sporchi e distanti, la loro voce, incastrata nella distanza, indefinita, cantilenante.

Ci sono poi mille altre cose (sludgy feelings, la caratteristica chitarra tremolante e scordata che mi ricorda tanto gli Yawning Man, alcuni approcci “semplicistici” à la White Stripes, qualche ascolto adolescenziale metal e, come dicono loro, “some psychedelic weird shit”).
Un album particolare, non ricercato ma curioso, che potrebbe scaldare parecchio le orecchie degli appassionati di un certo tipo di musica incasinata, senza fronzoli, crepuscolare, ironica, sporca, che qui da noi va fortissimo nella “Brianza velenosa”. Provare per credere.

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Christopher Walken – I Have a Drink

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Arrivano da Genova i Christopher Walken, e giungono alle orecchie incazzati e potenti, con una spennellata ironica e grottesca che fa tanto stoner, di quello meno atmosferico e più metal (“Miss Fraulein much?” “E perché non i Deliriohm, con un po’ più di forma canzone?” – piccolo riassunto dei miei dialoghi interiori).
La cartella stampa ci informa che I have a drink “propone 35 minuti di stoner e psichedelia”, e in effetti è questo che fanno i Christopher Walken: canzoni dirette, tirate, rapide e infuocate, con un alone scuro a bagnare il tutto. Bassi gonfi, ritmiche serrate, e una menzione speciale agli inserti di chitarra, che, quando non appoggiano bordate buie sotto la cupola frizzante di piatti e voce, sono pronte a scattare avanti, in faccia all’ascoltatore, con movimenti inusuali e passaggi sorprendenti (il piccolo solo di Nell’abisso del tempo, ad esempio, o in generale Winter love).
Stranamente (e imprevedibilmente) li gusto di più quando tentano la strada dell’italiano (Nell’abisso del tempo, ma soprattutto Camion Babylon): suonano più freschi, meno clone, e anche più divertenti, più “giocherelloni” – e non lo trovo assolutamente un male in mezzo al marasma power che abita il disco: è un bel modo per spezzare una violenza che, sebbene gratificante, potrebbe avere il rischio di stancare, dopo un po’.
Quanto al lato psichedelico, non si mostra molto, in verità; ci sono però ottimi spunti (l’intro di Long way to fall, i minimali inserti di synth in I have a drink) che magari sarebbe interessante veder sviluppati nel futuro. Per ora ciò che rimane protagonista nelle musiche dei quattro Christopher Walken è il rock duro, immediato (la durata media dei brani è di 3 minuti e mezzo).
Concludendo, I have a drink è senza dubbio un bel disco, e se siete fan della scena stoner/metal dategli assolutamente una chance. Ad ascoltatori meno abituati potrebbe risultare un po’ affaticante, ma in quel caso l’errore è vostro.

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Elio Petri – Il Bello e il Cattivo Tempo

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Rimane sempre al centro della sua scena il cantautore-musicista Emiliano Angelilli in arte Elio Petri, ma ora questo moniker è comprensivo di una vera band di contorno, e “Il bello e il cattivo tempo” è la nuova formulazione sonora che l’artista mette sul banco degli ascolti, poi andando a scandagliare la profondità delle sette percezioni che costituiscono la scaletta,  quello che si va ad imprimere al primo giro è la sensazione di un disco che “si apre agli orecchi”, che si rende abbastanza abbordabile rispetto il precedente, con quella misurazione idonea che accorcia distanze e favorisce approcci pressoché “amichevoli”.
Licenziato per l’etichetta perugina Cura Domestica, il disco – che vede due rispettabilissime guests quali Marco Parente nella metafisica di “Capra strale” e Theo Teardo in ben quattro tracce tra cui spicca, per una stupenda costruzione psichedelica, l’aria girovaga di “Ti farò soffrire”, è una di quelle mutazioni artistiche che si palesano come performance assemblate, dove valore e gusto si contrappongono ad attivazioni sensazionalistiche di scarso pregio, qui parola e concetto autobiografico sono un tutt’uno con un ascolto fine e a tratti diabolicamente criptato ma con le chiavi sulla toppa, tracce autoptiche sulla loro stessa personalità, il respiro di un senso di rinascita e il climax malato dell’io, ma che, calcolato nel vortice totale degli Elio Petri,  diventa una miscela da standing.

Se le condense Kafkiane di “Bruco” o “Vipera” vi stordiscono a dovere, potete sempre rifarvi l’animo con il rock isoscele che fulmina in “Blues” o decorarvi l’anima con la filigrana stampata negli equilibri svergolanti di “Il disprezzo”,  ed il gioco è fatto, tutto quello che rimane da fare è catturare le interessanti intuizioni sonore “Mascella”, accurate, intense e nello stesso tempo libere come foglie al vento “Alga”, poi tirando le somme vi troverete a considerarlo non un lavoro di velata sofferenza interiore, ma un pacco di musica dove costruirci sopra infiniti binari interpretativi e, perché no, arricchirvi di personalità multiple.
Bello.

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Ideogram – Raise The Curtain

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E’ vero, le parti del nostro essere sono fatti sia da quelle buone che da quelle cattive. Ed è anche vero che tutti noi in un certo senso indossiamo una maschera che forse nasconde il nostro lato quieto o forse quello aggressivo e violento. Gli Ideogram si fanno avanti per farcelo notare e lo fanno con stile, attraverso un Gothic Metal sperimentale per cosi dire che strizza anche un po’ l’ occhio al Prog. Per dirvi, i Sonia Scarlet dei Thetres Des Vampires apprezzerebbe la proposta di questi cinque ragazzi che si prestano a queste sonorità tra il cupo e l’ aggressivo. Gli Ideogram si fanno notare attraverso un demo di cinque tracce che suscita davvero strane sensazioni.  Trattasi di “Raise The Curtain”, un mini disco dalle mille attenzioni e lavorato veramente nei minimi particolari: partendo dalle tematiche per passare al sound e concludere con le registrazioni ed i mixaggi. Sarò sincero: in quest’ ultimo periodo difficilmente ho ascoltato dischi che sono riusciti a far conciliare cupezza ed aggressività, gli Ideogram sono riusciti attraverso la candida voce di Opera, quella in growl di Kabuki e quella in scram di Grang Guignol, (il tutto chiaramente condito con la potenza della chitarra e le melodie della tastiera) a mettere in accordo i due stati dell’ essere. Le tracce si fanno ascoltare con molta scioltezza senza annoiare, anzi, dopo il primo ascolto viene subito la voglia di far ripartire il lettore con “Raise The curtain”. Insomma, se questo è il biglietto da visita  degli Ideogram, vale a dire che da loro possiamo aspettarci solo ottimi risultati, con l passare del tempo faranno un po’ d’ esperienza,di questo passo il loro prossimo disco sarà un capolavoro. Per adesso godetevi “Raise The Curtain” e date un opportunità a questi cinque ragazzi, che, credetemi, la meritano.

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Tetrics – Tetrics

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I Tetrics si presentano con quest’album omonimo dove rockeggiano, blueseggiano, a tratti raggeaggiano, facendo il verso al rock italiano “classico”, anni ’80/’90, ma senza, ahimè, lasciare traccia alcuna nell’orecchio dell’ascoltatore.
Sono tre le grosse critiche che si possono fare a questo lavoro: al primo posto, la voce del frontman Marco Plebani, che non raggiunge nemmeno una lontana sufficienza. È una voce stanca, sforzata, senza un minimo di verve, che a tratti sfiora il ridicolo – lo dico senza alcun intento denigratorio, ma per consigliare un eventuale sviluppo tecnico, o magari un uso diverso, delle capacità vocali del cantante: ne gioverebbe tutto il progetto.
Il secondo problema sono i testi, che si fermano troppo spesso alla rima baciata e ad un immaginario ormai liso e consunto – alcool, amori velenosi e carnali, rock’n’roll – risultando a tratti ripetitivi, a tratti scontati.
Ultimo, piccolo neo: a parte qualche episodio effettivamente “fuori canone” (vedi la terza traccia, 9:07), il resto s’appoggia decisamente al già sentito, al già visto, al già esperito (cosa che accade troppo spesso, di questi tempi… sarà che si è già suonato – e detto – di tutto? Chissà).
In conclusione: lo sforzo dei quattro Tetrics è apprezzabile, ma il prodotto finale necessiterebbe di una buona sessione di make-up anche solo per rendere possibile un ascolto totalmente finalizzato al piacere onanistico di fruire di un rock italiano molto, molto classico. Se poi l’obiettivo è di rimanere nella testa, di comunicare qualcosa di duraturo all’ascoltatore, serve molto, molto di più.

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Duchenne Music Project – S/T BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

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Il Duchenne Music Project non è il lavoro di una band, ma di un collettivo di artisti, accomunati dall’origine livornese e della volontà di sensibilizzare sulla distrofia muscolare di Duchenne e Beker. Il cd, il cui ricavato infatti viene devoluto a Parent Project Onlus, l’associazione di genitori con figli affetti da questa malattia, raccoglie sedici contributi i cui unici denominatori comuni sono la lingua inglese usata per la redazione dei testi letterari e la presenza di Matteo Caldari e Alessio Carli, i due ideatori del progetto, che hanno chiamato a partecipare altri musicisti della loro città. Ciascuno di questi porta le sue esperienze musicali pregresse, i suoi gusti, il suo stile. Ne esce un prodotto disomogeneo ma molto interessante: si va dal brit-pop all’indie americano, dalla new wave al reggae, dall’hard rock al folk, in uno spaccato dell’underground livornese che diversamente non si sarebbe potuto esplorare. La qualità, naturalmente, varia da traccia a traccia, con esiti molto interessanti come nel caso  della beatlesiana Anymore, dell’americanissima The answer, della super indie Our Summer Nights o della delicata Dorothy. Al di là dell’impegno sociale, vale la pena di ascoltare quest’album e farsi un’idea della ricchezza del panorama indipendente nostrano.

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Amelie Tritesse – Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll

Written by Recensioni

“Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll” è il cd libro degli irreverenti spacca pensieri Amelie Tritesse, una carica bastarda di read’n’rocking in presa elettro diretta. Un disco di dieci pezzi accompagnati da un libro di racconti quotidiani di 64 pagine, testi ed illustrazioni.

Una cosa fregna. Poi il gioco musicale intrapreso tra brani recitati come qualche affermata situazione italiana insegna e pezzi in inglese di genuino rock and roll rendono questo lavoro interessante e propositivo per un ascoltatore che non cade mai nella solitudine della monotonia, rimanendo sempre attento alle circostanze. Molto Abruzzo nel complesso, la loro terra stanca di rimanere sempre al palo rinchiusa e tartassata da (in)fondati pregiudizi, l’orgoglio viene prepotentemente fuori, le palle ci sono e come.

Sensazioni bellissime in “Una ballata per Jeffrey Lee”, già ero cascato in queste sensazioni con il Circo Fantasma e non mi stancherò mai di farlo, un pianoforte struggente viaggia leggero ad accompagnare una calda voce dalle movenze interpretative di chiaro spessore.
Poi la title track “Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll” arrovella cattivi pensieri nella testa presa da un tiro profondo di spino, qualcuno aveva già provato queste “cattive abitudini” portandone fuori consensi di nicchia. Io non ho mai capito un cazzo del rock and roll. Giuro.
Un opera prima per questi ragazzi dagli alti canoni artistici da considerare con lode, difficilmente collocabili in questo caos musicale indipendente italiano, una fresca realtà che cerca di differenziarsi dalla massa usando egregiamente tutte le armi del proprio arsenale artistico.

Un folk rock con puntine di sporca elettronica da maneggiare sempre e comunque fregandosene dell’estrema cura, gli Amelie Tritesse vogliono apparire essenzialmente per quello che sono senza inganno. “Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll” prepara la musica verso un’altra rotta tutta ancora da esplorare, un ottimo inizio. Col botto.

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