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Le Pistole Alla Tempia – La Guerra Degli Elefanti

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Si presenta bene fin dal primo brano, questo La Guerra Degli Elefanti, degli incazzati Le Pistole Alla Tempia. Un disco, e una band, con le idee chiare, e, perlomeno musicalmente, concepito benissimo, tra cavalcate Rock gonfie e distorte, arrabbiate e sintetiche (l’opener, che è anche la title track, “Non ti Cercano Più”) e ballate più intime ma pur sempre appassionate (“Insieme e Basta”). Una voce che ricorda quella di certi Negrita, un impianto che quanto colpisce duro ricorda un Il Teatro Degli Orrori alleggerito, o qualche visione di profilo dei Bachi da Pietra.

Liricamente passano dalle stoccate ficcanti di un pessimismo diretto e brutale (“qui ti fa tutto schifo e lo sai / ma ci sei nato e ci morirai”, da “Ealù”) a piccole pennellate di saggezza spicciola, ma non per questo meno sensate (“come elefanti che si fanno la guerra / si combattono e è l’erba / a rimanere schiacciata”, ispirata ad un proverbio africano, dalla title track). Mancherebbe solo una spinta in più, un salto ispiratore, uno sguardo appena più personale, che ci faccia decisamente stracciare la veste e gridare al miracolo, ma per la funzione destabilizzante che un disco di questo tipo può (e vuole) avere, i racconti minimali girano a dovere, incanalano la rabbia e la disillusione e l’amaro che questo mondo ci lascia dentro in modo essenziale ma funzionale. Rimane un po’ la delusione per certe cadute di stile, sottolineature un po’ troppo retoriche, tentativi di racchiudere vicende complesse in una canzone (“Cesare”, ispirata alla vicenda di Cesare Battisti, o “Nazione Sleale”) che raramente portano a risultati interessanti se non si hanno le capacità poetiche adatte (e qui si rischia, si rischia grosso).

La Guerra Degli Elefanti è in equilibrio tra l’immediatezza hard del Rock alternativo, breve e fulmineo, con certi richiami sia alla scena contemporanea indipendente che al glorioso Rock italiano degli anni ’90, e alcuni sprazzi riflessivi e più sfaccettati (penso all’intermezzo verso il finale di “Sylvia”, a “Casa Bianca”, brano lento, toccante e misurato, o l’ultimo pezzo, “Nazione Sleale”, con forse, come dicevamo, troppa retorica, ma snocciolata su di un altrimenti godibile tappeto di chitarre acustiche e violini). Un buon lavoro per Le Pistole Alla Tempia, che spero riescano nel tempo a limare le imperfezioni (soprattutto nelle liriche), per giungere ad un insieme sempre forte, sempre trascinante, ma più sensibile, meno cheesy. Le potenzialità ci sono tutte.

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Kingshouters – You Vs Me

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You Vs Me è l’esordio degli italianissimi Kingshouters, quattro ventenni che citano tra le loro influenze nomi della caratura di Smashing Pumpkins, Placebo, White Lies e 30 Seconds To Mars.

Il disco, prodotto da Michele Clivati (già nei Nena And The Superyeahs e al lavoro con Dolcenera, Denise, e Francesco Sarcina, tra gli altri), suona preciso, tecnico e potente quanto serve per ricordarci che anche in Italia si possono produrre lavori capaci di competere con la musica internazionale mainstream del momento. Le ritmiche schiaffeggiano, “finte” come prevede il dress code del Rock anglosassone contemporaneo, sorpreso a voltarsi, come la moglie di Lot o come Orfeo, verso le sonorità che gli anni ottanta del secolo scorso continuano a rigurgitare. Le chitarre frizzano e pungono, come vette di iceberg immersi in mari di synth simil-Dance (vedi “Levels”, cover della hit del dj svedese Avicii). La voce non spicca per timbrica, ma supporta in modo degno melodie Pop che incorniciano il tutto senza strafare.

Certo, ci si potrebbe chiedere quale bisogno ci sia di un disco così: magari il tentativo di far vedere che anche il Bel Paese può tentare la strada del Rock internazionale (tentativo pur sempre lodevole), anche se forse, come diceva qualcuno, “chi se ne frega di essere Zucchero se c’è già Joe Cocker”. L’importante, al di là delle chiacchiere sui massimi sistemi, è che i quattro Kingshouters facciano ciò per cui sentono di essere stati chiamati, e che lo facciano bene. Sul secondo punto non abbiamo dubbi. Al resto, penseranno le orecchie degli ascoltatori e la giungla discografica. Per ora, limitiamoci a sentire questo tamarro You Vs Me col gusto un po’ peccaminoso del giocare con i vestiti dei genitori – grottesco, ma necessario, e soprattutto, divertente.

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Cabeki – Una Macchina Celibe

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Cabeki è compositore d’altri tempi, uno di quelli che riesce a concepire la musica anche senza il bisogno di un testo letterario che supporti il significato. I brani di questo lavoro, Una Macchina Celibe, sono tutti quadri di pura musica strumentale, che si susseguono senza soluzione di continuità in un unicum guidato solo dal programma, per usare un termine più vicino alla musica colta che a quella Pop, esplicitato nei titoli. Frasi ispirate al dadaista Alfred Jarry, con frequenti riferimenti alla tecnologia, che, a dire il vero, forniscono più suggestioni che spiegazioni. Come del resto è giusto che sia.

L’intro orchestrale e arioso di “Se Quest’Uomo Diventasse un Meccanismo”, aleatorio nella scansione temporale e impalpabile, con un rimando immediato ai Sigur Ros, lascia spazio a chitarre acustiche rese caldissime dalla percezione dello scorrimento delle dita sul manico dello strumento. “Il Necessario Ritorno” è prepotentemente cinematografico, un omaggio a Nino Rota, con uno sguardo oltralpe alle composizioni di Yann Tiersen. La terza traccia, “Verso il Ronzio Remoto”, è una delicata e didascalica composizione in cui la chitarra, ancora una volta, spadroneggia con echi della sua tradizione classica. “Di un Ingranaggio Che si Perde” arriva da lontano e sa di Medioriente, a tratti Rock, mentre sembra il Sud l’ispirazione di “Fra Elettrodi di Seta Blu” e l’estremo oriente invece pare guidare idealmente “Negazioni che si negano”, seppure i cori ariosi che seguono immediatamente l’introduzione, suggeriscano ispirazioni carioca. Cabeki ci accompagna in un viaggio che è geograficamente orientato e che lascia trapelare tutta la gamma emozionale che il cammino porta con sé, come nel caso del tono riflessivo di “Alla Banalità di un Valore” o dello smarrimento psichedelico -e molto didascalico considerato il titolo- di “La Bellezza Pura e Sterile Della Semplice Ruota”. “La Diapositiva si Ricorda” richiama i Beirut e i Mogwai, mentre “L’Ultimo Degli Uomini” allontana nuovamente la percezione ritmica per concentrarsi tutta sulla melodia, strizzando l’occhio con veemenza a Ennio Morricone. Un disco per tutti, elegante, raffinato e mai scontato, veramente da sentire.

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Craxi – Dentro il Battimento Delle Rondini

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Niente a che vedere col politico, i Craxi sono il genuino progetto parallelo di musicisti noti del panorama alternative nostrano, considerando che stiamo parlando del vocalist Alessandro Fiori dei Mariposa, di Andrea Belfi, ex-Rosolina Mar e attivo negli Hobocombo (batteria), di Luca Cavina dei Calibro 35 e Zeus! (basso), di Enrico Gabrielli, ex-Afterhours e ora Calibro 35, Der  Maurer, Mariposa (chitarra). Un progetto ambizioso, dunque, che si apre con “Rosario”, brano caratterizzato da una lunghissima introduzione noise alla Marlene Kuntz che apre lentamente, tenendo l’ascoltatore in tensione, in attesa dell’esplosione (che di fatto, non arriva), mentre la voce, sforzata e declamata, più che cantata, arriva direttamente dalla gola. Non sono depressi, non sono incazzati, ma hanno quell’agitata impazienza new wave che si avverte nelle sonorità cupe di “E tu Non ci Sei”, dove gli sfasamenti tonici e l’accompagnamento ipnotico catturano e soffocano.

Il basso spadroneggia in “I Diari Del Kamikaze”, mentre il panorama industrial sembra essere il faro di “Drive In”, con il suono penetrante (un fischio, una sirena, una sveglia insopportabile di una mattina di hangover) che caratterizza intro e interludio. La lezione degli Afterhours, invece, si sente in “Le Ali di Alì”, mentre in “Si Appressa la Morte, Non ci è Dato Sapere” sono le avanguardia la vera ispirazione: una matrice quasi Folk, ma vagamente riconoscibile, alterata, distorta, digerita elettronicamente per un risultato visionario e psichedelico, poco gradevole all’ascolto, forse, ma molto pregevole sul piano sperimentale-compositivo. “Santa Brigida” è la più ritmata e coinvolgente fisicamente, mentre “Se me lo Chiedi Dolcemente” si pone a cavallo tra le sperimentazioni internazionali hippie del Rock anni ’60-’70 e un sapore intellettualoide hipster di ben più recente foggia: il trattamento melodico-timbrico richiama l’oriente mistico indiano, mentre la voce declamata riporta alle letture degli scrittori della Beat Generation. La title-track, “Dentro il Battimento Delle Rondini”, invece, è un visionario testo decadente alla Teatro Degli Orrori.L’impressione generale è che la band incarni bene tutto ciò che non vorremmo essere ma siamo, tutto lo squallore di una generazione precaria, corrotta dai media, costretta a guardare indietro anziché avanti. Un moto di ribellione, però, quasi nel tentativo di restituire speranza e vigore, viene dato da “Sono il Mio Passeggero”, dove finalmente la voce prende il volo in un recitato con urletti dal profilo melodico incerto, che, ancora una volta, mostrano l’implicita cupa inquietudine che i Craxi ci raccontano. Il disco chiude con “Le Mostre di Pittura”, una critica ben poco velata alla società finto-intellettuale odierna, ironicamente arrangiata con violini e battiti di mani che decorano il tappeto Grunge aspro di sottofondo.

I Craxi non sono piacevoli e non vogliono esserlo, perfettamente inseriti in quella nicchia di musicisti italiani che non hanno intenzione né di divertire, né di sensibilizzare, ma solo di mostrare tutto il loro profondo disgusto per la situazione vigente. Tecnicamente bravissimi, assolutamente non orecchiabili, new wave quanto basta per soddisfare i fautori del ritorno in auge del genere, avranno sicuramente fortuna. A me non hanno fatto impazzire, ma de gustibus.

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Granturismo – Caulonia Limbo Ya Ya

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Ci sono voluti tre anni dall’esordio discografico, Il Tempo di Una Danza, perché i Granturismo tornassero sul mercato con un disco nuovo. Caulonia Limbo Ya Ya è un crogiolo di generi, ispirazioni, commistioni. C’è l’occidente precario, afflitto, abbattuto e introspettivo, ma c’è sopratutto la leggerezza, il calore, la giovialità del sud, dei Tropici, delle danze istintive e pulsionali. Un mix di generi musicali che va dal Punk al Mambo, dal Cantautorato all’Indie Rock, dal Rock’n’Roll alla Bossa Nova. “Me ne Vado al Mare” apre l’album con una serie di rime e distorsioni controllate che si lasciano andare in un bel riff incisivo che riprende il tema del ritornello, mentre “Vieni a Dormire Con me” è una deliziosa canzone dal sapore tropicale, fresca per sonorità e termini impiegati, dal ritmo cadenzato e ironicamente scanzonato. Un bel gioco di voci e cori caratterizza invece “Meraviglioso Errore”, con un arpeggio delicato e atmosfere a tratti fumose, pulp, seducenti. Quattro mele hai lasciato nel frigo è la frase chiave di “Domenica”, in cui il tema dell’amato abbandonato è pretesto per comporre liriche pungenti e sarcastiche, con numerose citazioni Pop e rime baciate. Ma è da “Canzone di Parole” che mi sono resa conto che avevo a che fare con un trio davvero geniale, sia per la capacità di giostrare la forma-canzone, sia per la cura naturalissima degli arrangiamenti: il brano è fondamentalmente un Rock’n’Roll, a tratti debitore del Surf dei Beach Boys, con un bridge lento e sospeso alla Procol Harum e una lallazione nonsense profondamente percussiva. La costruzione del testo è particolarmente cantautorale, ma il vomito-elenco di parole prese dall’universo culturale Pop la rende sperimentale, come confermato dalla chiusura Noise, assolutamente inaspettata. “Inno della Repubblica di Caulonia” è uno strumentale di andamento mosso e sonorità latine, ripreso alla metà della velocità, o quasi, in chiusura del disco. Ed è sempre il Sud a farla da padrone in “Può Darsi Sia l’Autunno”: non c’è il Sud delle migrazioni, delle fronti sudate per il lavoro, dell’arsura che attanaglia la mente, ma solo quello dell’acqua fresca, dei frutti esotici dai succhi dissetanti. La bravura tecnico-strumentale dei Granturismo emerge in “Distanze”, con il suo intro alla Kings of Convenience, il cui stile viene ripreso anche in “Dubbi Dubbi”, una Bossa Nova che ricorda molto la “Misread” dei norvegesi. E se vi foste convinti di aver di fronte un terzetto di burloni, “Non Essere Triste” completerà il quadro della maturità di questi ragazzi, capaci anche di scrivere una ballata riflessiva, dondolante, esistenzialista.
Che dire? Io 5 su 5, prima d’ora, non l’ho dato mai…

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Officina della Camomilla – Senontipiacefalostesso

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Quando ti sei fatta la fama di smonta-cd a forza di rifilare dei 2 e invece inizi a ricevere dischi veramente pregevoli, aspetti l’inversione di tendenza da un momento all’altro. Non è ancora arrivata l’ora di ricominciare a sbuffare e storcere il naso e faticare per arrivare al fondo di un album, però, perché mi arriva questo irriverentissimo Senontipiacefalostesso, creatura dei milanesi Officina della Camomilla. Un ascolto solo e già li si ama per la loro abilità nel mal celare volontariamente tutta la profondità di cui sono capaci. Amore, disillusione, solitudine metropolitana e quella costante sensazione di asfissia dell’uomo soffocato da se stesso, sia psicologicamente, sia concretamente, tra l’architettura urbana che non ha nulla a misura d’uomo, questi ragazzi ci offrono canzoni in cui si parla di una bruttezza preconfezionata, venduta e servita come bellezza. Fanno i punk e piaceranno anche agli hipster. Il disco si apre con sonorità alla Strokes, con echi di quei gloriosi Sixties che per noi hanno un sapore così fresco e pop, che tanto emerge in “Dei Graffiti al Mercato Comunale” e in “Morte Per Colazione” e il suo eco geghegé e la frase, che colpisce per gli accostamenti, «Nell’azzurro dei cazzi miei». La scanzonatura prosegue in “La Tua Ragazza Non Ascolta i Beat Happening” (con quel «Siamo pieni di droga la la la la» che tradisce una sofferenza sociale profonda, affrontata con un’ironia graffiante resa ancora più densa dalla lallazione non sense, che invece che alleggerire il tutto fa scuotere la testa). “Agata Brioche” è quasi Folk, con un certo gusto francese per le sonorità, che si riscontra anche in “Un Fiore Per Coltello”, con molti riferimenti testuali pop (da Monica Vitti al Walkman, dal frigorifero ai quadri di piante) e autoreferenziali, in cui l’autore dice di ascoltare musica orrenda, di ribaltare i poeti e di non avere voglia di vedere nessuno, in una romantica ricerca di rifugio nella solitudine. “Città Mostro di Vestiti” è, invece, un divertissement con un’introduzione pianistica che ricalca un carillon, mentre in “Lulù Devi Studiare Marc Augé” la de-identificazione dell’individuo moderno è richiamata dall’antropologo maestro del Nonluogo, che distingue spazi realizzati intorno all’uomo e spazi, al contrario, che non hanno nessun riferimento storico, nessuna funzione aggregativa, nessuna particolare identità. Torna il rock’n’roll anni ’60 in “Le Mie Pareti Fluorescenti di Nord-Africa”, che cede di tanto in tanto il passo a una marcia, in stile Beatles. Il degrado urbano è il protagonista di “La Provincia Non è Bella da Fotografare”, mentre squisitamente Punk adolescenziale è “Ho Fatto Esplodere il Mio Condominio”. “Pegaso Disco Bar” inizia con uno sfruttamento del rumore alla Sonic Youth che cede il passo in breve a sonorità liquide, con un cambio di ritmo che diventa pesante e dilatato. “Ti Porterò a Cena Sul Braccio di Una Ruspa” ironizza sull’amore, sui ruoli, sulle convenzioni sociali ne rapporti di coppia, mentre la traccia di chiusura “Senontipiacefalostesso”, che nulla ha a che vedere col titolo, è una ballata tradizionale con tanto di archi, una sorta di delicata confessione sentimentale («Ti ho sempre chiamata, senza sapere il tuo nome»). Nessun lamento sterile, nessun compianto, nessuna autocommiserazione. In tutto il kitsch che viene descritto nel disco, in tutta la disillusione che porta a desiderare la solitudine in cui in fondo già si è, si sente una voglia di vivere con un’energia genuina e un’attitudine Punk che non cede mai, però, alla volgarità gratuita, alla provocazione tout court come negli ultimi esiti nostrani del genere (e mi riferisco al Management del Dolore Post-Operatorio). Ascoltatevi questi Officina della Camomilla perchè meritano davvero un po’ del vostro tempo.

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Please Diana – L’inevitabile

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Questo gruppo ha il mio nome e non sarò buona solo per questo piccolo particolare che comunque fa sorridere, infatti il significato del nome Please Diana rimane ancora sconosciuto. Che si tratti di un incitamento nato in sede prettamente sessuale di una coppia inglese, del riadattamento di una frase contenuta nella canzone “Open Fire” dei Silverchair,del ricordo della canzone di Paul Anka o di un accostamento laborioso e nonsense rimane pur sempre un bellissimo nome! I Please Diana nascono nella valle Umbra ai piedi della città di Assisi nell’estate del 2011 da un’idea del batterista Federico Croci e del bassista Alessandro Nardecchia, successivamente si uniscono al gruppo i chitarristi Marco Sensi e Filippo Bovini e la ciliegina sulla torta è la cantante Gloria Bianconie non solo perché io sia anche una donna ma perché in alcuni contesti musicali una giovane voce femminile ci “azzecca” al mille per mille.

Tutti questi elementi si concretizzano con il primo album L’inevitalile,uscito nel 2013,che contiene dentro di se i tre brani che hanno formato il loro primo demo del 2011: “Sospiro” brano melodico e molto orecchiabile nelle sue atmosfere alternative, che in “Cambiamenti” diventano certamente più rock anche se il testo si fa più intimo e personale, e “Quel Posto Che Non c’è” ultimo brano sia del demo che dell’album interessante per i suoi paesaggi certamente malinconici. Il primo demo contenuto nel primo album formato complessivamente da dieci brani, per un totale di circa quarantadue minuti, che viaggiano in atmosfere un pochino più rock come in “Non Chiedermi Perché”, “Istanti”, “Anima e Ragione” e in “Lasciandomi Svanire”, o più acustiche come l’interessante “Boreale” o la bellissima e malinconica “Posso Sentirti”.

Un lavoro, questo dei Please Diana, che si muove quindi nelle più classiche atmosfere alternative indie rock italiane con le sue bellissime chitarre e l’impasto sonoro che crea suggestivi momenti musicali. Il timbro vocale di Gloria, come dicevo prima, appare molto consono per il contesto in cui ci troviamo anche se certe volte appare abbastanza statico. Infine i testi esplorano naturalmente tutte le sfere più che della vita direi dell’animo umano, con le sue sofferenze e i suoi pensieri a volte malinconici. In sostanza un album bello da ascoltare soprattutto quando si ha qualche pensiero per la testa, utile per esplorarlo e capire se stessi anche se talvolta non ci si riesce nemmeno. Un gruppo da tenere sottocchio e sostenere in questo difficile mondo musicale italiano.
https://soundcloud.com/pleasediana/sets/linevitabile-2013

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Il Terzo Istante – Forselandia

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Forse esiste ancora musica da conoscere. Forse gli orizzonti da esplorare non sono finiti. Forse la terra non è già tutta battuta e non c’è bisogno di riadattare il solito ed ormai arido paesaggio, sperando che i cambi di stagione conferiscano a lui una veste nuova. No, forse c’è ancora chi indossa una muta da esploratore in cerca di terre mai calpestate, con il rischio di rimanere impantanato in sabbie mobili. Forse è caparbio e impavido, o forse più semplicemente ha fortuna, in ogni caso quello che a noi interessa è che riesce ad ottenere un ottimo risultato con la magnifica naturalezza della musica pop.

Il secondo EP dei torinesi Il Terzo Istante ha dunque un titolo azzeccatissimo. “Forselandia” esprime al meglio la scoperta di un nuovo mondo, ma anche di nuove indecisioni, di vecchi vizi e nuovi desideri e (forse?) di una società che vuole cambiare, che trova in nuovi orizzonti nuove speranze ma (forse?) non ha nessuna intenzione e stimolo nel raggiungerle. Tutto ancora molto vago e per questo tremendamente affascinante. Certo che se l’analisi si ferma al suono, la band suona terribilmente nuova e moderna e non solo perché sfrutta tutte le nuove diavolerie del caso (leggete la loro intervista a Rockambula sul crowdfunding e capirete come sono all’avanguardia i ragazzi) ma perché, a partire dallo strampalato combo batteria-chitarra-tastiera, il loro sound è molto semplicemente fresco e spiazzante.

Le quattro tracce dell’EP spaziano tra la psichedelia (sempre ben dosata e tenuta al guinzaglio), il rock più viscerale e la melodia dei classici italiani, mai ripudiati o intrappolati nel muro di suono. La voce di Lorenzo De Masi (anche alle tastiere) graffia la schiena già nel ballo storto de “Il Primo Difetto”, pezzo molto intelligente e dedicato al vizio del fumo. Il ritmo non si smorza e si continua con la danza tetra di “C’è Chi Non Muore”, a graffiare qui ci si mettono anche le strisciate sulla chitarra taglientissima di Fabio Casalegno, a dire il vero spesso fin troppo tagliente nell’economia del suono. Anche la mancanza del basso a volte lascia un po’ la bocca impastata, marcando una leggera mancanza di amalgama e di pasta sonora. “Ogni cosa è di Tutti” è spietata e cinica ma non scade nelle solite banalità da giovane disilluso. Le ritmiche storpie di Carlo Bellavia aumentano il senso di angoscia e ci portano barcollanti ad una frase epica: “di una cosa sei certo, nel 70 il rock’n’roll era già morto”. Certo che ascoltando questo pezzo mi viene da pensare che non sia proprio così.

L’EP si chiude con la ballata “Forselandia”. L’equilibrio è più che mai precario e l’idea geniale dello xilofono a questo punto del disco sembra quasi naturale. Spunta l’ombra malefica degli abusatissimi Radiohead, ma Il Terzo Istante paga il suo scomodo tributo e supera il pesante paragone facendo vincere la propria entità in un finale ricco di delay, suoni lontani e un crescendo che ci lascia sospesi in questo nuovo mondo. Attendiamo ancora qualche altra cronaca da questi abili e astuti esploratori. Abbiamo trovato qualcosa di nuovo all’orizzonte. Forse.

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Montauk – S/t

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Altro disco che riscuote interesse già dal packaging, in cartone grezzo, tenuto chiuso da un comunissimo elastico di gomma e che contiene una serie di immagini, disegni, illustrazioni. Questa è la faccia dei Montauk, che dicono di loro, in terza persona: “[Montauk] non è i Fugazi né gli Husker Du e nemmeno i Fine Before You Came, non siamo Il Teatro Degli Orrori, Montauk è un teatro di strada, acceso sotto le insegne al neon, in una città che sembra in festa e che invece vuole solo guardarsi allo specchio”, che è come dire tutto e niente.
Andiamo quindi oltre la faccia e le parole, dentro il groviglio sporco di questo disco omonimo dai suoni taglienti e impastati, dove abbondano distorsioni e voci arretrate, che parlano, gridano e osservano le cose con uno sguardo urgente, a volte rassegnato, spesso adolescenziale (“prova tu a pensare guardando il mondo come un ragazzo”, “Il Mondo”), quasi sempre appassionato (“la rabbia è una religione”, “Song No Tomorrow”).

Il disco fila, tutto sommato: i pezzi si lasciano ricordare e ri-ascoltare volentieri, tra ritornelli da Rock italiano (“Io”) e la modernissima morbidezza violenta o violenza morbida che va così di moda ultimamente (la parlata de “Il Bruco”,“Il Mondo”, ma in realtà tutto il disco). Alcune idee sono musicalmente godibili ma, forse, fanno poco per elevare i Montauk al di sopra della media nazionale dei gruppi Indie-Rock-Pop (tipo Fast Animals & Slow Kids, per intenderci). La voce esce poco, quando esce non brilla di personalità, ma è un genere, questo, che accetta di buon grado la semplicità vocale, per cui potrebbe accadere che una voce simile, alla fine, sia la voce perfetta per i Montauk.
Insomma, un esordio sicuramente senza infamia, ma anche senza troppa lode. La speranza è che i ragazzi proseguano a testa alta il loro personale percorso e che nelle prossime produzioni facciano uscire di più le loro voci (in tutti i sensi), cosicché non si debba più dire “i Montauk non sono questo, non sono quest’altro”, ma solo che i Montauk, alla fine, sono i Montauk. E basta.

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Atoms for Peace – Amok

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Su questo disco è già stato detto di tutto. Lanciato come se fosse l’araba fenice dei Radiohead o la fatica di un matrimonio artistico tra grandi nomi della storia della musica più recente che manco i Them Crooked Voltures, Amok è stato osannato o crudamente bocciato, tanto da tutta la stampa quanto dai fans di Yorke. O piace o non piace, insomma. L’unica certezza è che fa discutere, mettendo in campo tutta una serie di riflessioni che non sono assolutamente sterili e neppure troppo sottintese. Anzitutto viene da chiedersi quanto possa essere originale un progetto parallelo con un leader tanto carismatico e dall’immediata riconoscibilità stilistica come quella di  Yorke. Tra lui e Flea, ad esempio, è indubbiamente il primo a farla da padrone indiscusso, se si considera che l’autorialità di Flea emerge con chiarezza solo nell’intro e in alcuni incisi melodici di “Stuck Together in Pieces” e in “Reverse Running”, passando praticamente inosservata nelle altre tracce di Amok. Non è solo questione esecutiva, per cui la voce di Yorke toglie ogni dubbio e rimanda per direttissima ai Radiohead, come nella title-track “Amok” e in “Default” (solo per citare i casi estremi perché questa caratteristica permea in realtà tutti i brani del disco), ma è proprio una faccenda  interpretativa ed esecutiva: il cantato a bocca appena aperta, la strutturazione della forma canzone e gli arrangiamenti ricalcano moltissimo gli ultimi Radiohead – che, personalmente, mi sono sempre sembrati più gratuitamente sperimentali e asettici che geniali – e solo una virata elettronica massiccia separa gli Atoms For Peace dal passato progetto di Yorke. E qui entrano in gioco un altro paio di questioni. Anzitutto, l’unico leitmotiv del disco sembra essere un tappeto ritmico elettro-dance scandito con una chiarezza volumetrica che spesso è al pari di quella della linea melodica vocale (come in “Before Your Eyes” e nella già citata “Reverse Running”), in una sorta di ideale richiamo costante al trip-hop ma con le sonorità cupe della new wave (“Ingenue”) e accenni afro-beat inconsciamente pulsionali (“Unless”); in secondo luogo, poi, è difficilissimo distinguere dove finisca l’uomo e inizi la macchina e viceversa. E per quanto lo strumento elettronico e l’artificio possano essere usati con maestria e competenza, sì da fare emergere il lato umano del compositore, è quasi impossibile in Amok, capire cosa sia naturalmente prodotto e cosa no, sacrificando, involontariamente, ancora una volta gli strumentisti per esaltare la figura di Yorke come primigenio artista-uomo che convoglia il significato poetico-musicale della canzone.

Lungi da me porre una soluzione univoca a questi quesiti, il gusto personale credo che in questi casi abbatta qualsiasi questione etico-stilistica-estetica. Per me è il primo, buon lavoro di un progetto parallelo che spende a piene mani l’eredità del suo antecedente, nulla più.

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Danamaste – Le Teste Degli Altri

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Spiazzanti questi Danamaste, al terzo album con Le Teste Degli Altri. Meticci, confusionari, capaci di saltare tra la melodia e la distorsione, tra entrate Progressive (“Beat Generation”) e situazioni Rock più standard (“Marmo”), tra – bellissime – voci femminili, sorprendenti e vellutate (“Le Teste Degli Altri”), e cantati maschili alternativamente sotterranei o sopra le righe (“Elettrodomestica”).
In questo disco c’è veramente di tutto: un pizzico di Elettronica (“Centomani es. n°1”), tanto Rock, qualcosa di Progressive, una spennellata di Blues, ma anche del Pop sostenuto (“Le Scarpe” e le sue voci in secondo piano, magistrali). Meraviglia la capacità dei Danamaste di fare slalom tra estremi così diversi ed apparire, in ogni caso, credibili e capaci di gestire atmosfere, arrangiamenti, produzione: non è facile inserire nello stesso disco un pezzo come “Acqua”, sospeso e trasparente, e uno come “90”, gonfio di distorsioni e ritmi sincopati, senza farli cozzare, ma, anzi, facendo trasparire chiaramente come siano due facce diverse della stessa medaglia.

Le Teste Degli Altri è un disco perfetto per onnivori musicali, per chi s’accontenta di avere un’idea di quando si parte ma non gli interessa sapere né dove né come si arriverà. Un lungo viaggio, sfaccettato e multiforme, nelle grottesche maschere che indossano Le Teste Degli Altri. Un disco in cui immergersi, almeno una volta, giusto per provare la vertigine.

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