alternative Tag Archive
Ancora 3 dischi dal 2019
Alcuni lavori ripescati tra le uscite dello scorso anno che se vi sono sfuggiti vi consigliamo di recuperare.
Continue ReadingGood Moaning – Cornwall [VIDEOCLIP]
Guarda in esclusiva il video del secondo estratto dal loro ultimo album The Roost.
Continue ReadingRough Enough – Mackie [VIDEOCLIP]
Guarda in esclusiva su Rockambula il clip del singolo dei Rough Enough
What’s up on Bandcamp? || marzo 2018
I consigli di Rockambula dalla piattaforma più amata dall’indie.
Phidge – Paris [STREAMING]
In anteprima esclusiva per Rockambula Webzine eccovi “Paris”, il nuovo singolo dei Phidge, quar tetto bolognese che viaggia tra l’indie rock e l’emo-core 90’s.
Roipnol Witch – Starlight
Non è sempre facile scrivere delle recensioni. A voi probabilmente sembra una figata sputare sentenze nel bene o nel male su un progetto per cui qualcuno ha speso soldi, tempo, energie e sul quale, soprattutto ha messo la faccia. A parlar bene di un disco che entusiasma si rischia che poi quell’album faccia in realtà parecchio cagare ai più e si venga tacciati per venduti, per amici di amici di amici e qualsiasi altra porcata sotterranea possa giustificare un errore di valutazione così grossolano. Se se ne parla male, di media, l'”apriti cielo” è istantaneo e parte dalla band, dagli amici-fan della band e si conclude poi quasi subito lì da dove era partito dopo due o tre giorni di battibecchi e insulti social. Con il risultato che molte più persone ascoltano il lavoro in questione, per capire dove stia la ragione. Ammesso che di ragione si tratti. Perché è impossibile essere oggettivi nello scrivere una recensione. O meglio, per chi legge, è difficile essere ritenuti oggettivi quando si recensisce un disco.
Questo preambolo mi serve per mettere le mani avanti. Sì, ormai lo sapete già, suono in una band di sole donne. No, noi non l’abbiamo fatto un tour di presentazione dell’album. Perché no, in effetti non ce l’abbiamo un album. Viene da sé che no, non abbiamo un’etichetta discografica neanche piccola piccola. E sì, sarà impossibile per me farvi capire che quello che scrivo non è frutto di rosicamento, perciò se volete leggere fate pure, altrimenti fermatevi qui.
Le Roipnol Witch vengono da Carpi, in provincia di Modena. Sono tre donne più un maschio in realtà, una roba più alle Hole che non alle Savages. Ma su di loro si legge di movimento Riot, di all-female band, di rock in gonnella, di Rock With Mascara (che è un’idea meravigliosa che le ragazze hanno avuto – e non sono ironica – di unire tutte le band al femminile italiane e organizzare dei live itineranti per tutta la penisola, con scambio di contatti, di competenze, di passioni). Il movimento Riot Grrrl, lasciatemelo dire, era già morto quando Corin Tucker e Carrie Brownstein decisero di suonare insieme e fondare le Sleater Kinney. Ne avevano già le palle piene di essere intervistate in merito alla difficoltà di suonare in un panorama prettamente maschile o alla difficoltà di non contendersi il ruolo di prima donna con la compagna di band. Mamma mia. È difficile accogliere questo disco come una novità nel panorama musicale nostrano solo perché ci sono tre donne che suonano insieme in una stessa formazione (ma noi abbiamo già avuto i Prozac+, per citare solo una band antecedente con un organico simile). Non sarà (ancora!) discriminatorio concentrarsi sul genere nella promozione di qualcosa?
Dal punto di vista musicale, poi, Starlight non è la novità che aspettiamo (da un po’ e non certo e non solo dalle Roipnol Witch), ma è piuttosto un mix di influenze e di debiti artistici. Si va dalle sonorità New Wave della title-track “Starligt” al Pop-Punk degli anni Duemila di “Disagio” e “Oliver Tweet”; tra distorsioni contenute e registrazioni patinate (per un gran disco dal punto di vista tecnico ma ben poco sul piano artistico), si strizza l’occhio alla Berté in “Femme Fatale” e alle Plasticines di “Bitch” in “Be My Love”.
I testi sono alternatamente redatti in inglese o in italiano. Certo, nel 2016 è difficile trovare chi ancora non sa l’inglese e non riesce a capire un testo (per altro scritto da chi non è madrelingua e quindi non cede a slang e citazioni inafferrabili dagli stranieri), ma è evidentemente altrettanto difficile trovare nell’Alternative Rock un’attenzione per le liriche che non riduca il testo a mero espediente fonico (sempre che non si cada nella canzone di protesta dei soliti Zen Circus, Teatro degli Orrori, Ministri e compagnia). L’uso della rima, poi, come in “Non è un Paese per Artisti”, che poteva essere un pezzo davvero ben riuscito, diventa quasi un’irritante soluzione frivola per destreggiarsi nella grande difficoltà dell’accentazione piana della stragrande maggioranza delle parole della nostra lingua, un trattamento più alla Las Ketchup (o alle connazioni Lollipop!) che alla Au Revoir Simone. Per intenderci.
Il Rock femminile italiano continua, secondo me, ad essere debitore di un Rock al femminile d’oltreoceano che era già anacronistico quando è nato. Finché i coretti saranno di sexy Uh uh piuttosto che di contenuti, finché la leggerezza verrà scambiata per frivolezza anche da chi è parte attiva della composizione, finché mascara, minigonne e una rabbia senza agganci storici, senza il sostegno di testi di spessore continueranno a spadroneggiare in quella produzione che viene definita all female anche quanto la definizione non è proprio vera, si continueranno ad avere più Spice Girls che Carmen Consoli, in una dicotomia costante, per altro, tra suore e puttane. Si continuerà a notare più come si vestono queste ragazze per i live che ascoltare cosa vogliono dire. Ci si continuerà a stupire di vedere una donna suonare un basso e maliziosamente pensare anche magari alla bravura nel gestire un manico tanto lungo. Che pena.
C’è di che essere incazzate, come donne, senza doversi nascondere dietro al femminismo. C’è di che essere donne anche senza dover sculettare, di che farsi rispettare senza atteggiarsi necessariamente da streghe. E comunque, perdonatemi, se si vuole fare le suffragette, sarebbe bene avere, prima, qualcosa per cui combattere.
Sakee Sed – Hardcore da Saloon
Scherzando, dalle mie parti diciamo che in Brianza deve essere caduto un meteorite che piega lo spaziotempo o non si spiegherebbe la follia dei musicanti della zona. Credo una cosa simile succeda nel bergamasco, dove o vendono della droga molto buona o l’acquedotto filtra attraverso i resti di qualche bestia mitologica soprannaturale interrata nei paraggi che infetta la gente di lì e la rende mutante nella testa e nella musica. La prima spiegazione è più probabile, la seconda è più affascinante. Ci penso perché mi va in cuffia l’ultimo dei Sakee Sed, che avevo già incrociato ai tempi di A Piedi Nubi e che anche in questo Hardcore Da Saloon continuano nel loro meticciato di generi e spunti, creando un Far West che è talmente Far che forse non è più nemmeno West, dove il pianoforte sta in mezzo a tutto, facendosi roteare intorno ritmiche forsennate e distorsioni, voci seminascoste e gusto per teatralità e sorpresa. Non voglio fare paragoni troppo stringenti con altre band, e quindi non li farò. Ma posso permettermi di dire che anche a loro accade ciò che nella zona (geografica) succede spesso, ossia: una lodevole libertà compositiva e immaginifica che però lascia indietro la costruzione di un mondo lirico, di un racconto, per avere invece in cambio una panoramica a tinte forti e impressioniste che diverte e meraviglia, senza dubbio, ma non rimane impressa con la dovuta forza nella mente e, soprattutto, nel cuore. (Il riferimento geografico potrebbe essere anche frutto di un mio personale bias, ma il discorso non cambia). Brani come “Markala”, “Beck and Musical” (che ritornello!) o “La Fuga di Barnaba” creano sì colore e tensione, ma poi qualcosa si perde. Miscelano Rock, Folk, batterie pestatissime, frenesia e pianoforti inaspettati, fughe strumentali brevi ma pungenti, frasi melodiche sghembe, scalene, che allenano le orecchie, che soddisfano il palato, che tendono i muscoli facciali in un ghigno divertito e si fermano lì, sull’orlo del padiglione auricolare, senza penetrare nell’osso, nel sangue. L’energia e la gioia (in senso lato) che sprizzano da queste tredici tracce bastano a fare di Hardcore Da Saloon un buon disco? Sì. Per essere ottimo, però, ci vorrebbe forse anche qualcos’altro che i Sakee Sed, probabilmente, non sono nemmeno disposti a dare. Non importa: se facessero altro non sarebbero loro (e magari sarebbero peggio). C’è bisogno di band che fanno il cazzo che vogliono senza ruffianate. Io non mi convinco al 100% ma a loro, giustamente, che gli frega?