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Time Zero – Silenzio/Assenso

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Sulle ceneri calde e al grido di battaglia “post fata resurgo”, i The Banditi rinascono sotto il nome di Time Zero con una rinnovata line up e un nuovo album Silenzio/Assenso. La band romana ha affrontato un cambio importante di formazione che ha coinvolto voce e batteria e portato alla realizzazione di un album innovativo, che disegna una nuova rotta musicale dalla forte impronta elettronica. Messe nel cassetto le sonorità balcaniche, del precedente lavoro, le otto tracce di cui è composto Silenzio/Assenso ci catapultano in un mondo fatto da synth, sequencer e drum machine, nel quale s’innestano decisi elementi Rock alla Nine Inch Nails. Le liriche asciutte e taglienti, a volte feroci, contribuiscono a creare atmosfere dark e dare un mood sfacciato a tutto il disco. Un Songwriting ragionato che li avvicina ai nostrani Subsonica nell’attenzione verso le parole, con uno sguardo improntato al contenuto e alle immagini evocate da un lato, e al suono e al suo impatto sul risultato complessivo dei brani dall’altro. Nella mezz’ora abbondante di ascolto il quartetto romano ci regala molti pezzi interessanti che propongono inusuali soluzioni Elettrorock. Prima fra tutte, “Soluzione” è l’assoluta hit dell’album, ritmica, travolgente, parte in sordina per poi esplodere in un riff contagioso, che non ti scrolli più di dosso. “Cane”al contrario è la più sporca, nervosa e cattiva, e insieme a “Prurito” sono i due brani in cui l’attitudine Rock del gruppo prende il sopravento sull’elettronica, grazie ad una massiccia dose di chitarra distorta. “Satellite” e “Cellula” mantengono alto il ritmo sintetico e il livello di ballabilità, ma con risultato meno aggressivo e nevrotico. Chiude bottega “Varietà”, che in scarsi tre minuti riassume tutto lo spirito dei Time Zero spettinadoci con un attacco al fulmicotone, per poi lasciarci con un mix elettro prog, ritmicamente rallentato. Silenzio/Assenso rappresenta un’ottima prova musicale, originale, anche se non priva di alcune incertezze o scivoloni in alcuni brani causati da suoni datati, un po’ troppo 90ties.  La scelta vincente è l’utilizzo della voce non distorta ed effettata, il timbro graffiante e metropolitano di Nicola Pressi crea e mantiene la giusta tensione che regge il gioco tra base elettronica ed elementi rock. Speriamo che questa rinascita possa rappresentare per i Time Zero una nuovo punto zero da cui costruire il proprio futuro.

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Aa. Vv. – Brescia C’è New Generation

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Prima di ascoltare un qualsiasi disco Punk (e derivati) italiano, soprattutto, bisognerebbe comprendere da che parte si sta. Non è cosa intelligente frazionare il mondo e ogni aspetto che lo contraddistingue, in categorie fatte di opposti eppure, in questo caso, dobbiamo captare se è e sarà nostra intenzione schierarci tra le fila dei nostalgici anni 70, convinti che il Punk sia morto ormai da anni e con esso le illusioni di ribellione e cambiamento oppure tra quelle di chi è convinto che in realtà il Punk, interpretato più come condizione mentale che come stile musicale, non sia mai morto e anzi sia impossibile da sopprimere, almeno finché ci saranno giovani ancora capaci di sognare e di opporsi. Una compilation come Brescia C’è New Generation può essere seguita senza pregiudizi solo da questi ultimi, cosa che non indica necessariamente dover essere ammaliati dalla musica che contiene. Del resto, il valore delle raccolte è circa lo stesso di quello che avevano tempo fa, quando erano allegate alle riviste, o ancor più in là negli anni, quando erano utili a mettere in mostra una marea di emergenti nel minor spazio fisico e uditivo possibile. Del resto, è più facile scoprire una qualsiasi nuova promessa attraverso queste trovate che non ascoltando intere discografie di band trovate a caso sul web, col problema anche di dover stanare, scrutare e sporcarsi le mani. Chi fa un lavoro come il nostro non ha complicazioni ma per un pubblico sempre più impigrito dalla “velocità” del web, scovare la next big thing rischia di diventare un’impresa inverosimile.

Ecco allora che Brescia C’è New Generation acquisisce un valore moderno per certi versi, anche se vecchio come la musica stessa nella realtà dei fatti. L’idea fondamentale è quella di mettere insieme ventidue band in ascesa o comunque non troppo note nel resto dello stivale, così da dare la possibilità a un pubblico più ampio possibile di farsi un’idea di quello che è lo stato di salute delle scene emergenti italiane, nel caso di uno specifico territorio e magari svestire qualche formazione degna di considerazione. A essere sinceri non c’è da aspettarsi molto a osservare l’estetica di artwork e libretto (comprensibilmente inesistente) ed anche la qualità non avvicina minimamente quella delle migliori uscite internazionali. Brescia C’è New Generation mette invece ancor più in evidenza un grattacapo che si fa sempre più critico e che ho avuto modo di rilevare anche durante diverse manifestazioni, contest, eventi nei quali ho potuto lavorare a stretto contatto con gli indipendenti e gli emergenti. Proprio il concetto d’indipendenza, tanto rivendicato a parole, mai si traduce concretamente in una proposta veramente originale, fuori dagli schemi, qualitativamente eccelsa e non solo sotto l’aspetto tecnico. Forse troppe sono le persone che decidono di provarci e il talento finisce per nascondersi. Non voglio con questo gettare fango sulle tante formazioni di tutto rispetto che compongono la compilation, su tutti i grandi punker Totale Apatia che in realtà poco avrebbero bisogno di farsi notare ancora ma non posso, per onesta intellettuale, negare che non siano molti i nomi veramente sopra la media, nel disco qui trattato. Non è il caso di scendere nei particolari perché la mole dell’opera e i tempi ristretti non coincidono, ma gli unici che forse sarebbe il caso di approfondire, oltre ai già citati Totale Apatia, paiono essere i Micro Touch Magics (Crossover), i French Wine Coca (Alternative Rock), i Coffee Explosion (Garage acerbo ma potenzialmente molto interessante, nella sua capacità di unire epoche lontane), La Cena dei Cannibali (assurdamente genialoidi e anche loro dal potenziale notevole), The Mugshots (evidentemente capaci anche, se il brano proposto non mi ha troppo entusiasmato). Non mancano inoltre band di tutto rispetto, come gli Under a Curse, gli Uprising o i DCP, che però seguono troppo i loro idoli e il loro stile, imitando senza scrupoli anche se non facilitati da generi difficili da rinnovare. Poi c’è chi si è proposto con registrazioni veramente improponibile e di scarsa qualità ma, in questo caso, il discorso sul “mettersi in mostra a tutti i costi” si farebbe troppo lungo e complesso. Meglio tornare ad ascoltare questi ventidue brani, alcuni bellissimi, altri grintosi, molti mediocri, pochi veramente difficili da digerire eppure certamente tutti onesti e fatti con cuore e anima, più di ogni altro brano che possiate aver ascoltato oggi sulla vostra Rds.

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7 Training Days – Wires

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Una conferma di come il Centro Italia sia sempre più una fucina di band promettenti e con ottime capacità.
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Rego Silenta – La Notte è a Suo Agio

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Prima prova sulla lunga distanza per i Rego Silenta, quartetto di Romagnano Sesia che ha presentato a gennaio il primo full length La Notte è a Suo Agio. Il disco completamente autoprodotto rappresenta, per i quattro piemontesi, la sintesi di quasi dieci anni di attività, dagli inizi come cover band, fino all’attuale formazione. Dieci anni di lavoro, live, sperimentazioni musicali e di generi tutti raccolti in quattordici brani, che danno vita a un lavoro molto ricco, probabilmente in maniera eccessiva, in cui si incrociano molte influenze diverse e una varietà di stili che, se da un lato sicuramente fanno emergere l’ottima padronanza e preparazione musicale del gruppo, dall’altra parte ne appesantiscono l’ascolto. La Notte è a Suo Agio può essere definito un concept album, che basa lo storytelling sulle tematiche legate al sogno e le divide in quattro momenti ben distinti: il dormiveglia, la sensazione di cadere, il diversamente incubo, infine nell’ombra.  Un taglio narrativo prevalentemente intimistico e noir, che predilige l’incubo, il tormento, i toni scuri e cupi della notte, alle candide nenie e alla dolcezza del riposo.

In questo viaggio onirico, tra stati d’animo in notturna, metafora di un più ampio percorso esistenziale, i Rego Silenta spaziano e attingono a piene mani dalla loro storia, passando dalla denuncia sociale di “Beni Primari” e“Può Essere Paura”, brani ispirati al Rock italico degli anni 90 degli Afterhours e dei Litfiba, all’apripista “L‘a(m)issione”, ballata Rock dal gusto più moderno sulla falsa riga dei Ministri. Proseguendo nell’ascolto troviamo il momento di rottura duro e crudo con lo Stoner di “Guardando in Terra Mentre Defecavo” e la psichedelia ipnotica di “Un Pretesto”, uno dei brani più toccanti, che con il recitato del cantante e un finale in crescendo che ricorda lo stile dei Massimo Volume. Passo falso nel Folk Balcanico con “Rumore” dove la massiccia aggiunta di fiati ci porta diretti in una piazza dell’Europa dell’est.Per fortuna lo scivolone rimane un episodio isolato e subito dopo siamo nuovamente riportati alle atmosfere Rock, più consone al quartetto, con “C’è una Menzogna” e il brano di chiusura “Elogio alla Banalità”. La Notte è a Suo Agio è un disco d’esordio nel complesso pretenzioso, soprattutto per lunghezza ed eccesiva varietà della proposta musicale. Un eccesso di zelo, di chi ha voglia di mostrare, per la prima volta, tutta la propria storia e le proprie capacità, ma che lascia, in questo modo, l’ascoltatore confuso e distratto rispetto all’intensità della scrittura e alla bravura dei musicisti.

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Medulla – Camera Oscura

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Il secondo disco dei Medulla, band milanese che si autodefinisce Dark Cabaret / Cantautoriale Disturbato, nei primi secondi rischia di farmi una prima impressione bruttina. Il primo brano, “La Bestia”, mi fionda in un mondo di Rock mescolato a tastiere gonfie e batterie energiche come schiaffi, con una voce bassa e lineare che ricorda quella di Francesco Bianconi dei Baustelle. Mi ci vuole un attimo per abituarmi alla costruzione sghemba dei Medulla di Camera Oscura, come quelle deformità architettoniche che sembrano poter crollare al primo alito di vento e invece poi noti che uno schema c’è, uno scheletro forte e resistente, una robustezza che pensavi di aver perso nelle linee storte del disegno generale.  I Medulla stanno in piedi, truccati e cupi nel loro mondo un po’ naif, dove ritmiche a metà tra l’alternativo italiano in salsa Ministri e le mode d’oltremanica sostengono una pasta di chitarre e (soprattutto) synth, pianoforti, con un gusto molto retrò che li fa sembrare fuori dal tempo. Camera Oscura passeggia ignaro sul filo di lama, tra attimi gustosi e interessanti (il ritornello di “La Bestia”, qualcosa in “La Polvere” che ha un riff che ricorda quello de “La Fine di Gaia” di Caparezza, la tranquillità iniziale di “La Tenebra”) e momenti di imbarazzo incosciente (ad esempio, i parlati, vedi proprio in “La Tenebra” o alcuni suoni che, nel migliore dei casi, paiono vecchi e stantii e fuori luogo come il riff iniziale  de “Il Coniglio”), probabilmente causati da un posizionamento a livello di mood che si basa più sul desiderio che sulla sostanza: per fare Dark Cabaret, ossia, per creare un lato teatrale e, in senso lato, atmosferico, che sia credibile, bisogna averne la capacità, e qui siamo alla sufficienza scarsa, niente di più. Magari è nel live che questo profilo riesce a farsi notare maggiormente (anzi, sono sicuro che sia così), ma qui stiamo parlando di un disco, e in Camera Oscura i momenti che si appoggiano su questo lato, purtroppo, sono momenti di piattezza, in un lavoro che comunque tenta di essere denso ed emotivamente intenso (alcuni passaggi de “La Notte”, ad esempio, possono tranquillamente immaginarsi sul palco di quel festival annuale che si tiene in Liguria, il che non è per forza un male). Anche sui testi si potrebbe lavorare di più: per fare qualcosa che si possa assimilare al cantautorato non basta fare dei testi intelligibili (questo è scrivere canzoni, lo fanno tutti). Se davvero si vuole scomodare la già di per sé scomoda e indefinita definizione di cantautorato, la ricerca (sia nella forma che nel contenuto) deve approfondirsi, e qui siamo senza dubbio sommersi, sì, ma vicini alla superficie.

Riassumendo, un disco prodotto bene, suonato altrettanto bene, che nel complesso sta in piedi e che a tratti sa anche essere convincente, ma che poi scade in mille piccoli particolari che sembrano improvvisati, o che vengono preparati con cura in teoria ma traditi dalla pratica. Con più focus e una scrittura più congeniale ai veri punti di forza della band (la voce calda, quando canta, le ritmiche piene, il pianoforte) poteva uscire un disco da gustarsi dall’inizio alla fine. Con Camera Oscura, così concepito, facciamo più fatica.

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L’Ordine Naturale delle Cose – EP

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Freschi freschi e appena nati, Stefano Cavirani (voce/chitarra), Gioacchino Garofalo (chitarra/basso), Mattia Amoroso (chitarra/basso), Enrico Cossu (viola) e Alessandro Aldrovandi (batteria) formano a Parma nella primavera del 2013 L’Ordine Naturale delle Cose, una band decisamente Alternative Rock fedele alla lingua italiana che é andata diretta in studio per registrare le loro prime quattro idee nate da questo incontro sonoro. EP si compone infatti di quattro brani che mettono in evidenza l’ottimo potenziale di questa band attraverso la loro evidente abilità nel creare una sonorità che li caratterizzi con arrangiamenti mai banali. Si parte con “Questa”, una traccia malinconica caratterizzata da un botta e risposta tra una viola alquanto depressiva che si contrappone a del cattivo Rock distorto; si continua con “La Volta Buona” invece maggiormente ritmica ed “Opaca”, forse il brano meglio riuscito di tutto l’EP anche grazie alle sonorità celtiche ben realizzate. Si finisce con “In Punta di Piedi”: calma tra arpeggi di chitarra e poi subito dopo incazzata e molto Linea77 dei primi tempi.

Purtroppo la voce di Stefano rimane soffocata un po’ in tutte le tracce non uscendo fuori come dovrebbe e come meriterebbe; questo molto probabilmente per una questione di mix (scusami Omid Jazi), ma considerando il breve tempo da cui il progetto L’Ordine Naturale delle Cose esiste il risultato del loro debutto è più che ottimale anche se forse troppo affrettato, perché date le potenzialità che si intravvedono ascoltando questo loro primo lavoro forse aspettare un po’ più di tempo per organizzare e sviluppare nuove idee non sarebbe stato male. Insomma, far uscire con calma un lavoro più studiato e meno immediato per presentarsi al mondo. Per chi volesse ascoltarli EP è scaricabile gratuitamente dal loro sito web, quindi buon ascolto!

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Egokid – Troppa Gente su Questo Pianeta

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Il tre è il numero perfetto. E gli Egokid tornano dopo tre anni dall’ultimo disco e giungono al terzo full length della loro carriera. Numeri importanti che creano una certa aspettativa con cui è difficile avere a che fare. Troppa Gente su Questo Pianeta apre con “Il Re Muore”, traccia cantautorale con un’impronta vocale alla Max Gazzè. “La Madre” è Indie Rock puro con le chitarrine plin plin, aperture ariose, tempi dilatati e poco slancio (purtroppo). Gli Egokid si apprezzano particolarmente nella terza traccia, “In un’Altra Dimensione”, con un arrangiamento introduttivo quasi da cantautorato Jazz alla Paolo Conte e fini inserimenti strumentali per brevi incisi melodici gustosi e reiterati con un certo autocompiacimento. Anche qui, però, il pezzo non aggancia l’attenzione.

Ne “Il Mio Orgoglio” echeggia la lezione di Miles Kane e in “Solo Io e Te” quella dei Muse, mentre “L’Alieno” è una ballatona delicata con un arrangiamento abbastanza scontato, costruito su una chitarra arpeggiata e lunghi accordi delle tastiere in sottofondo.  Il Pop Italiano, un po’ datato e dal sapore vintage è alla base di “Che Tempo Fa”, ma le troppe rime finiscono per svilire una canzone potenzialmente bella, fresca e frizzante. “Frasi Fatte” è il brano in cui il cantato mi ha convinto di più: è quasi un recitativo teatrale, come se il pezzo fosse estrapolato da un musical. Un certo gusto parodico si trova in “Non Balliamo Più”, siparietto elettronico all’interno di un disco Alternative e colto, come una citazione estemporanea di una certa Dance nostrana che decisamente (e fortunatamente) non c’è più. “La Malattia” ha un arrangiamento molto complesso e molto ben curato e reso, con un tono sommesso e battagliero che ricorda “Solo un Uomo” di Nicolò Fabi. Niente comunque, che basti per convincere che gli Egokid abbiano sfornato un disco che suggelli meritocraticamente la loro carriera. Troppa Gente Su Questo Pianeta è un album pregevole, ma poco accattivante, colto ed elitario ma poco coinvolgente, ben arrangiato e strutturato ma poco comunicativo. Davvero peccato.

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Cosmic Box – Last Broadcasting Station

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Un motto è una frase che descrive le intenzioni o le motivazioni di un gruppo; per i Ferraresi Cosmic Box le magiche parole sono anche il titolo del loro primo EP uscito nel 2010, Not Better, Simply Different. Dopo quattro anni da questa dichiarazione d’intenti  è arrivato il momento per loro di ributtarsi nella mischia con un nuovo lavoro L.B.S., Last Broadcasting Station. La domanda spontanea è: “saranno ancora i fieri rappresentanti di quelle quattro parole?”. Discograficamente parlando quattro anni non sono pochi e L.B.S. è un album più maturo e ricercato. Non spaventatevi, non ascolterete una versione ammuffita e decrepita dei Cosmic Box ma dieci brani sanguigni e d’impatto, che scorrono velocemente. Al primo ascolto si percepisce subito la distanza rispetto al lavoro precedente. Le novità che il quintetto ferrarese ha adottato sono varie e molteplici sia a livello tecnico sia di songwriting: la presenza di assoli musicali che danno corposità e spessore a brani come “Trough Skin & Bones”e “The Daily Work”, ritmi rallentati che esaltano le suggestioni come in “All the Things You Cannot Hide”, e una vera e propria ballad, nell’accezione più classica del termine, dalle atmosfere rarefatte e dal titolo criptico “66”.

Tutte queste innovazioni sul lato della composizione confluiscono in un generale cambiamento di fuso orario, che da un sound marcatamente ispirato all’immaginario British si sposta verso influenze a stelle e strisce, Incubus, Pearl Jam, The Strokes, Foo Fighters solo per citarne alcuni. La stessa voce del cantante Andrea Gnani ricorda molto nel timbro e nell’uso quella del poliedrico Brandon Boyd, in memoria, forse, del loro passato da cover band. Nonostante i cambiamenti i Cosmic Box non rinnegano completamente le proprie radici e includono nell’album anche brani come “New Way Home” e “Don’t Move”, in stretta sintonia col passato, dove chitarre distorte e batteria decisa ed essenziale dettano le regole del gioco, creando quell’allure rock anni 90 che, sebbene semplice nella melodia, garantisce una certa resa d’impatto. Tirando le somme, L.B.S.  è un disco che musicalmente rende bene e ha quel gusto internazionale che consente al quintetto di rompere gli argini della bassa pianura emiliana. La stessa operazione viene replicata anche sul piano testuale, esulando dagli standard produttivi di molti artisti italiani, che si ostinano a scrivere in una lingua che non gli appartiene. Insomma un disco da ascoltare e magari consigliare per una serata tra amici, che in queste righe ha ricevuto molti punti , ma che però è colpevole di un solo grande peccato: la mancanza di originalità e distanza rispetto ai propri modelli musicali. Andrea a compagni, probabilmente, in questo nuovo capitolo dovrebbero cambiare il loro motto in better, not so different.

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Entourage – Vivendo Colore

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Suonano compatti e caldissimi i tre Entourage nelle undici tracce del loro ultimo lavoro, Vivendo Colore, e non lo diresti: titolo, moniker, grafiche contribuiscono a creare un’immagine diversa da ciò che poi traspare dalla maggior parte dei brani di questo disco di Rock a tratti duro, ruvido (“Kronos”), ma che poi, trasformista, si alleggerisce, scopre lati ambientali nascosti e atmosfere aperte e avvolgenti (“Battiti”), per poi rimbalzare tra attimi Pop e elettricità vorticante (“Guru”).

Una doppia anima che forse è il punto di forza del trio siciliano, anche se, personalmente, vengo conquistato più dagli episodi ariosi e anomali (“Evoluzione”, “Prima Luce”) rispetto ai riffoni di “The Maya” o “Navarra”. Discorso simile per le liriche, che in “Tappeto Volante” hanno saputo trasportarmi in un mondo loro, tratteggiato con pennellate semplici ma allo stesso tempo coinvolgenti, mentre nel resto del disco gli Entourage diventano meno focalizzati e sembrano prestare molta più attenzione al suono che al significato delle parole. Una scelta che ha una sua dimensione e una sua ragione, ma che funziona in alcuni brani (quelli più energici e diretti) e meno in altri.

Vivendo Colore è un bel disco Rock che ci permette però, spesso, di toglierci da binari e da strade già troppo battute per entrare nel folto dell’erba o tra la polvere dei deserti, anche solo per cambiare aria e panorama. Gli Entourage, come dicevo, suonano compatti, caldi, consapevoli: il viaggio si farà, si farà comodo, e, nella giusta prospettiva, sarà anche un bel viaggio da ricordare.

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Runa Raido – Il Primo Grande Caldo

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Come insegna un vecchio film noir del 1953 nel gergo della malavita americana il grande caldo indica un aumento d’attenzione della polizia nei confronti dei malavitosi e delle loro attività”. Che sia per pura casualità o per recondite passioni cinematografiche il secondo album dei Runa Raido, Il Primo Grande Caldo, dopo un primo ascolto richiama in modo deciso l’attenzione, un po’ come quando una sentinella, appostata nel buio di un incrocio percepisce qualcosa provenire da poco lontano. E da quel poco lontano arrivano sei tracce che si contraddistinguono per un sound deciso e compatto, una bella dose di carattere e un approccio schietto. Leggendo la biografia della band si notano partecipazioni a concorsi, qualche premio vinto, e molte cose poisitive che rappresentano bene le potenzialità del gruppo. Il quartetto laziale non si nasconde dietro sofisticate impalcature, ma parla in maniera diretta, spesso con durezza e implacabile lucidità,come in “Michele”, apripista dell’album, impetuosa e con un riff coinvolgente. Anche il brano “Buone Maniere “si inserisce sullo stesso filone e sottolinea la scelta stilistica di un linguaggio ponderato,un songwriting impegnato che non si limita e raccontare una bella storia, ma che svela e descrive ritratti di fantasmi viventi, drammi umani e malcostumi diffusi.

Se le tematiche forti trovano nei brani  sopra citati una corrispondenza musicale, in “Estate Torna” i suoni si ammorbidiscono, la batteria rallentail ritmo, pur mantenedo salde le redini, e le tastiere ci cullano verso una ballad intima chelasciail sapore agro dolce della consapevolezza. Tra le sei tracce che compongono l’album“Al Tempo dei Fuochi “ è la più interessante al punto di vista melodico con molte variazioni e ritmi non lineari, mentre con “Il Grande Caldo” si ritorna a un immaginario a tine forti acompagnato da sonorità maledetamente Rock e da un minuzioso video realizzato in papercutting. La chiusura arriva con con una versione molto personale e in linea con lo stile asciutto dei Runa Raido de “La Domenica delle Salme”del sempre eterno maestro De Andrè. Stile, personalità, testi profondi e interessanti fanno de Il Primo Grande Caldo una piacevole sorpresa. Non c’è spazio per eccessi, grandi trasgressioni o superflui personalismi, siamo nel terrotorio del Rock tradizionale e tutto torna e funziona bene per poter anche riscuotere un buon successo di pubblico.

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Alteria – Encore

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Grinta e audacia, queste sono le principali caratteristiche di Alteria, una ragazza dalle mille risorse e da uno spirito Rock impareggiabile. C’è chi la conosce come conduttrice del programma Italians Do It Better su Rock TV, chi come speaker in Rock’n’Roll Radio e chi come membro dei Rezophonic e dei suoi ex NoMoreSpeech. Stefania Alteria Bianchi è una front woman molto in vista, quasi un riferimento come la nota Cristina Scabbia, è caparbia e determinata e questo suo modo di fare cosi altruista le ha permesso di raggiungere svariati traguardi. Adesso ci occuperemo di Encore, il suo disco da solista che a dirla tutta è una vera e propria ventata di freschezza.  Parliamo di un lavoro Rock all’avanguardia, come miscelare lo stile di Courtney Love con quello degli Exilia, solo che Alteria dispone di doti canore che riescono a esprimere a tratti rabbia e aggressività e altri dolcezza e sensualità.

Nel disco padroneggiano riff taglienti e rimbombanti, l’uso delle chitarre è  infatti accurato e lavorato nei minimi dettagli. Insomma quella di Alteria è pura classe e se ascoltate pezzi come “Bad Trip”, la titletrack e la successiva “Empty Land” capirete il motivo. Oltre queste citate sono da tenere in considerazione “Protection” ed “Angel-Love”; in quest’ultima si manifesta la sensualità dell’ artista. La passione per Alteria è tanta, i sacrifici ci sono e la volontà è a non finire, tutto questo ha portato la rocker a raggiungere importanti obbiettivi e un disco come Encore poteva essere sfornato solo da una mente determinata, che mira sempre oltre fronteggiando qualsiasi avversità. L’esperienza con i NoMoreSpeech è stata significativa oltre che complessa ma Alteria ci ha riprovato, in maniera diversa, non si è tirata indietro e il risultato è stato questo eccellente album. Un’Alteria che è anche una validissima artista oltre che una conduttrice e speaker degna di nota ma la questione fondamentale è questa: con la sua musica è riuscita a emozionare.

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Il Paese che Brucia – Alta Marea

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C’era una volta in una pease lontano. Probabilmente questa recensione dovrebbe incominciare con questo incipit, ma la verità è che la storia de Il Paese che Brucia e del loro EP Alta Marea, non è una favola a lieto fine. Incomincio chiedendo venia al gruppo per aver lasciato il link del loro EP per un po’ di tempo in disparte e indiscriminatamente in coda rispetto a tutte le altre attività giornaliere, ma mai mi sarei aspettata di dover fare una recensione postuma. Il gruppo, infatti, con un laconico post su Facebook, colorito da una pallida metafora fiammeggiate ha annunciato, circa un mese fa, lo scioglimento. Ora la cosa più sensata sarebbe stato non fare la recensione, ma non mi sarei mai persa l’opportunità di scrivere il mio primo “necrologio”musicale.  Che sia ben chiaro, nonostante la tragedia non è ammesso nessun tipo di buonismo all’italiana per i giovanotti avellinesi.

Le cinque tracce che compongono l’EP, infatti, ci mostrano diverse aspetti del gruppo. Dal punto di vista contenutistico il quartetto non si tira indietro e affronta temi impegnati, a volte profondi, senza dubbio con una buona dose di critica alla società moderna e ai suoi malcostumi,come nell’apripista “Vita Elegante”. L’energia non manca e in tutte le tracce si nota una decisa impostazione musicale che predilige la sezione ritmica basso e batteria.  Diciotto minuti di alti e bassi, la stessa sopracitata “Vita Elegante”presenta un inizio e riff interessanti, per poi scivolare alla fine sulla buccia di banana di un confusionario Cross Over che invece di accentuarne il carattere fa perdere punti. “Circe”, pezzo di chiusura segue lo stesso cammino, inizio da ballad intensa, chitarra e voce tirata, finale in crescendo di ritmo ed intensità, se non fosse per un intermezzo, trenta  secondi di baratro, fatti da una batteria prepotente che spezza l’evoluzione emotiva del pezzo. “Il Sogno di Joro” e “Sono Fuori”  filano dritti senza troppi intoppi, sono decisamente brani figli del sound, e del corposo segno, tracciato nel panorama italiano dai Ministri. Alta Marea in questo caso è un titolo abbastanza rappresentativo per questo EP, anche se non vuol dire che Il Paese che Brucia fosse un gruppo di cui desiderare la morte, anzi probabilmente loro sono la perfetta rappresentazione, lo spaccato ideale della realtà di molti gruppi emergenti. Essere una band che non si limiti a diffondere la propria musica nel garage sotto casa è una sfida enorme, una vero scontro fra titani. Impegno, determinazione,  passione sono solo i punti di partenza, le stesse capacità musicali e di songwriting, spesso rappresentano la base,sono dati per scontato e  rappresentano un sicuro lasciapassare per il paradiso dei musicisti. Ci vuole un progetto, degli obiettivi, capacità di relazionarsi e qualche piccola dose di doti manageriali. Sembra brutto dirlo, ma la verità è che una band, è come una piccola impresa che deve crescere grazie alla sforzo colletivo di tutti, i rematori solitari e i Don Chisciotte de no altri hanno vita breve. Questo non significa rinunciare alla propria indipendenza e doversi necessariamente piegare a logiche commerciali o mainstream. In fondo per essere professionisti e vivere della prorpria musica devi trovare un tuo pubblico che ti apprezzi, che sia disposto a venire ai tuoi concerti e a pagare per i tuoi live.

La strada è irta, piena di insidie  tanti dolori e poche gioie. Forse i nostri avellinesi, antieroi della loro stessa storia, nonostante gli sforzi, non hanno avuto il giusto approccio, o semplicemente le loro strade personali si sono separate e gli interessi diversificati. Non facciamogliene una colpa, a volte è meglio interrompere ciò che non cresce, iniziare un nuovo progetto ed evitare di rimanere a vita nel limbo del garage. D’altrondela loro dicharazione d’intentire citava incautamente cosi: “Gruppo avellinese nato nel tardo 2011 da una casuale aggregazione di pessimi individui”.  Preveggenza inconsapevole, non lo sapremo mai. Sicuramente, come dal manuale della storia perfetta, possiamo trarre, un’amara e quanto mai attuale  morale, tra l’altro titolo di un libro che consiglio: “ Uno su Mille ce la Fa”.

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