alternative rock Tag Archive

The Washing Machine – Bigmuff Supersolo Ufo BOPS

Written by Novità

Disco d’esordio per The Washing Machine, un trio che mescola rock grungy ad un italo-alternative con attitudine pop, ma che non scade nella banalità.
Tra sporche ballate indie (“Big Youth”, trascinata da uno sfondo di piano e synth, che inizia come un brano dei Linkin Park di A thousand suns) e composizioni più spiccatamente rock (“Campionessa”, con un testo che grida Verdena a squarciagola, soprattutto nei lo sai, ormai, dirai a fine verso, e che in 5 minuti mescola limpidi riff di chitarra, angoli desolati, armonizzazioni vocali, progressioni à la Ministri e ritornelli super-orecchiabili) si trovano anche episodi più originali (“La filastrocca di Annaviola” vince tutto, un testo ironico e una base ritmica ossessiva a fare da controcanto), brani da sing-along (“Per il mio nome”) e cavalcate dal finale macchiato di post-rock (“Blackout radio”).
Insomma, Bigmuff Supersolo Ufo di certo non annoia, e ha persino qualche spunto originale (nel mischiare i generi, per cominciare, e nei testi, che sebbene ricordino – come già accennato – i Verdena, al contrario dei loro hanno un senso, e alcuni si fanno anche leggere piacevolmente). In più, è un disco suonato e prodotto come si deve: sintetico, impastato quanto basta, con inserti (la chitarra, alcuni passaggi di batteria) oculati e precisi.
Un ascolto senza dubbio consigliato se vi piacciono distorsioni grosse e  voci pulite, se avete consumato i dischi dei Nirvana e se siete innamorati dei fratelli Ferrari. Io, nel frattempo, mi riascolto la ghost track: “Vorrei comprare la lavatrice nuova / per sbagliare candeggio, lo sai”.

Read More

Un-Reason – S/t

Written by Recensioni

Ok, ancora non ho ascoltato il disco degli Un-reason e già mi piacciono. Spulciando tra le bio dei quattro componenti la mia testa vola indietro a un po’ di tempo fa, quando il mio mondo sembrava voler gridare il disagio del tossico da strada di Fuorivena, la fiera rabbia punk dei Klasse Kriminale, i giochi di parole dei Prozac+ e la ricerca di un marcio più elettronico negli Skinny Puppy. Gli Un-Reason si portano dietro un bagaglio musicale degno di tutto rispetto e dunque mi aspetto un disco curato nei minimi dettagli e non convenzionale.
Bene ora accendo le mie amate casse e mi lascio trasportare in un’altra dimensione in cui le contaminazioni sonore già dalla prima traccia – “A Place Of Truth”-appaiono infintite, ma è con Blink che finalmente il disco si apre e i N.I.N. prevalgono su tutto: chitarre che scoppiano, voci distorte ed effettate. Le atmosfere si fanno più pacate in “Our Special Way”, dove i suoni lenti e disturbanti mi hanno ricordato i primi Placebo, che riuscivano ad impastare una accozzaglia di influenze a tratti quasi folk con il dark più melodico e oscuro di ognuno di noi, regalando brani fottutamente pop (nel senso buono del termine).
Per tutta la durata del disco la voce di Elio Isaiasi sdoppia, passando da distorta a melodica, risultando però maggiormente interessante quando distorsori, delay, filtri ed altri effetti si fanno prepotenti, come in “Kids Hurting Kids”, favolosa traccia dove basso, elementi elettronici e un finale esplosivo la rendono unica. Il disco si conclude con “Waves”, una traccia che invita ad ascoltare la forma d’onda sonora in tutte le sue componenti: spazio, tempo, voce e musica. L’unica pecca? Il non aver incluso delle tracce puramente strumentali, io personalmente le avrei apprezzate, perché se c’è una cosa che non si può non riconoscere a questi ragazzi è sicuramente un’ottima cura negli arrangiamenti.
Insomma, mi piacciono perché suonano noise e sporchi, ma sono maledettamente curati e puliti, grazie anche ad una minuziosa cura dei dettagli, tanto che non sembra proprio di ascoltare una band nostrana.

Read More

Nick Cave & The Bad Seeds – Push the Sky Away EP

Written by Recensioni

Capita una volta l’anno dover recensire un album così, un gigante così. Uscirà il 19 Febbraio “Push the Sky Away” il nuovo EP di una delle personalità più contorte del panorama rock mondiale.
The Big One nel suo genere, oscuro e malinconico, per me un mostro. Dall’Australia il grande ritorno di Nick Cave & The Bad Seeds. Solo uno come lui poteva dare un nome così ad un album. Come se volesse chiudere un ciclo che ha avuto inizio nel suo primo album “From Here to Eternity”.  In ombra. Tutto quello che dirò sarà scontato. Quindi lasciate perdere e ascoltate l’album. Questa è una questione personale, non una recensione. Una lunga storia, struggente. All’epilogo di una carriera fatta di personaggi in ombra, sulla vita, sull’amore, sulla “tradizione”. Perchè We go down with the dew in the morningcome ci racconta in We No Who U R la traccia che apre questo EP.
Ma facciamo una pausa. Quest’album viene fuori dopo 5 anni di silenzio dopo l’esperienza di “Dig!!! Lazarus, Dig!!!” in cui si stacca un altro pezzo dei Bed Seeds, Mick Harvey ex chitarra elettrica, chitarra acustica, basso, organo. Uscito dalla band nel 2008 e preceduto già da Blixa Bargeld (ex chitarra, voce. Uscito dalla band nel 2003). Quindi toccherà prendere quest’album col giusto orecchio, preparato a ad ascoltare un Cave che va verso le origini con i Bad Seeds rimasti.
La formazione ufficialmente sarebbe di 12 componenti. Ma sottolineerei Warren Ellis viola, chitarre, in primis. I due  hanno collaborato, tra il 2005 e il 2009, a varie colonne sonore. Una sintesi a noi utile per capire quest’album potrebbe essere Nick Cave & Warren Ellis. Quindi un tentativo di ritorno alle origini musicali dove si sente la mancanza di alcuni componenti del gruppo e la centralità dei pezzi è lasciata alla sua voce, alle sue storie, alla sua malinconia e alla bravura di Ellis.  Una catarsi al rovescio dove si contano i cocci esistenziali.

Notizia dell’ultim’ora invece è quella che vede Barry Adamson primo bassista dei Bad Seeds (uscito dalla band nel 1986) unirsi alla band per il tour 2013 (in Italia l’11 luglio al Summer Lucca Festival).
Ascoltando i testi, accompagnati come ho detto dalla viola/violoncello di Ellis, Cave come suo solito ci porta in posti oscuri. Apre il suo armadio degli scheletri e inizia a vomitare su tutto quello in cui non è riuscito a credere nella sua vita. La traccia che da il titolo all’album è emblematica “Push th Sky Away” che canta sul ritornello. La disillusione dell’amore. Visto come rapporto destinato a finire. Oppure in “Higgs Boson Blues” dove ci narra i suoi dubbi sul razionalismo e come, conosciamo tutti il bosone di Higgs, esso si voglia sostituire a Dio. Un Dio che sta scomodo a Cave in “Jubilee Street” dove ci racconta tutta la brava gente che predica bene e razzola male. Il solito Cave malinconico, viscerale, tetro. Ma pure sempre Cave. Un gigante che in quest’album non ci presenta niente di nuovo ma ci porge il conto. E tocca ascoltarlo……………..

Read More

Eels – Wonderful, Glorious

Written by Recensioni

Dopo la scorpacciata dovuta alla trilogia che li ha impegnati nel 2009/10, Mister E, ovvero il pazzoide Mark Oliver Everett e i suoi sodali Eels, non se la sentono di essere ancora collegati a quell’urgenza iniziale in cui li abbiamo tutti conosciuti, non ci stanno a rimarcare quelle strutture – meglio sovrastrutture – che li lanciavano tra il teorema del delirio e i grandi puzzle dell’universo alt-tutto, ma decidono di occupare una macchina del tempo, la denominano “Wonderful, Glorious” e ne fanno un transfert accalorato verso gli anni Settanta dove, sulle righe alcaloidi di certi Fleetwood Mac e le ottiche sonanti di chi altrettanti stravizi pop-rock non li vuole dimenticare, continuano in una sorprendente presa  discografica con il ruolo primario di entusiasmare a rotta di collo.
Tredici direttrici che possono scuotere l’immaginazione per via del multistrato stilistico del quale la tracklist si permea e deborda, spazio dove la libertà creativa è più che idonea nel farsi complice di una conquista istantanea; disco di una scrittura fondamentale, scostata dalle precedenti produzioni, ma anche dove una parola e magari uno, due, o al massimo tre accordi, stabiliscono il punto giusto di fusione tra innamoramento e intimità immaginaria “Accident prone”, “On the ropes”, “The turnaround”, tanto a scomodare un qualcosa di più cui Everett non se lo farà dire mai due volte.
Dicevamo gli anni Settanta in cui gli Eels tornano a pescare prodigi e virtù instancabili, e se le chitarre e le tastiere di “pelle nera” disegnano giri funk in “Kinda fuzzy”, il rock-blues tinge nuvole distratte in “New alphabet”, l’atmosfera modificata di una robotica in luna di miele a Beverly HillsPeach blossom” o l’eccentricità Waitsiana in “Bombs away” oppure i Cream con la frangetta beatnik che fanno shake convulso dentro “Stick together” possono sembrare una manna dal cielo che solo gli Eels sanno concertare e impastare, con l’arrivo all’orecchio del beat edulcorato e molto “summer of  love” che la titletrack offre, le gradazioni della goduria intesa come sintonia perfetta con il registrato fibrillano a go-go.
Come sempre sono i primi nella loro disarmante sincerità, mai secondi nella docile psichedelica e ancora primi a ridisegnare le coordinate del rock e delle sue armonie; che dire, Eels la stupenda fantasia in cui non  sai mai cosa vai ad ascoltare!

Read More

Twiggy è Morta! – Credo Mi Citeranno Per Danni

Written by Recensioni

Prima di buttare totalmente testa e orecchie nelle nuove produzioni del nuovissimo anno duemilatredici, ho deciso di mettermi ancora a spulciare tra quanto è rimasto dell’anno vecchio, sperando di trovare qualche cosa che si faccia maledire per non essere spuntato fuori prima, fosse anche per colpa mia. Fidatevi, non è tempo perso. Solo ieri mi sono deciso, ad esempio, ad ascoltare seriamente l’omonimo esordio dei King Tears Bat Trip, band Avantgarde e Free Jazz di Seattle e cavolo, se l’avessi fatto prima… In realtà non sarebbe cambiato un cazzo. Forse avrei ascoltato solo un paio di dischi di merda in meno ma non è neanche detto e forse avrei inserito quell’album nella mia classifica di fine anno, cambiando radicalmente la vita di ogni essere umano. Avrete capito che, in realtà, l’unico motivo per cui si va alla ricerca di qualcosa di bello è semplicemente per udire qualcosa di bello (wow, che scoperta rivoluzionaria) e allora, come già detto, eccomi a rovistare tra le vecchie uscite sperando di essere colpito dal disco giusto.

Twiggy è Morta! Oddio chi era Twiggy? Quella modella inglese supermagra di qualche decennio fa, se non ricordo male. Deve essere proprio il suo, sulla copertina di Credo Mi Citeranno Per Danni, quel volto, tutto scarabocchiato, come vi capita di fare con la foto di Michele Cucuzza in prima pagina alla Settimana Enigmistica, quando seduti sul cesso, noia e stitichezza, avanzano tra le vostra budella.
Molto accattivante la cover. Ho scelto cosa ascoltare.
Sembrano fare le cose in grande questi romani, almeno all’apparenza. Hanno anche un manifesto:
“L’arte è citazione. L’artista copia, il genio ruba. Ridiamo l’arte agli artisti! Twiggy è Morta! Significa che l’arte è morta. La musica è morta, verso un decadimento apparentemente irreversibile. Twiggy è il simbolo, la musa, il feticcio utilizzato. Se prima nascevano i Modena City Ramblers, i Diaframma, i Verdena, gli Afterhours, Paolo Benvegnù o Moltheni, ora è il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente: musica da quattro soldi fatta di slogan in un periodo in cui nessuno ha più niente da comunicare. È tempo di ridare all’arte la sua collocazione.”
Direi che chiamarlo “manifesto” è un po’ eccessivo, però spiega bene il senso di quello che vogliono o forse vorrebbero fare. E poi, cazzo, hanno le palle di dire quello che sembra impossibile da far dire a qualunque artista, soprattutto emergente, del mondo Indie italiano. Lasciando stare il mio giudizio, hanno il coraggio di proferire parole come… ora è il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente: musica da quattro soldi fatta di slogan… Parole che mai, nel corso di un’intervista anche con veterani della scena, sono riuscito a cavare dai loro (dei musicisti) denti. Già solo per questo, Twiggy è Morta! mi fa simpatia. Mentre scorre il loro Ep, cerco di capire chi sia questa band. Come detto, si tratta di quattro ragazzi laziali, Paolo Amnesi (voce e chitarra), Andrea La Scala (chitarra), Valerio Cascone (basso) e Simone Macram (batteria) con già all’attivo un Ep autoprodotto e più di cinquanta esibizioni live e un bootleg, L’arte Marziale (lo trovate in download gratuito o anche su You Tube), tratto un loro live alla Festa De L’Unità. Come avrete capito, i Twiggies (pare che cosi si facciano chiamare) si sono dati un ruolo da supereroi nel mondo Indie, salvatori della musica contro il male rappresentato dalle canzonette nostrane. Assolutamente niente da dire. Anzi, magari ci fosse qualcuno a ridare linfa artistica alla nostra musica. L’unica cosa che mi viene da sostenere è: “Non è che state esagerando?”. Magari converrebbe prima scrivere, suonare, farsi sentire, costruire arte che non lo sia solo per chi la fa, ma anche per chi ascolta e poi, aspettare che qualcuno si renda conto, magari con qualche aiuto, che questa è Musica e non Lo Stato Sociale o I Cani. Non lo dico perché l’arroganza può essere antipatica ai più ma soprattutto perché si rischia di fare la figura dei coglioni.
Intanto che il primo album Le Parole Sono Un Muscolo Involontario, sempre per l’HitBit Records, sarà pronto, io continuo ad ascoltare questo Ep. Sentiamo che succede.
Succede che si parte con il Rock molto classico de “Il Parossismo Del Cuore”, brano che nella sua semplicità melodica e nelle sue esternazioni derivative è abbastanza apprezzabile anche se non proprio originale. Ma questa cosa dell’originalità, come avrete capito, non riguarda necessariamente l’arte o il genio, almeno a detta di tanti, tra cui i nostri Twiggies (vedi il manifesto). Se da un punto di vista musicale i possibili riferimenti sono tantissimi, sia italiani sia stranieri, in ambito vocale, si sfiora in maniera preoccupante non tanto la copia o il furto, ma la parodia involontaria di Giovanni Gulino (Marta Sui Tubi) e Pierpaolo Capovilla (Il Teatro Degli Orrori). Più distesa l’atmosfera di “Crepapelle”, che insegue, a differenza del brano precedente, linee soprattutto vocali più Pop, anche grazie ad armonie sonore languide e struggenti e un cantato a volte quasi solo sussurrato. Con “Legno”, la musica di Twiggy è Morta! sembra fare per un attimo un passo indietro, verso le sonorità del Rock alternativo anni ’90 stile Diaframma, fatto di riff puntuali e mai ridondanti. Il testo non si occupa più dell’amore ma guarda prima all’esterno, attraverso un pessimismo letterario che vi sfido a riconoscere e poi si fionda alla ricerca del genio presente dentro l’animo di ognuno di noi. L’ultimo brano, “A Bocca Aperta” è quello che più di tutti, specie nella sezione ritmica, richiama il sound delle nuove leve della No Wave, come Editors, Interpol, The National, ma anche dei Piano Magic ultimo periodo. Il testo invece sembra essere una specie di manifesto (anch’esso) di quello che significa Twiggy è Morta!, affrontando il tema della bulimia culturale e sociale in un metaforico parallelo con l’anoressia di una modella come Twiggy, appunto.

Nel complesso, quello che ho tra le orecchie è un buon Ep per una band in cerca del suo spazio che mostra ottime capacità esecutive ed anche una certa discreta voglia di essere diversi dalla massa, attraverso la riscoperta di una qualche forma di classicità Rock e soprattutto una scrittura lirica fortemente “arrogante” e concettualmente aggressiva. In realtà, preso come punto di riferimento quello che dovrebbe essere l’obiettivo della band palesato nel proprio manifesto, ci sono alcune cose che non vanno. Innanzitutto, in molti passaggi, non è chiaro quale sia il ruolo dell’ironia nelle loro esternazioni.  Inoltre, fermo restando e preso per buono il concetto che anche l’artista o il genio possono copiare o rubare, è anche vero che artista e genio, quando imitano, migliorano. Nel nostro caso, preso come punto di riferimento il Blues e il Rock Alternativo, la musica dei Twiggies, vi ruota attorno, schiantandosi di volta in volta contro Marlene Kuntz, Placebo, Afterhours, oltre ai già citati, senza mai riuscire, partendo dalla propria orbita, a seguire una strada diversa e comunque più efficace. In merito ai testi, certamente non possiamo negarne l’originalità e sicuramente, sotto questo punto di vista, la loro voglia di distinguersi dal gregge è ben rappresentata ma è anche vero che non ci sono molti spunti davvero poetici o affascinanti.
Credo Mi Citeranno Per Danni è quindi un Ep pieno di buona musica, stracolmo di buoni propositi ma anche una piccola delusione, visto l’obiettivo posto dai quattro laziali.
La speranza è che, con l’uscita del prossimo disco, alcuni limiti possano essere superati. Non vorrei minimamente che ridimensionassero la loro filosofia, anzi. Voglio solo che ce la mettano tutta per dimostrarci che la loro musica non è intrattenimento ma arte, voglio che ci facciano vedere che “se prima nascevano i Modena City Ramblers, i Diaframma, i Verdena, gli Afterhours, Paolo Benvegnù o Moltheni” ora non è solo il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente ma anche di band ancora capaci di creare opere d’arte. Magari band dal nome Twiggy è Morta!.
Una cosa importante che dovrebbero comprendere i Twiggies è che la musica ha la forza di essere arte, a volte intrattenimento o anche tutte e due le cose. L’errore è di chi scambia l’una per l’altro più che di chi fa l’una o l’altro, sempre che non spacci i suoi cazzeggi per opere di valore assoluto. Non è colpa de Lo Stato Sociale, se il loro fare canzoni per divertire e divertirsi è stato scambiato da qualche idiota per il futuro della musica italiana. Prendersela con loro sarebbe come prendersela con chi fa i meme, incolpandoli di distruggere il valore artistico del fumetto. Se cercate dei nemici, cercateli tra chi si annoia a vedere Lars Von Trier e si fionda al cinema per Boldi a Natale, tra chi legge Fabio Vola e ne decanta le capacità filosofiche al bar, tra chi ascolta I Cani convinto della loro genialità e sparla del ritorno di “quel vecchiaccio” di David Bowie. Loro sono il Male. La gente è il Male. L’ignoranza è il Male.

http://www.youtube.com/watch?v=9qUIOo02COw

Read More

Mia Wallace – Va Meglio

Written by Recensioni

Inizialmente Mia Wallace  sono:  Alessandra Annibali (voce e chitarra), Valentina Carta (chitarra) e  Micol Del Pozzo (basso). Con l’arrivo del nuovo batterista Pasquale  Montesano nel Novembre 2012 la band pubblica il primo disco  completamente autoprodotto VA MEGLIO.
Non è il primo lavoro in studio della  band attiva dal 2005 con alle spalle tanti concorsi ed un ep. Si  sente subito che il gruppo è navigato. Anche se il batterista è  carne fresca il sound del disco risulta compatto e potente. Otto  tracce originali più una rivisitazione di JUST CAN’T GET YOU OUT  OF MY HEAD di Kylie Minogue_con citazioni ai Black  Sabbath.
Lo stampo generale è quello dell’indie  rock statunitense. Non hanno perso l’anima punk che si sentiva nel  loro primo ep: SIX SHOOTER ad  esempio ha forti influenze grunge.
PUSSYCAT  ha sapore orientale: alternano sonorità psichedeliche ad un  ritornello pop. Il brano che forse spicca di più nel disco non a  caso è quello che da nome all’album. VA  MEGLIO raccoglie in se tutte le caratteristiche del progetto.
Fortunatamente  le influenze statunitensi non han traviato la band che sceglie di  cantare da sempre in italiano. Una potente voce femminile che  racconta situazioni e sensazioni in prima persona e senza troppi giri  di parole.
Nel  complesso però il disco risulta monotono. Prese singolarmente le  canzoni sono interessanti ma mettendo tutto insieme rischia di annoiare. Tanti elementi tornano a riproporsi: gli intro sincopati, un martellante basso distorto e le linee melodiche della voce spesso risultano ridondanti.
Vagando  sul tubo ho visto che la band si difende molto bene anche sul palco.  In live viene fuori anche meglio l’anima rock di Mia  Wallace.
Non  resta che andarle a vedere.

Read More

Black Flowers Cafè – Black Flowers Cafè Ep

Written by Recensioni

La musica è espressione di emozioni attraverso testi e melodia. Almeno per me.A volte complicate, a volte più semplici. C’è tutto dentro! Vita di strada, vissuta, libri, desideri, persone, gesti, droghe, alcool, sesso, odio, amore e tutto quello che ci fa drizzar la pelle e salire il sangue.
 
Perché questo stupido preambolo?! Perché avrei dovuto scrivere roba del genere?! Ovviamnte la risposta è semplice. Perché i Black Flowers Cafè mi incuriosiscono! Si presentano così,leggete cosa scrivono di loro: l’album racchiude, nello spazio di nove pezzi, quello che è un ideale viaggio immaginario, che parte dalla base missilistica di Baykonur, trampolino di lancio di quelle che erano le operazioni spazialisovietiche, per arrivare fino alla lucentezza astrale di Vega.”
Capisco che dalla base missilistica di Baykonur fu lanciato, per la prima volta nella storia, un uomo,Yuri Gagarin che fu anche il primo dei russi impiegato in una missione spaziale a tornare vivo. Grande risultato per quei tempi. E che Vega sia una delle stelle più brillanti e riferimento per i viaggiatori spaziali. Aaa sono la prima e l’ultima traccia!!!  Ok, allora prendo posizione e allaccio le cinture, meglio iniziare il viaggio, che più che immaginariosembra più un viaggio intergalattico. Un viaggio stellare visto che i nomi delle tracce, fatta eccezione per la prima, sono tutti nomi di stelle.
Inizio l’ascolto, prima traccia Baykonour, sul fondo uno speaker che annuncia il lancio di un missile e il basso che attacca e mi chiedo: chi cazzo sono questi Black Flowers Café?! Intanto la chitarra con un arpeggio incalza il synth creando un’atmosfera che più che ad un lancio da l’idea di un viaggio senza una meta precisa con lente progressioni che stentano a partire. Infatti non partono e attacca con grinta la seconda traccia Ophir Chasma.Si susseguono così, una dopo l’altra, le tracce di questo EP, con alti e bassi, un lavoro curato nei particolari con animo. Un album che scorre e ti ingabbia. Un viaggio scusate. Niente di troppo sperimentale, tutto perimetrato con cura a sonorità di questo millennioe ritmiche da missione spaziale. Ehehe. In certi pezzi nel modo in cui cantano e attaccano sento un proselito a Thom Yorke dei Radiohead. E’ un album ben fatto. Ogni pezzo è un passaggio, un passaggio del viaggio. Anche se qualche arpeggio a volte mi ha lasciato un po’ deluso. Ora sono curioso di vederli dal vivo, se capitano qui a Roma. Grazie del viaggio ragazzi!!!

Read More

My Speaking Shoes – Holy Stuff

Written by Recensioni

Ho sempre avuto un rapporto molto difficile con le voci femminili, soprattutto nel rock.

Escluse leggende del passato come Patti Smith e Janis Joplin, non sono mai riuscito a fare mia la rabbia di una seppur potentissima ugola rosa, anzi a volte la vedo come una minaccia dall’esterno. Forse provo semplicemente timore alle strilla di una fanciulla incarognita, impersonando in lei una mia pseudo-fidanzata che mi scaraventa addosso un set di piatti in ceramica per aver dimenticato la festa di compleanno del suo adorato chiwawa obeso in cambio di una serata con la mia cumpa ad un alcolico cineforum sui polizziotteschi di Tomas Milian.
Così quando approccio i My Speaking Shoes, parto molto spaventato dallo sguardo inquieto disegnato in copertina della vocalist Camilla e mi aspetto già la sua strillante gola franarmi rovinosamente addosso. E in effetti, così è.

Ma a parte le mie tare da psiconanalisi, il risultato (mi) fa paura. Già dal primo impatto è una bomba. Ma non una bomba a orologeria, di quelle che devi aspettare un bel po’ prima dell’esplosione. “Holy Stuff”, disco d’esordio dei ragazzi di Sassuolo, è una bomba atomica: appena tocca il suolo è devasto puro. Tutto e subito. Rock aggressivo e femmineo, leonessa che va a caccia per la sopravvivenza.
La band suona alla grande già dalle iniziali “Mushroom Head” e “Flies”, dove si intravedono dallo spioncino di una porta insonorizzata le innumerevoli ore di rabbia e repressione sfogata in sala prove. E avevo ragione, c’è da avere paura, la voce di Camilla (pronuncia a parte) tiene testa ad Anouk e alla tedescona Sandra Nasic (Guano Apes). Donna con le palle insomma. Di quelle che se la fai incazzare ti tira dietro pure il set di coltelli, altro che piatti in ceramica.
Il disco è registrato alla grandissima: basso che pompa ovunque come nella migliore tradizione alternative-rock americana, chitarre arricchite da suoni mai banali (non il solito “gh-gh” dei nu-metallusi californiani), batteria che corre veloce come la gazzella che prova a scappare dalla furia della leonessa. Produzione splendida, con una band che sa essere sufficientemente pop e allo stesso tempo sa jammare fregandosene degli schemi imposti dalle canzoni per Twilight.

Sfido chiunque approcci alla band a non trovare una somiglianza con le varie band per ragazzini cicciottelli lobotomizzati da MTV. Dai l’abbiamo notato tutti appena vista una loro foto. Non me ne vogliate cari My Speaking Shoes ma a mio avviso siete un po’ i Paramore “de noantri” (e non c’è niente di male dai!), e la conferma arriva nella geniale (il testo soprattutto) “L.O.V.E. Song”, squarcio più rilassato in un panorama frenetico, nervoso e ossessivo.
Un (altro) difetto? Troppi brani, troppa monotonia nelle corde vocali e nelle melodie. Troppa carne al fuoco insomma per un genere già molto monocromatico in cui reputo veramente difficile suonare coloriti. I ragazzi in ogni caso, propongono una formula solida ma ancora un po’ statica, che non spicca in fantasia.
Però non facciamo i pignoli, “Holy Stuff” è un gran bel prodotto ma per far entrare la loro quota rosa nelle “sacre scritture” i ragazzi di Sassuolo devono ancora predicare molto il rabbioso verbo.

Read More

May Day – Eppì

Written by Recensioni

“Uomini, adesso, non derideteci,ma pregate Dio che tutti noi assolva.” Voglio dirvelo subito, senza falsità. Cosi non ci siamo. Avete messo tutto (domanda?) in questo Ep e il risultato è poco più di niente. Il sound è derivativo (passatemi il termine indiesnob) fino all’eccesso e questo potrà certo piacere a tanti. Ma vi chiedo. È questo che volete dalla musica? Piacere a masse informi di ragazzini che della musica hanno un’idea ristretta a jingle pubblicitari e MTV o, nella migliore delle ipotesi, ai dischi del fratello più grande? Passiamo l’orrida (per un disco del genere) copertina, passiamo il Cd masterizzato (fisicamente intendo) come la copia di un disco fatta da un vostro amico e passiamo anche il facile titolo da simpaticoni che chiamano l’Ep, “Eppì”. Ma cosa sono veramente questi May Day? Oggettivamente parliamo di tre ragazzi nati a (non lo dico perché loro dicono porti sfiga) nel 2002. Dieci anni dopo sono ancora gli stessi che suonano il più classico Alternative Rock in lingua italiana.

In una decade hanno prodotto due dischi, l’omonimo del 2003 e “Come Ieri” datato 2005 e hanno all’attivo due partecipazioni a compilation firmate Sana Records e Indie Box Records. Sul lato live si sono dati abbastanza da fare, condividendo il palco con Linea 77, Punkreas, Meganoidi, Bambole di Pezza, The S.T.P., L’ Invasione degli Omini Verdi, Medusa, Ln Ripley. Riescono anche a vincere il primo Biella Music Contest e partecipano alle fasi finali di Arezzo Wave e Transilvania Live.  Ultimo riconoscimento la vittoria dell’Open Mic Summer Tour Contest 2011. Ma chi sono veramente questi May Day? Decidono di condividere l’Ep in download gratuito per potersi mettere in gioco soprattutto nell’aspetto live. Non vogliono necessariamente lucrare (né ovviamente fare i coglioni a loro spese, immagino) sulle spalle della musica. Sono onesti fino all’osso. E soprattutto sono bravi. Quindi, perché non vi sfogate quanto create? Suppongo non sia una questione di limitazione artistica. Forse è il timore di osare. Ma perché non vi lasciate andare? Che siano le grandi band soggiogate dalle case discografiche a uniformarsi a un certo tipo di suono. Voi, indipendenti e liberi fino al midollo, dovete regalarci qualcosa di più. Se ne siete capaci (io dico sì ed è questo il motivo del voto forse troppo duro rispetto alle mie parole. Odio vedere il talento sprecato).

I riff che ci scheggiano la pelle per i brevi minuti che ci accompagnano nell’ascolto dei cinque brani sono eccellenti in un certo senso prettamente estetico, ricercati quanto basta e orecchiabili ma devono sempre qualcosa a qualcuno, sia insospettabile (il riff del primo brano “Supermario” non vi ricorda niente?) sia troppo scontato (The Strokes, Placebo, tanto per fare qualche nome). Stesso discorso per la batteria che ricalca alla perfezione l’Alternative più vicino allo Stoner Rock. Tutto quello che sembra uscire dalle casse è un ovvio misto di Indie, Pop e Rock. La voce (che ricorda quella di Federico Dragogna) è discreta, molto migliorabile a dire il vero, soprattutto in fase di registrazione e i testi, come spesso accade nel mondo Indie, non rappresentano certo il punto forte di “Eppì”. I motivi sono nel complesso abbastanza immediati e facili, come di una band che cerchi il più ampio consenso. Ma a mio avviso i May Day non sono questi. Lo voglio credere. I primi venti secondi (non è l’unico momento, ovviamente) di “Vecchio” mi parlano di una band che ci sa fare e non di una band che vuole vendere. L’energia che schizza in alcune poderose virate Alternative Rock è quella di chi non vuole sfondare, ma vi vuole sfondare il culo. La strada devono sceglierla loro. Gabriele Serafini (chitarra e voce), Francesco Petrosino (Basso e voce) e Patrick Seguini (batteria) hanno in mano il loro futuro. Piacere a chi di musica capisce poco col rischio poi di non piacere a nessuno e diventare un’altra delle tante band che spariscono dall’Italia ogni anno. Oppure darsi da fare e mettere in musica tutta la loro anima creativa.

Read More

Too much distress – Outlet valve

Written by Recensioni

Non è assolutamente un disco che si decifra al primo ascolto: forse per  la mancanza del basso, forse la peculiarità di canzoni spesso troppo brevi (la metà dei brani non supera i 2:30) e i testi  semplici, potrebbero far credere ad un disco banale. Invece i testi semplici risultano anche essenziali, senza fronzoli, e il basso è ben sostituito da virtuosismi impercettibili, come l’uso di quella blue note che fornisce il ritmo, tempo e completezza all’intero album.  Queste caratteristiche rendono Outlet Valve dei Too much distress un disco leggero  e alla lunga assolutamente piacevole, come un diesel che ci mette un po’ a carburare ma una volta ingranata la quinta ha sicuramente un lungo rettilineo da percorrere.

Vario nella sua struttura, ascoltiamo in alternanza brani strumentali (Outlet valve su tutte, dove il suo inizio arpeggiato mi ricorda le sonorità dei Metallica) ) e testi interessanti. Primo singolo è Drunked blind, italianizzazione di blind drunk che significa ubriaco fradicio, che già dal titolo rende l’idea di quanto siano diretti i testi.
Questa “troppa angoscia” che caratterizza il nome della band, non mi pare condizioni questo progetto di Stefano Serra (batteria) e Fabio Orrù (chitarra/voce) che appare invece già maturo da un punto di vista di complicità musicale  e ancora un po’ acerbo nelle sonorità; Il suono grezzo, poco pulito, colloca il cd sugli scaffali dell’alternative rock italiano  genere con cui i Too much distress rappresentano la Sardegna in modo più che dignitoso.

Curiosità: prima di essere i Too much distress, Serra e Orrù suonavano già insieme nei Coleman prima, Second self e Shell to tell poi , con una formazione più ampia. Nel 2010 diventano ufficialmente TmD attestandosi come duo e iniziando a lavorare per Outlet valve, in uscita a febbraio 2012.

Read More

Miriam Mellerin – Miriam Mellerin

Written by Recensioni

Sabato mattina di una pessima settimana passata in compagnia di un tipo in accappatoio che chiamano Drugo che gironzola nella mia testa raccattando cartoni di latte semi vuoti e pezzi di vetro. Il mio corpo rintanato in una casa vuota accarezza una tarantola che ringhia ai miei demoni che picchiettano dietro la finestra del secondo piano del palazzo. Come una bestia osservo i poliziotti che picchiano un barbone che mi somiglia addormentato a terra ubriaco. Tutta questa gente che dorme all’aria aperta non rende la cosa invidiabile. L’attesa del nulla non m’innervosisce. Ascolto i Miriam Mellerin. Nessun problema.

Le case esplodono una dietro l’altra intorno a me, nascondendo il rumore del vento e degli aerei che ci bombardano sotto il sole freddo. Le casse bruciano lacrime di rabbia. La stanza è colma e sazia di energia. La sento stillare dalle pareti nere. Tutto sta per esplodere. Ascolto i Miriam Mellerin. Nessun problema.

Sette candelotti di dinamite infilati nel culo dell’anima.

L’omonimo debut di Diego Ruschena (voce, basso), Daniele Serani (chitarre) e Andrea Ghelli (sostituito a fine 2011 da Pietro Borsò, batteria) propone una formula che pochi altri in Italia ci hanno proposto in maniera credibile soprattutto con l’uso della nostra lingua. I pisani caricano il Post Punk e il Post Rock di puro energico Noise rischiando, a tratti, che tutto esploda tra le loro mani.

L’album inizia con “Parte Di Me”, episodio tanto intimo, soprattutto nella parte vocale, quanto demoniaco in quella strumentale. Alla voce di Diego si aggiungono subito quella di Lady Casanova (The Casanovas) e il clarinetto di Edoardo Magoni, tanto che il pezzo è quasi spaccato in due in verticale da una linea retta che divide l’empatia della vocalità dei due dalla pesantezza del sound a tratti echeggiante il Black Metal meno potente e più teatrale.

“Made in Italy” rappresenta il dito puntato contro il sistema Italia, il suo campanilismo, la sua pseudo libertà, la sua incapacità di reazione. Il basso è il reale padrone del pezzo. La linea guida che ci accompagna fino alla chiusura. Il resto è a tratti cacofonico senza volontà, soprattutto il coro che incita alla fuga, piazzato in alcuni punti del brano in maniera assolutamente inopportuna. Pensate al minuto uno e quindici secondi in cui il giro di basso che anticipa il coro e le sue parole “Scappa”, creano un suono che puzza di sbagliato alle nostre orecchie. Cosi le note psichedeliche della chitarra al minuto uno e cinquanta che finiscono per impoverire il pezzo invece che arricchirlo.

In “Insetti” torna la voce di Lady Casanova a supportare Diego che stavolta invece di recitare corre come un ossesso. I Miriam Mellerin riescono finalmente ad alzare quel muro sonoro che stavamo aspettando. Non siamo però ancora davanti a qualcosa di maestoso. Sembra sempre mancare qualcosa.

Con “Trust” un altro mattone si aggiunge a quel muro. L’inglese sostituisce l’italiano e il sound si fa pulito ricalcando il più classico Alternative Rock e Post Grunge degli anni novanta.

“Ostrakon” inizia in perfetto stile Spoken Words con una melodia estremamente semplice e ripetitiva. La rabbia, la potenza espressiva è tutta affidata alle parole e le urla di Diego ma alla fine il risultato è un pezzo troppo banale per essere vero con cambi di ritmo (degni di essere considerati tali), praticamente assenti. L’ovvia ingenuità di ragazzi per lo più ventenni si palesa in questo brano in maniera netta.

“B.H.O.O.Q.” anch’essa cantata in inglese rappresenta l’apice della creatività dei Miriam Mellerin. Finalmente un brano eccelso che racchiude tutte le qualità proprie dell’album e plasma quelli che ne sono i punti deboli trasformandoli in qualcosa di apprezzabile. Il brano esplode immediatamente, scaricando rabbia e potenza nella nostra testa senza riguardo alcuno. La chitarra di Daniele stride sperimentando improvvisazioni rumoristiche eccezionali. Al minuto uno e venti circa senza preavviso alcuno si vola. Diego canta poche parole in spagnolo ed entra in scena la tromba di Marco Calaprina che sembra echeggiare come il ricordo di un incubo prima di impazzire totalmente in chiusura di brano.

Siamo in fondo. “Stilnovo” prende in prestito le parole di Cecco Angiolieri e pur essendo il brano di buona fattura crea un certo imbarazzo nell’ascolto dovuto al palese tentativo di intellettualizzare la musica nel modo più semplice possibile.

In teoria l’album è alla fine. Aspettate qualche minuto, però, prima di riporlo nella sua custodia. C’è un fantasma che vi aspetta. Rock strumentale nudo e crudo, grezzo e graffiante. L’ultimo morso letale della tarantola Miriam Mellerin.

Tante cose da migliorare. Tanta carica ed energia da incanalare, affinché non si disperda inutilmente. Tanto potenziale. Potenza e teatralità, passione, testa, cuore e sangue.  I tre hanno tutto quello che serve per diventare grandi.  L’importante in un disco è che ti ponga nella condizione di voler continuare ad amare la musica. Ci siamo. Ora serve di più.

P.s. Io lo prenderei un secondo chitarrista. Voi no?

Read More