alternative rock Tag Archive

Preti Pedofili – L’Age D’Or

Written by Recensioni

Cosa pensereste se entrando nel website di una band vi trovereste di fronte questa frase? “L’uomo è il sacerdote del caos, la pedofilia è la sua volontà di potenza sulla natura infante, la vita è la celebrazione di tale miseria. I preti pedofili danno messa ogni giorno.” Spero che la risposta sia: “E questi pazzi da dove escono? Mo me li vado ad ascoltare per vedere quanto sono blasfemi!” e blasfemi lo sono, a partire dal nome che hanno scelto per presentarsi: loro sono i Preti Pedofili e suonano con tanto di tunica sacerdotale e colletto bianco. Insomma promettono bene anche senza ascoltarli direi. Ora, dopo Golem, Faust e lo Split con i Nastenka Aspetta un Altro, ci presentano L’Age D’Or, il primo vero full-lenght composto da dieci tracce liberamente ispirate al cortometraggio surrealista Un Chien Andalou (1929) di Luis Buñuel e Salvador Dalì. Il punto centrale di tutto l’album non è quindi quello di spiegare o trovare una logica nel degrado e nella solitudine che caratterizza l’odierna società occiedentale, ma di fotografare e creare suggestione attraverso “Il Male” intrinseco della società stessa: ingiusta ed atroce.

Quindi iniziamo subito con un tocco di Country sintetizzato in “Iride”, un brano che si conclude con un lungo sermone sulla sensibilità della vita e sull’importanza della libertà individuale, poi c’é “Mavis” con il suo materialismo alienante e chitarre ripetitive a farla da padrone, a seguire c’è “Self Made Man”, una traccia gridata, parlata, effettata ed accompagnata da un beat complesso e mai ripetitivo, poi è la volta di “Cancro”, brano che si sviluppa da un intro di batteria per poi sfociare in grida, distorsioni ed un racconto malvagio, concludendosi infine con un rumore industriale. Dalla quarta traccia in poi si cambia registro: si entra in un mondo più melodico e Rock (che mantiene comunque la sua particolarità blasfema attraverso un cantato simile ai cori cristiani) in “Dies Irae”, si aggiunge invece una voce diabolica che si esprime in mezzo a una batteria sincopata, stralci di calma melodica, synth disturbanti e chitarre distorte o con delay in “C’est Femme l’Autre Nom de Dieu” e “Vio-lento”, mentre segue un suono più elettronico in “Begotten” ed una drum-machine in “Primo Sangue”. L’ultima traccia, “Hate”, si serve di sonorità più lente rispetto a tutti gli altri brani, concludendo dunque con un’ottima scelta sonora che descrive quell’odio profondo che pian piano si sviluppa dentro un essere umano prendendone infine il completo possesso.

Il suono dei Preti Pedofili è come un palazzo a quattro piani: il pianterreno sono i testi (importanti ed essenziali per la struttura), il primo piano è la batteria (strutturata, piena di variazioni, e complessa come la vita che si sviluppa dentro ogni appartamento), il secondo piano è il basso (dritto come un corridoio), ed infine l’ultimo piano è la chitarra (effettata e spesso eterea come il vento, la pioggia, la luce e l’ombra che penetrano da una finestra).

Read More

Il Giunto di Cardano – La Storia è Sempre Questa

Written by Recensioni

E rieccoci a parlare de Il Giunto di Cardano, giovane band pugliese formata da Giuseppe Colangelo (chitarra e voce), Andrea La Gatta (chitarra), Mariano Cericola (basso) e  Davide Tappi (batteria), che prende il nome da un organo che trasferisce energia cinetica da un motore ad altri elementi e che suona con l’intento di fondere sonorità British alla scena musicale italiana, strizzando anche l’occhio all’ Indie Rock e alla musica underground indipendente. Tutte cose che sappiamo già soprattutto perché questa band l’abbiamo conosciuta a fine 2012 con l’uscita della loro prima demo.

La recensione finiva così: <<Timbro vocale e testi che non fanno impazzire, ma che comunque se curati nel tempo daranno i propri frutti. Quindi il consiglio è quello di non bruciare le tappe, di pensare a qualche ballata, di diversificare l’andamento dei pezzi, di ragionare bene sulla struttura del disco (e non canzone per canzone) e di trovare prima il “voi” e il vostro significato musicale, per poi portarlo sui palchi con maggior forza e consapevolezza>>. Quindi a rigor di calcolo il consiglio di non bruciare le tappe non è stato seguito con l’uscita del loro primo Ep, La Storia è Sempre Questa. Ep che inizia con “Nessun Problema” primo brano che da subito fa capire che il sound non è cambiato, quindi molto Rock e orecchiabilità. Abbastanza interessante è “Stai Bene Come Sei” con il suo solo di chitarra molto classico, unico tratto singolare rispetto alla vocalità sempre sguaiata e ai testi ripetitivi. Si prosegue con “Giorno Perfetto”, il suo intro di batteria e il testo verso un tu immaginario, e “Limite” brano più importante dell’Ep da cui deriva il titolo. “Anestesia” invece è l’ultimo pezzo che chiude il lavoro.

Un lavoro paragonabile alla prima demo. Un lavoro che non entusiasma, che può essere etichettato nel classico Rock che ormai però può apparire noioso. Un lavoro comunque chiaro nelle intenzioni ritmiche e strumentali, dal buon sound ma con un cantato sguaiato, urlato, con delle finali che sembrano vortici e delle vocali che certe volte si perdono nel buio. Un Ep dalla buona base tecnica ma che non basta per andare più in alto. Ci vorrebbe inventiva, sperimentazione, emozione, significati più profondi, audacia nel non nascondersi nel proprio cantuccio sicuro e soprattutto tempo, mesi, se è necessario anni e anni per creare qualcosa che vada oltre. Oltre quella marmaglia insignificante che suona solo per farsi vedere. Oltre quel tu generico dove non ci si riesce ad immedesimare. Oltre quei particolari che nessuno si sciroppa ma che in realtà sono il segreto di tutto. Quindi il consiglio, che nessuno calcolerà ma che scrivo lo stesso, è quello di non buttare nel dimenticatoio i brani già composti, di correggerli, assemblarli in maniere differenti, di provare, sperimentare e di non uscire tra un anno con un album del tutto uguale ai lavori precedenti. Amen.

Read More

The Spezials – Crazy Gravity

Written by Recensioni

Ascolto: in riva al mare. Luogo: Barcellona, spiaggia dei nudisti adiacente  hotel Vela. Umore: vacanziero e tendente alla traversata alcolica della giornata in solitaria.

Dopo aver messo su il disco dei The Spezials il mio primo pensiero e’stato: “ci vorrebbe un’organizzazione che impedisca alle band di ogni latitudine di applicare il flanger sulla voce (nell’intenzione dovrebbe far percepire la voce come se cantasse in una bottiglia e molto più spesso invece la fa arrivare dal mezzo delle tette di una cicciona nera di Harlem al fastfood  dopo la messa della domenica). Ci vorrebbe qualcuno che in giacca e cravatta bussasse alla porta del cantante e lo prendesse a scappellotti sulla nuca urlandogli: “non si fa più”. Flanger e scherzi a parte questo Crazy Gravity e’ un disco davvero godibile, The Spezials sono un trio che nulla ha da invidiare alle band di cui si intravede la scia creativa: Artic Monkeys su tutti. Pezzi tutti molto centrati, sezione ritmica davvero in palla e suono molto ben strutturato. La voce e le tracce di chitarra di Giovanni Toscani hanno nelle corde il pontile sul mare di Brighton, le nebbie dei sobborghi di Manchester e una  dose di rabbia in cravatta, un’ostentazione di precisione estetica quasi Mod, pure qualche eco Ska alla Madness. Pochi appunti alla produzione:  una certa tendenza, secondo me veniale, a suoni di chitarra che portino l’orecchio più negli  Stati Uniti che in Inghilterra e un limite, questo un po’ più grave, nel non lasciare un tema memorabile (forse solo “Two Girls”) alla fine del disco. Mille buone idee musicali. Ogni pezzo ha spunti a sufficienza per tre, troppo per una band che dichiara  la sua vocazione Dance Rock. Peccato, perché le buone premesse ci sono tutte. I The Spezials non devono far capire ad ogni costo e in ogni singolo pezzo quanto siano bravi , la distanza per dimostrare l’ arte si misura in decenni, non in minuti.

I secondi dischi, comunque, esistono per questo.

Read More

Umberto Maria Giardini – Ognuno di Noi è un po’ Anticristo

Written by Recensioni

Sono naufragata milioni di volte nel mare delle mie inquietudini, e Dio solo sa quante altre tempeste emotive dovrò superare. Ma c’è un modo per far tornare la quiete, là dove per troppo tempo tuoni e fulmini hanno avuto la meglio, e questo modo è spalancare i cancelli dell’anima e dare libero ingresso alla musica. Paradossalmente, però, non tutta riesce a passarci attraverso. Può farlo solo quella fluida come l’acqua, che scivola all’interno di percorsi della mente sconosciuti, capace di scovare i sentimenti più nascosti. Parlo, ad esempio, della musica contenuta in Ognuno di Noi è un po’ Anticristo, il nuovo EP di Umberto Maria Giardini, uscito il 20 settembre 2013.

Non è un disco dall’ingresso trionfale, odia i clamori. È un amico che conosci da sempre e sa come fare a raggiungerti. Parte sicuro, ma a passi lievi, e ti viene incontro con una sezione ritmica leggera accompagnata da una voce melliflua. Subito dopo, il suo incedere lento affretta il passo e si trasforma in corsa per entrare dritto dove vuole entrare (“Fortuna Ora”). E ce la fa. Bene, amico di cui sopra, ormai hai sfondato tutte le recinzioni, cos’altro dire? Prego, accomodati. E lui si accomoda e ti parla; con fare psichedelico e ossessivo (“Oh Gioventù”), e senza proferire parola, ti fa capire che sa tutto di te, delle tue inquietudini, delle dei tuoi scazzi, delle tue incertezze, delle tue solitudini. All’improvviso ti senti nudo, spiazzato, e pensi che da un momento all’altro se ne andrà via, schifato per tutto ciò che ha visto. Ma lui non lo fa. La musica non tradisce. Comincia invece a sussurrarti all’orecchio parole come il tempo è come noi, prende tempo e non perdona (“Regina Della Notte”).

Ed allora capisci nell’inganno in cui sei caduto, è tempo perso il loop in cui sei capitato. Pochi secondi con il fiato sospeso, e poi l’esplosione in un finale deciso, un misto di gioia per esserti ritrovato, e tristezza per esserci cascato ancora. Il resto è solo una parola: “Omega”. E’ ora di farla finita. La melodiosa bellezza della voce ed un sottofondo psichedelico carico d’inquietudine convogliano in un unico, solo finale Progressive. Non è da tutti fare certi viaggi all’interno di sé stessi; ci vuole coraggio, ma conto di averne a vagoni stracolmi al binario della tua città (“Tutto è Anticristo”). Non c’è da vergognarsi per quello che ne viene fuori quando ci si guarda dentro. C’è del bello e del brutto in ognuno di noi. In fondo, Ognuno di Noi è un po’ Anticristo.

Read More

Il Santo Niente – Mare Tranquillitatis

Written by Recensioni

Conobbi Il Santo Niente tanti anni fa, non ricordo bene il giorno, né l’anno ma ricordo bene il luogo. Ero nella stanza della sorella più grande di un mio vecchio compagno di scuola. Avete presente quelle situazioni molto anni novanta, camerette piene di poster e musicassette e musica che scivola lungo i bordi delle pareti? Ricordo benissimo quel giorno in cui ascoltai per la prima volta la voce di Umberto Palazzo, ben prima di conoscere i Massimo Volume che molti vedono come una delle due metà del progetto iniziato dallo stesso Palazzo ma che in realtà rappresenta una linea parallela alla vita artistica de Il Santo Niente. Ricordo esattamente le emozioni che m’ispirò ascoltare le note di quei brani. “Junkie”, “È Aria”, “’sei na ru mo’no wa nai ‘i”, “Angelo Nero” e sul lato A della tape casalinga le tracce dell’opera prima, “Cuore di Puttana (Hardcore)”, “La Vita è Facile” e poi la coppia di cui m’innamorai subito, “Il Pappone” e “L’Aborigeno”. Ricordo con un brivido sulla mia pelle le sensazioni che provai nell’origliare quei brani, portare a casa quella musicassetta, inserirla nel mio mini sound system e iniziare la copia che gelosamente custodisco come un inutile ricordo sbiadito; copia che avrei poi perfezionato inserendo con cura, a mano, a uno a uno i titoli di La Vita è Facile e ‘sei na ru mo’no wa na ‘i. Da quella circostanza iniziò un rinnovamento estremista nel mio modo di discernere e scoperchiare la musica. Non più solo rifrazione dei miei amici infossati nel Punk e non più banale conseguenza di qualche fugace ascolto radiotelevisivo. C’era tutto un mondo in fermento sotto l’asfalto; una realtà underground pronta a esplodere nel suo silenzio, nella sua disperazione. Sono trascorsi ben oltre quindici anni da quel giorno e troppi dall’ultimo album targato Santo Niente, Il Fiore Dell’Agave ed è ovvio che, cosi come ho atteso con trepidazione l’uscita del primo lavoro solista di Umberto Palazzo e seguito il progetto El Santo Nada (viste le ovvie distanze, più per curiosità che per altro, considerando poi che io sono un tipo che lega più con i brani che con i compositori/esecutori), con maggiore partecipazione ho assistito alla genesi lenta di questa quarta fatica della band, Mare Tranquillitatis. L’ho ascoltata ormai una decina di volte in pochi giorni e la prima cosa che mi ha trafitto è che qualcuno tra noi deve essere cambiato perché, nello strato più abissale della mia pelle, c’è una linfa che non sembra scolare e non pare vibrare allo stesso modo di tanti anni fa. Ovviamente non sono io lo stesso; ho il doppio degli anni, diverse idee per la testa, un modo differente di scorgere il mondo, qualche pensiero pratico in più e alcuni falsi problemi in meno, qualche birra di troppo sulle spalle e parecchi acciacchi ma allo stesso modo non sono gli stessi quelli che sento nelle casse. Tutto ciò, per fortuna, aggiungo.

Chiunque non abbia ancora ascoltato l’album ma si sia imbattuto volente o nolente nel singolo “Le Ragazze Italiane” non si lasci trarre in inganno da questo pezzo cosi dinamico (anche se molto vicino al classico sound della band), ossessivo e dal testo e dalla melodia un po’ “paraculo”; sia che sia piaciuto che in caso contrario. È quanto di più estraneo si possa trovare nei quaranta minuti di musica di cui è composto Mare Tranquillitatis. È evidente una certa presa di posizione, di distanza, dalla rabbia Garage degli esordi, anche se le sfuriate introspettive Post Hardcore stile Jesus Lizard (“Cristo Nel Cemento”) tengono ancorata la band a quelle che sono le loro radici anni 90. Stessa cosa, sia a livello testuale sia musicale, per quanto riguarda la forma canzone classica che è quasi interamente lasciata alle spalle nel tentativo di sviluppare una strada più predisposta all’Art Rock che tendenzialmente si risolve in Spoken Word impreziositi da chitarre distorte, tutto molto in stile Massimo Volume, per chi ha apprezzato la formula solo da questi “cugini” artistici bolognesi, ma che in realtà era stata già impiegata, anche se con ovvie varianti narrative e musicali, da Palazzo e compagni.

Soprattutto le strutture ritmiche riprendono in un certo modo quella che è la corrente più importante del Rock sperimentale teutonico, il Krautrock di Neu! specialmente ma anche di Faust e Can, sviluppandone le esasperazioni in una formula moderna e più vicina ai gusti del pubblico post Y2K bug e mantenendo la parte avanguardistica a livelli accettabili, in contrapposizioni ad alcune follie pure (vedi The Faust Tapes ad esempio) dei padri fondatori. Una delle immagini più avvincenti del disco è la parte testuale che mette in secondo piano l’elemento autobiografico e si concentra piuttosto su una sorta di analisi sociologica dell’universo che circonda l’uomo che sta dietro alle canzoni. Esempio è proprio il singolo “Le Ragazze Italiane” che riassume in pochi versi tutto quello che significa essere giovani, donne, oggi, in certi ambienti tra cui, immagino, quelli della vita notturna pescarese, acquario in cui s’immergono costantemente gli autori. Non uno spaccato generalista di ciò che può significare essere una sbarazzina ragazza oggi in Italia e nessun subdolo sistema per giudicare tutta una generazione. Nessuna accusa ma solo un atto d’amore nei confronti di alcune donne che hanno nuotato nello stesso acquario di Palazzo e d’odio verso certi atteggiamenti puritani di chi non ama mai bagnarsi. Se nel singolo l’elemento testuale si materializza efficacemente in tutta la sua franchezza, molto più soffuse sono le luci che circondano gli altri brani. Si passa da pezzi ispirati dalla letteratura o dalla storia (“Cristo Nel Cemento” è un brano suggerito dall’omonimo romanzo di Pietro Di Donato, figlio di un muratore abruzzese emigrato in America mentre “Sabato Simon Rodia” è un emigrante in America, creatore delle Watts Towers di Los Angeles) a brani che narrano (quasi letteralmente, visto lo stile usato nei pezzi) storie di violenza, droga, adolescenza e delinquenza (“Un Certo Tipo di Problema”, “Primo Sangue”) e disagio (“Maria Callas”, nome di un anziano travestito).

Come detto, la musica di Mare Tranquillitatis è una sorta di esperimento che vuole unire elementi propri della tradizione Alt Rock italiana (che va dagli stessi Il Santo Niente fino ai Massimo Volume ma anche ai Csi, rievocati in alcuni passaggi di chitarra di “Un Certo Tipo di Problema” ad esempio) al Post Hardcore dei Jesus Lizard ma anche molto “albiniano” (“Cristo Nel Cemento”); congiungere il Rock aggressivo, banalmente e volutamente diretto tanto da essere subnormale in perfetto stile Stooges (“Le Ragazze Italiane”) alle eccezionali e perfette deformità del Krautrock anni 70; fondere l’Elettronica e le sue ritmiche “danzereccie” (“Primo Sangue”) alle cacofonie soniche estreme (“Sabato Simon Rodia”) passando per cenni di psichedelia. Umberto Palazzo prova a utilizzare come legante di questa indagine sonora il sax di Sergio Pomante (eccezionale la sua opera prima con gli String Theory, mio disco italiano dell’anno nel 2012) ma restano alcuni dubbi sull’opera. Assolutamente da apprezzare la parte testuale (chi critica questo elemento dovrebbe consigliarmi qualche ascolto italiano), che scivola via senza inutili e ridondanti pesantezze, lasciando invece tante preziose oscurità che si lasciano scoprire elegantemente ascolto dopo ascolto (penso al fatto che molti abbiamo letto “Maria Callas” pensando alla diva e che ora, riascolteranno il pezzo scoprendone lati impensati). Certamente è risultato piacevole il distaccarsi dai cliché dei primi album ma, personalmente, mi aspettavo qualche rischio in più da un compositore esperto come Palazzo. Ovviamente è un concetto relativo quello di azzardo perché brani come “Primo Sangue”, quello che ho più ammirato o “Sabato Simon Rodia” sono tra le cose più lontane dalla normalità per l’ascoltatore medio italiano. Resta troppo in primo piano la vocalità mentre avrei preferito che Il Santo Niente avesse dato maggiore possibilità espressiva alle chitarre e soprattutto al sax che poteva veramente elevare Mare Tranquillitatis a uno dei migliori album degli ultimi vent’anni oltre che, magari, dare un’impronta innovativa al lavoro che altrimenti resta ineluttabilmente infangato nei ricordi di passate correnti. Tante influenze che rischiano di incanalarsi nel ricordo di tempi andati e una ricerca di strade Art Rock e sperimentali che appaiono ancora molto lontane. Inoltre crea qualche perplessità un brano come “Le Ragazze Italiane”; molto diverso dal resto dell’album  finisce per confondere l’ascoltatore, anche e soprattutto prima ancora di ascoltare il resto. Può avere senso come gancio per il pubblico, dato il tema e le sonorità immediate ma niente di più.

Se proprio vi piace fare un raffronto con i Massimo Volume, mi assumo la responsabilità di dirvi che c’è molto più coraggio in questo disco che nelle loro ultime cose (alcune delle quali fatico a riascoltare, nonostante non ne neghi il valore) e c’è anche di più della pura temerarietà perché Mare Tranquillitatis riesce nella difficoltà di non annoiare pur dislocandosi dalle vie sicure della canzone italiana (chiamatelo pure cantautorato Indie, se preferite). Un disco che non dimenticherò di lasciar partire dalle casse nel breve tempo ma che mi lascerà comunque sempre con un profondo dispiacere per quello che sarebbe potuto essere. Parafrasando L’inizio di “Sabato Simon Rodia”, (“Puoi essere solo ottimo o pessimo. Se sei buono a metà non sei buono”) se la sperimentazione è solo a metà non è sperimentazione. Oppure possiamo fare meno i puntigliosi, vivere la musica per quello che è e goderci semplicemente un disco pregevole.

Read More

ESMA – Rivoluzione al Sole Vol.1 Impossibile è Solo Una Parola

Written by Recensioni

Dicono che le grandi rivoluzioni comincino sempre dal basso. Bisogna toccare a piedi uniti e fermi il fondo per potersi dare uno slancio verso la superficie, verso la luce, verso il Sole. Dicono anche che non vi è altra via per l’alba se non attraverso la notte. Forse questo concetto era ben chiaro nella mente di Enrico Esma quando si è trattato di impugnare penna e chitarra per la realizzazione di Rivoluzione al Sole Vol.1 – Impossibile è Solo Una Parola, prima tappa di un lavoro di più ampio respiro, organizzato in forma di concept album, che prevede, a breve, l’uscita del Vol.2.

La rivoluzione di Esma comincia a notte inoltrata, quando l’orizzonte è solo una linea immaginaria, ma non tutti sanno che quello è solo l’inizio. Scorrono le lancette dell’orologio, ed in lontananza si palesano luci fioche che aumentano man mano d’intensità, fino a trasformarsi in raggi solari. È questa la metafora che accompagna l’intero album, che si evolve in un crescendo dal buio alla luce: le sonorità ruvide del Grunge più primordiale, le distorsioni del Rock più duro, crepuscolare a tratti, vanno scemando man mano i toni fino ad arrivare a sonorità Alternative Rock decisamente più melodiose. Avrei dovuto intuirlo dalla copertina del disco che la parola Sole del titolo non avrebbe fatto alcuna allusione a sonorità caraibiche: di sole si tratta, certo, in primo piano, ma stampato su sfondo grigio, il colore che forse tinge troppo spesso il cielo di Orbassano, perché è in provincia di Torino che quest’album ha visto la luce. Se il filo conduttore che accompagna lo sviluppo del disco è abbastanza evidente nella parte strumentale, lo è meno nei testi, ancora troppo acerbi ed alla ricerca di allucinazioni oniriche in stile Verdena che talvolta risultano forzate, soprattutto nella prima parte.

“Faraon” è la prima traccia del disco. È questo il fondo dal quale comincia la risalita, la notte che si deve superare. Il suono è rude, graffiante, essenziale; un’operazione a cuore aperto senza “Anestesia” (secondo brano). “Dente di Drago” e “Resto Abile” smorzano un po’ i toni duri ed introducono i primi bagliori di luce all’orizzonte, ma i primi veri raggi luminosi si vedranno solo con “Pianoforte in Fiamme Sulla Spiaggia” ed “Universo”, dove le chitarre distorte lasciano il posto a quelle acustiche. Ed infine il Sole, lontano ed infuocato, avvolto in una luce tutta sua, “Come Una Stella”: ecco che spunta  l’alba, ecco la fine del disco. Un finale che non è un vero finale, ma apre lo scenario verso un nuovo inizio. Non ci resta che attendere l’uscita del Vol.2 per sapere come andrà a finire.

Read More

Dawn to The Clouds – Far

Written by Recensioni

Carpi è un comune italiano di 67.408 abitanti della provincia di Modena in Emilia-Romagna.Il comune, il più popoloso della provincia dopo il capoluogo, fa parte dell’Unione Terre d’Argine. Non ci troviamo in una puntata di Super Quark ma sulla pagina di Wikipedia dedicata a Carpi, che dimentica di citarla come città che ha dato i natali ai Dawn To The Clouds. Il terzetto si presenta con Far, il loro secondo EP, composto da quattro tracce per un totale di diciotto minuti scarsi, che suscitano quel languorino musicale che si vorrebbe sempre poter ascoltare schiacciando il tasto play. Dicevamo, quattro tracce che a primo impatto mostrano i denti e il carattere. Forti sono le influenze provenienti dal Rock made in USA e anche qualche strizzata d’occhio a certi riff provenienti da Grunge anni 90 come nel primo brano “On Your Lips”.

Difficile non lasciarsi coinvolgere dalle chitarre distorte e dalle sporcature disseminate per le tracce. Se poi a questo ci aggiungiamo il ritmo sostenuto da una sezione ritmica trainante ascoltiamo “Loneliness”, inserita in chiusura, piacevolmente colpiti di trovarsi di fronte a un ottimo esempio di potenza ed energia tradotta in musica. Considerando che stiamo parlando di un trio, la ricchezza non manca e anche dal punto di vista dell’accuratezza non possiamo che dargli un “bravi” in pagella. Abbiamo parlato di un inizio e una fine col botto, senza considerare che nel mezzo i Dawn to The Clouds hanno piazzato un’altra doppietta niente male con la cover “Florence” dei Be Forest, che si innesta nella stessa direzione fatta di energia, ritmo e distorsioni, e una ballad dal titolo proverbiale “Sunday”che tira un po’ il fiato prima della corsa finale. Se volessimo trovare delle corrispondenze con gruppi famosi probabilmente citeremmo gli Smashing Pumpkins, i Pearl Jam o i Dinosaur Jr ma preferisco pensare che i Dawn To The Clouds abbiamo trovato, in questo secondo EP, uno stile più personale e definito. Far dimostra di avere gambe forti ed energia da vendere, che spreriamo di ritrovare nella lunga distanza nei loro live e nei prossimi lavori.

Read More

Midnight Faces – Fornication

Written by Recensioni

Le due facce di mezzanotte che stanno dietro a questo progetto arrivato direttamente dalla capitale dello stato capitalista per eccellenza sono Philip Stancil e Matthew Warn. Warn inizia ben presto a fare musica con un amico d’infanzia, Jonny Pierce, poi voce dei The Drums (con lui Jacob Graham, Adam Kessler e Connor Hanwick), band Indie Pop in orbita dal 2009, con all’attivo due full lenght, l’omonimo esordio e “Portamento” del 2010, oltre a numerosi singoli, Ep e partecipazioni a compilation. Dopo un primo album pubblicato con l’amico Pierce, Warn fonda insieme a Josh Tillman (dall’anno scorso ex batterista dei Fleet Foxes, oggi più noto come Father John Misty), i Saxon Shore, formazione Post Rock di buonissimo livello.

I Midnight Faces nascono dall’incontro di Warn con Philip Stancil, anche lui cresciuto con la musica intorno, giacché la sua è proprio una famiglia di musicisti. Warn aveva già realizzato le parti strumentali e invitò quello che ne è il compagno artistico ad aggiungere le sezioni vocali. Prese cosi vita questo Fornication.

Dieci tracce, dieci canzoni melodicamente Pop ma dai mille retrogusti. Si passa da alcuni momenti più oscuri, quasi Darkwave, specie nella sezione ritmica e negli echi delle chitarre (“Fornication”, “Kingdome Come” “Turn Back”), ad altri nei quali la vocalità e l’approccio cantautorale di Stancil prendono il sopravvento (“Identity”, “Heartless”). Tanti sono i passaggi nei quali l’Alt Rock (“Crowed Halls”) si addolcisce per seguire strade più popolari e di più facile ascolto (“Give In Give Out”, “Now I’m Done”), grazie anche a un’attenta e puntuale ricerca melodica e moltissime sono le congiunture nelle quali tutta la vita di Warn e quindi le sue conoscenze personali, più o meno dirette (abbiamo detto The Drums, Fleet Foxes, Saxon Shore), sono riportate in musica. I brani più riusciti sono quelli nei quali il Dream Pop particolarmente sintetico si sposa con l’elettronica creando suggestive ambientazioni filmiche, a tratti danzereccie quasi eighties (“Feel This Way”, “Give In Give Out”, “Kingdome Come”) in uno stile perfetto che richiama il grande Anthony Gonzales (M83) ma anche, volendo ampliare il proprio spettro di vedute, i Depeche Mode (“Holding On”), cosi come gli Slowdive, ovviamente con ritmi più dinamici.

Un disco che miscela quindi atmosfera e melodia, con cura ed eleganza, puntando forte sulla voce ma senza tralasciare l’aspetto strumentale, elettronico soprattutto. Sceglie melodie orecchiabili e non calca troppo la mano su artifizi di alcun tipo finendo però per sprofondare nell’altro versante della questione. Eccessiva semplicità che si trasforma in povertà d’appeal e melodie che, per quanto gradevoli, finiscono per essere di facile oblio, perché troppo simili le une alle altre. Dieci episodi che si presentano, in linea di massima, tutti ugualmente apprezzabili e facilmente godibili, senza però riuscire a suscitare un interesse che vada oltre la semplice amabilità sonora. Per chiudere, se avete difficoltà a trovare mezze misure, questo è il disco perfetto per affibbiare la vostra sufficienza, niente di più, niente di meno, almeno per questa volta.

Read More

Faz Waltz – Back On Mondo

Written by Recensioni

Il ritorno dei comaschi Faz Waltz, dopo Life on The Moon, è ancora una volta più che convincente, almeno sotto l’aspetto estetico e caratteriale. Convince la copertina (opera dello stesso Faz La Rocca) in bianco e nero che mostra il power trio alle prese con un cannone da circo e tanto fumo; convince il nome dell’album, Back On Mondo, semplice, diretto, ironico e magniloquente al tempo stesso. Convince la scelta di legare le tredici tracce in tracklist con un concetto portante, la ricerca di una propria dimensione, umana o aliena, lavorativa o geografica, senza per questo appesantirne il risultato e sminuire la potenza dei brani presi nella loro singolarità.

Il terzo lavoro dei Faz Waltz, con una line up rinnovata e registrato in analogico su nastro a due pollici, è un frullato di Rock’n Roll, Psych Rock anni Sessanta, Glam, Pop-Punk e Blues Rock. Una miscela esplosiva di energia, come polvere da sparo, come un cannone pronto a mandarti in orbita. Uno degli elementi più forti nell’album è il Blues Rock, in stile Black Keys (“The Fool”, “I Wanna Find my Place”, “Cannonball Blues”, “Little Home”, “Get Poison”), che starebbe da dio in una pellicola di Tarantino e Rodriguez, reso perfettamente dal lavoro a voce e chitarra di Faz La Rocca; me le parti che più mi convincono sono le sfuriate Glam dei padri T-Rex o New York Dolls, ancor più che David Bowie (“Pay Your Dues”, “Leave Her Alone”) che, anche se povere di originalità come tutto questo Back On Mondo, quantomeno propongono una formula meno abusata negli ultimi anni. Saranno certamente gradite agli ascoltatori legati alla melodia messa al servizio della furia sonica le esplosioni Garage Rock Revival (“Looking For a Ghost”, “Baby Left me”, “Get Poison”) tanto care a Hives, The Libertines o The Strokes. Altro rimando importante è ai Sixties, alle sonorità sia Pop stile Beatles o Kinks (“Clown On The Scene”, “Wrong Side of The Gun”, “Get Poison”), sia psichedeliche e Blues, alla maniera degli Stones, magari i più romantici (“King of Nowhere”), e questa vena di passato sarà udibile, anche se non sempre con la stessa pulsione, dalla prima all’ultima traccia.

Ancor più interessanti i momenti in cui questi influssi si abbracciano con vigore, generando brani che sfruttano i punti di forza di tutte le svariate influenze della band. Esempio il secondo pezzo, “Fingers in my Brain”, in cui la spinta del Garage prende fuoco sotto le note folli del piano di Faz La Rocca, ma anche la splendida “Leave Her Alone”, danza Glam che diventa uno spettacolo per le orecchie grazie ad una melodia semplice quanto accattivante, piazzata sopra ritmiche incandescenti. Un ottimo lavoro sia in fase esecutiva sia in fase compositiva che ha il solo enorme difetto di suonare vecchio già dalle prime note. Avete presente un oggetto creato oggi in uno stile retrò? Oggi è una modernità vintage, tra dieci anni sarà solo vecchio. Allo stesso modo, se il revival Blues Rock di decenni fa aveva un sapore vintage, la sua riproposizione quasi identica puzza di vecchio. E non basta mettersi a correre sui binari delle note Garage o ubriacarsi di Glam per apparire diversi da quello che si è.

All’inizio vi ho detto che Back on Mondo è una miscela esplosiva di energia, come polvere da sparo, come un cannone pronto a mandarti in orbita. Ricordate la copertina? Back on Mondo non è un cannone da guerra e non ha polvere da sparo ma uno di quegli aggeggi da circo il cui fumo è solo finto e a spararti in aria in realtà è un’inoffensiva molla. Back on Mondo è un cannone che ti spara in aria solo un po’, ti fa sorridere, ti fa smuovere il culo ma di certo non fa paura e non fa male a nessuno.

Read More

Tre Tigri Contro/Amelie Tritesse – Tre Tigri Contro Amelie Tritesse 7” split

Written by Recensioni

Partiamo dall’occasione. Record Store Day. Nato nel 2007 dalla mente di Chris Brown è molto semplicemente una giornata (terzo sabato di aprile) celebrativa per tutti i negozi musicali indipendenti, durante il quale le band realizzano ristampe, dischi ad hoc, remix e tutte le possibili prelibatezze e rarità che ogni buon collezionista sognerebbe di possedere. L’occasione di questo split è proprio il Record Store Day, sesta edizione. Un 7”, 200 copie in vinile nero e busta di cartone pressato, 100 copie in vinile colorato in scatole di cartone ondulato con copertine dipinte a mano. Già immagino i collezionisti folli con la bava alla bocca. Oltre al feticismo c’è però la musica e ci sono due formazioni di punta della scena alternativa abruzzese, due band che hanno diviso palchi, sudore e gioia. Da un lato Amelie Tritesse (Teramo) con “L’Agnello di Dio” e il loro classico Read’n Rocking, una miscela di parole e suoni, musica e testo, di Spoken Word e Alt Rock che si piazza a metà strada tra Massimo Volume e Art Brut. “L’Agnello di Dio” non aggiunge nulla a quello che gli Amelie Tritesse ci hanno spiegato essere già due anni fa con l’uscita di Cazzo ne Sapete Voi Del Rock’n Roll. Una storia, raccontata più che cantata, ironica e surreale per certi versi, con una timbrica, un’impostazione vocale (Manuel Graziani, l’artefice), un accento e una sonorità che sarà snervante, quasi insopportabile per alcuni, ma che, al tempo stesso, ha reso gli Amelie una creatura dalla firma distintiva. Il secondo brano dello split è invece una sorpresa. Loro sono i Tre Tigri Contro (Giulianova), power trio emergente che, nel brano “I Lunedì al Sole (Io Non Voglio Lavorare Più)”,  unisce l’ironia di un certo cantautorato italico, tra Rino Gaetano e il Claudio Baglioni di “Portaportese”, all’energia, l’irriverenza e la follia dei più attuali Zen Circus. Del circo Zen sembrano ricalcare anche lo stile dei testi, che, per quanto possano far storcere il naso agli ascoltatori più intellettuosnob, è innegabile riescano a strappare più di un sorriso (“Io non voglio lavorare più! / Davanti al televisore ventidue ore al giorno / e le altre due le vivrei solamente di porno”). I due brani di Tre Tigri Contro Amelie Tritesse, sono molto diversi uno dall’altro ma stanno benissimo insieme, come i due risvolti della stessa medaglia, come due modi diversi di affrontare la vita, diversi e eppure simili perché legati da un sottile filo di disillusione. E alla fine aver avuto tra le mani una delle trecento copie dello split sarà un piacere anche per le orecchie, oltre che per il nostro spirito di feticisti incalliti.

Read More

Ventura – Ultima Necat

Written by Recensioni

Vengono da Losanna, Svizzera, questi tre reduci degli anni novanta nati nel 2003, che sembrano aver triturato e centrifugato una decade di Superchunk e Grunge, di Failure e Alt Rock, di Shellac e Nirvana prima di aver iniziato a vomitare la loro arte sulle nostre orecchie. Dopo diversi split pubblicano il loro primo album Pa Capona nel 2006 e il secondo (finalmente per l’Africantape) We Recruit nel 2010, anno in cui collaborano anche a un singolo per la stessa etichetta con David Yow (Jesus Lizard).

Nonostante la matrice Alternative Rock sia forte, evidente e sia un chiaro punto di forza dell’album, non mancano passaggi che sembrano invece richiamare addirittura al Black Metal. Già l’introduzione di “About to Dispair” sembra presagire paesaggi più variegati rispetto a un semplice revival di fine millennio. Le note gravi e poderose e le pause di quei secondi iniziali sembrano estrapolati da un’inesistente opera Atmospheric Black Metal degli Ulver più che dal terzo disco di una band svizzera che suona nel 2013 col mito di Cobain e soci nella testa. Black Metal che ritroveremo, in sfumature non facili da cogliere, anche in diversi passaggi successivi (“Intruder”, “Very Elephant Man”.)
Ovviamente non si pensi a un disco pieno delle più disparate e inaspettate influenze. O meglio, pieno delle più disparate e inaspettate sonorità. Cosi come nei lavori precedenti anche qui gli anni delle camicie a quadrettoni sono la parte preminente, evidenziata in quasi tutti i brani, sia più lenti, meditativi ed eterei  (“Little Wolf”, “Amputee”, “Exquisite & Subtle”) sia più veloci, carichi e pieni di vita (“Nothing Else Mattered”, “Corinne”).

Assolutamente eccelsa la potenza Post Hardcore e la vocalità Art Rock quando espresse in tutta la loro completezza (“Body Language”, “Amputee”).
Nonostante la ricchezza di spigolature, le chitarre distorte e taglienti , il sound dei Ventura, anche grazie alla voce pulita di Philippe Henchoz e alle ritmiche puntuali e mai ridondanti di Michael Bedelek (batteria) e Diego Gohring (basso) fa  della melodia un altro elemento che contraddistingue Ultima Necat. Basti pensare a un pezzo come “Very Elephant Man” che nella prima parte sembra un tripudio di esasperazioni soniche, con ritmiche sfalsate, voce quasi sovrastata dagli eccessi noise delle chitarre. Basta ascoltare come quello stesso pezzo riesce a trasformarsi nella seconda sezione diventando una goduria per le orecchie, sciogliendosi in una musicalità vellutata dettata sia dal ripetersi delle parole sia dalla semplicità delle sei corde che esplodono come in uno Shoegaze di stampo Alcest, una delle formazioni che più si avvicina ai Ventura. Stessa soavità leggiadra, stesse chitarre taglienti, stessa vicinanza con il Black Metal soprattutto nelle sue varianti Ambient e Shoegaze. L’unica differenza è che, se nei francesi questi fattori sono messi in bella mostra, i Ventura sembrano invece celare il tutto dietro quella nuvola anni novanta cui più volte ho fatto riferimento.

Già con l’opera prima degli Alcest, Souvenirs d’un Autre Monde c’erano state diverse controversie riguardo alla vicinanza della loro musica con il Black Metal; probabilmente allo stesso modo qualcuno potrebbe trovare azzardate le mie parole. Eppure ascoltate con attenzione queste nove tracce di Ultima Necat e forse vi convincerete di quello che dico.
Intanto l’ultima canzone è finita, ancora una volta. Omnes feriunt, ultima necat. L’ultima uccide, diceva Seneca (forse lui?!). Di certo non parlava di musica ma per non sbagliare faccio ripartire il disco e metto repeat, non voglio ascoltare ultimi brani oggi, meglio addormentarsi con la musica in testa.

Read More

Drive me Crazy – 2012 Ep

Written by Recensioni

Dopo una demo autoprodotta, tornano a far parlare di sé i Drive Me Crazy con 2012 – The Ep un disco breve, ma intenso. Sono solamente 4 le tracce di questo lavoro, ma la carica energetica che sprigionano compensa la brevità. La voce di Claudia Favalli ci incanta, mentre il resto della band detta egregiamente un sound Rock esplosivo alternato a momenti più soft da romantiche ballad.

“Drive me Crazy”, la canzone che porta lo stesso nome della band, veicola su note stridenti un testo dolce. La traccia è stata anche scelta come singolo iniziale, completo di videoclip ad opera della M&M Italia.
La seconda canzone, “One Out of a Million”,  è una vera e propria ballad dal gusto romantico ed ha un refrain che si imprime in mente con una facilità sorprendente. Un inno e uno stimolo a seguire  le proprie ispirazioni e le proprie passioni alla volta del successo.
“2012” esprime ad hoc quel che è il Rock n’ Rose della band: suoni a tratti forti e voci sussurrate in alternanza per prendere un po’ in giro con stile chi credeva nella ormai scongiurata fine del mondo predetta dai Maya.

2012 The Ep si chiude con un brano dalle chitarre stridenti e voci trascinate che ben rappresentano il mood del titolo: “Love is Paranoid”. Si sente tutta la passione e la disperazione di un amore a tinte paranoiche.
La voce della Favalli spacca. A tratti nei brani più soft compare il fantasma dei contrasti vocali di Anouk, mentre in altri momenti la grinta prorompente è quella di Beth Ditto dei The Gossip, pur mantenendo sempre una propria identità e peculiarità.
I Drive Me Crazy sono una band carica di energia e di verve che entra nel mercato musicale sfondando la porta e portando una ventata di novità nella nostra collezione di dischi.

Dal 23 maggio l’Ep è disponibile in download su iTunes e le principali piattaforme, nell’attesa del tour che vedrà i DMC esibirsi in diversi locali del Nord Italia.

Read More