Giulia Di Simone Author

Maximo Park – Too Much Information

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Classico mix tra chitarra distorta VS. riff di note a tratti quasi Country, batteria dritta, synth, ed un senso di spensieratezza: questo è il sound che apre il quinto lavoro degli ormai consolidati Maximo Park. Certo, “Give, Get, Take” suona bene ed è sicuramente il singolo di punta di Too Much Information, ma alla fine risulta fin troppo ripetitivo, tanto da apparire quasi un brano noioso nonostante l’allegria che trasmette. Più pacata è invece “Brain Cells”, canzone distesa che mischia una voce lenta con sonorità Indie che vanno a braccetto con la UK Garage tanto in voga ultimamente. Si continua sulla stessa onda elettronica aggiungendo però un tocco di Future Pop con “Leave This Island” e “Is It True”, dove grazie alla voce profonda di Paul Smith e i Synth mono-nota in stile anni 80 si viene proiettati in una dimensione completamente inversa rispetto al resto del disco. Un po’ come se queste tracce fossero delle macchie grigie adagiate su di uno sfondo a colori, macchie si sbiadite e malinconiche, ma allo stesso tempo macchie che risaltano e si fanno apprezzare. Torniamo ad un suono British quasi balneare con “Lydia, the Ink Will Never Dry”, più energiche e briose sono invece “My Bloody Mind”, “I Recognise the Light” e “Her Name Was Audre”; quest’ultima decisamente più veloce ed aggressiva rispetto a tutto il resto dell’album. In “Drinking Martinis” troviamo il ricordo di una relazione ormai finita e descritta in modo lucido (sia alcolico che per il tempo passato) attraverso metafore sul modo di bere. Atmosfere simili anche per il singolo “Midnight On the Hill” (il video lo trovate qui sotto), ed una chiusura invece romantica con l’incerta ballata “Where We’re Going”, dove ad emergere sono i dubbi di una generazione allo sbando ma ancora sognante.

Mah, devo essere sincera? A me Too Much Information non ha convinto per nulla, l’idea di fondere sonorità oscure ed elettroniche con quelle dell’Alternative Rock brioso regala risultati poco omogenei e poco chiari rispetto al filo che lega i singoli brani. Insomma le canzoni non si incastrano a dovere per creare un unico puzzle, ci sono pezzi che si completano ed altri invece che rimangono abbandonati a se stessi. Dunque qual è il punto focale che la band di Newcastle avrebbe voluto comunicare? Spiegatemelo voi, perché io ancora non l’ho capito.

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Tati Valle – Livro dos Dias

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Tati Valle ha viaggiato per un po’ così da esplorare nuovi luoghi, nuovi suoni e pure se stessa, decidendo poi di fermarsi in Abruzzo per conoscere meglio il territorio e la lingua italiana. Nasce così Livro dos Dias, un diario di viaggio in cui l’artista brasiliana cerca di convergere l’identità di diversi paesaggi, culture e musicisti per farle un po’ sue e un po’ di tutti. Si inizia con il paradosso degli ultimi saranno i primi attraverso “Ultimo Samba” dove a farla da padrone sono una voce calda, percussioni e un basso pieno ed articolato. Si prosegue con “Camaleao” in cui il Pop comincia a prendere forma descrivendo quel desiderio di avventura e di scoperta nascosto in ognuno di noi. C’è invece lo zampino di Gustav Lundgren alla chitarra e di Luca D’Alberto alla viola elettrica in “Novo Mundo”, traccia Bossa Nova pesante come il tempo che passa, e che grazie agli archi riesce ad accompagnarti cullandoti in un viaggio calmo e sensuale. Bellissima, malinconica e a volte contornata da suoni elettronici è “Arrepio”: quì attraverso una tromba di altri tempi si racconta quel senso di inadeguatezza che a volte si prova restando incastrati in un contesto sbagliato. “Samba de Quinta” nasce da un’improvvisazione e questo rimane, risultando un brano carino ma sicuramente non speciale. Altra storia invece per “Diante de Voce”, dove finalmente si iniziano ad esplorare nuove influenze musicali dando un tocco Rock e meno acustico al tutto. Si vola a Trastevere con la romantica e poetica “Voz e Violato” per poi finire con “Slowmotion Bossa Nova”, brano che racchiude in sé un po’ tutto il senso dell’album: si parte dal Brasile, si attraversa l’Italia e si arriva inaspettatamente alla Hawaii. Dunque il testo giustamente è in inglese e sul finale incontra anche la voce di Ivan D’Antonio (amante delle Hawaii e produttore artistico del progetto).

Per concludere, Livro dos Dias è riuscito alla fine a esprimere l’idea di un viaggio internazionale? Più o meno direi, in quanto se l’intenzione era appunto quella di fare un disco dipinto da diverse contaminazioni sonore, il risultato appare si complesso (specialmente per la varietà di strumenti utilizzati suonati egregiamente), ma però ancora troppo radicato alle sue origini d’oltre oceano e quindi poco sperimentale a livello compositivo.  Godetevi la versione live di “Novo Mundo”, buon viaggio!

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Luca Bretta – Mi Cascano le Braghe

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Luca Bretta (classe 1991) arriva dalla sua prima esperienza musicale con il gruppo Funky Rock Hot Funky Style con cui nel 2010 apre un concerto dei The Bastard Sons of Dioniso (X Factor 2009) fino ad arrivare nel 2013 alle semifinali del 56° festival di Castrocaro e successivamente cominciare a bazzicare tra festival importanti (Corona Social Ice Tour) e programmi tv (Red Ronnie, “Roxy Bar”). Nomi a parte, direi che l’aspirazione di questo giovane autore è sicuramente quella di finire in radio e sfondare nel Pop Rock italiano, ed infatti Mi Cascano le Braghe ne è la conferma. Un singolo (perdonateci l’eccezione ndr) Pop Punk scanzonato e adolescenziale in cui l’argomento ovviamente non è difficile da immaginare: “Non mi sta più nei pantaloni, dai tirati giù i jeans che non ce la faccio più!”. Tutto molto radiofonico, tutto molto Pop, tutto molto giusto, sia la canzone che il video in cui si racconta la classica vacanza tra ragazzi e ragazze sulla neve con la tavola in mano, ed in cui non poteva certo mancare la classica band che suona nel locale la sera.  Insomma siamo di fronte ad una sorta di Succo Marcio, Finley e Andy Jonathan Fender in salsa teenager. Bah che dire… niente di speciale, forse un po’ scontato ma divertente, ascoltatelo e fatevi una risata!

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The Anthony’s Vinyls – Like a Fish

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Sono abbastanza spensierati gli Anthony’s Vinyls che con il loro mix di Funky Indie Rock spaziano tra ritmo sfrenato, squarci di Surf Rock che fa molto California’s mood, giri di basso sempre presenti, fino ad arrivare ad una voce complementare ma non per questo fondamentale. Ci siamo capiti? Spero di si. Si inizia con “Chromatic Games” dove troviamo basso e batteria a dirigere un botta e risposta tra due chitarre: una detta il ritmo e l’altra la segue a ruota libera, a volte si scambiano i ruoli e a volte lasciano chorus e delay a casa per diventare più distorte e accattivanti. Stesso discorso per “My Sister Shouts”, quest’ultima con l’aggiunta di giochi di pan a rendere ancora più vivo il tutto (e in cui i fucking non mancano nelle parole di Massimiliano Mattia), come anche per “Just Can’t Get Enough” dove i giovani romani ci invitano a ballare come non ci fosse un domani. Più lente, Rock e che lasciano maggiormente spazio alla voce sono invece “Running Man” (primo singolo estratto), “My Body”, e “Like a Fish”. Si ritorna alla cassa dritta e alla voglia di ballare con “Poppy” per poi arrivare a “Radio Obsession”  quest’ultima a mio dire la traccia più riuscita del disco e quella più movimentata e radiofonica. Si chiude con “The Train of Their Life” (con tanto di traccia nascosta) dove finalmente la batteria prende possesso del pezzo lasciandosi sfogare tra rullate e cattiveria mentre la voce rimane libera con tanto di cori. Molto Rock’n’Roll insomma.

Ecco che dopo il primo EP 5 Points & 70 Euros del 2011, l’album A Different Water del 2012, gli Anthony’s Vinyls ritornano con un disco genuino coerente dall’inizio alla fine, che mette in risalto il suono sicuramente non nuovo ma comunque caratteristico di questa band. Un suono tra Daft Punk e Arctic Monkeys ottimo da ascoltare live quando si ha voglia di muoversi a ritmo sfrenato ed allegria.

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Foxhound – In Primavera

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È da un po’ di tempo che non mi ritrovo a recensire un disco senza dover pensare troppo, e In Primavera mi ha fatto invece riprovare il piacere di ascoltare un album fluido, che scorre e risuona, perché infondo questa è la vera essenza del secondo full-lenght dei Foxhound (successore di Concordia). La band si è estraniata dal mondo dentro una casetta sull’albero, e così, lontani dalla frenetica vita di tutti i giorni e dalle comunicazioni incessanti e stressanti è riuscita a trovare l’ispirazione per delle nuove creazioni musicali attraverso la pace dei sensi che la natura regala. Un po’ come un film romantico in cui i protagonisti sono dei bambini innocenti e puri che vivono il loro limbo con sincerità, e che lontani dalle impurità e dalle complicazioni della vita adulta si godono i loro sorrisi con sincerità. Ed ora, visto che siamo in via d’arrivo verso la primavera, iniziamo a parlare del disco.

Si parte dalla solitudine con “All Alone on my Own” in cui si descrive il desiderio di ritrovare il silenzio e il piacere che quest’ultimo può regalare, ribadendo dunque il modus operandi con cui il disco è stato concepito. “Erase me” inizia con un’interessante mix di voce presente e sintetizzatori eterei che creano un’atmosfera speciale, come se fossimo in un sogno, per poi passare successivamente nel vivo del brano con un mood Funky Rock. “Fitness” si concentra su una piaga moderna della società: l’ossessione per il corpo scolpito. Che grande disgrazia dover lottare tutti i giorni per raggiungere uno standard di bellezza assurdo che non fa altro che alimentare un narcisismo ossessivo e malato (e che palle soprattutto!). Molto Africa United e molto Dub è invece “I Just Don’t Mind”: delay e riverberi a palla, momenti di voce bassa pitchata e chitarre in levare. Si passa al basso Funky con “Out”, brano dal testo questa volta meno esplicito e apprezzabile per le chitarre che in certi momenti diventano rumorose e fastidiose. Si ritorna a parlare di forza della solitudine in “Gasulì”, al caos frenetico cittadino intriso di routine in “I Don’t Want to Run Roday”, e all’arrivo dell’estate (ricordo che il disco si intitola In Primavera) in “Summer Yeast”, quest’ultima molto bella in quanto descrive la triste verità che in estate è difficile lavorare ma lo si deve fare, e per questo a volte si finisce per fare un countdown verso il freddo, tanto atteso in quanto non saremo più costretti a dover sopportare il sudore cittadino che opprime. Intro spaziale perché pieno di effetti è quello di “Stars (Anytime You Want to)”, con cambi di tempo, chitarre ripetitive martellanti e voci che volano tra destra e sinistra. Un pezzo che inizialmente ti fa venire voglia di volare ed infine invece impazzire, con il risultato che musica e testo si incastrano alla perfezione. Ballabile, orecchiabile, e spensierata è “That’s the Sky”, mentre “My Life Is so Cool” conclude il disco con una buona dose di incazzatura (che ci sta sempre) fatta di grida e djambé africani.

Insomma sarà per il sole, sarà che ormai la primavera è arrivata, ma i Foxhound mi hanno fatto venire la voglia di uscire di casa e andare in un prato con la mia branda, mettermi gli occhiali da sole (che fanno tanto glamour), e sorridere in solitudine. Per finire: se questa band non fosse di Torino avrebbe già sfondato ne sono sicura, e il video di “Erase Me” che trovate qui sotto lo conferma, quindi buona fortuna!

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Hydrahead – H(e)arth

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Pop Punk melodico é quello dei HydraHead con la classica forma intro – riff – ritornello – stacco – riff – ritornello – outro, nulla di nuovo insomma, ma é un nulla di nuovo fatto come si deve a cominciare dal mix: chitarre stereofoniche, batteria che picchia, basso calibrato e voce pulita con tanto di cori intonati. Suona talmente bene da non sembrare per nulla italiano ma quasi californiano, ed infatti non a caso dietro a questo progetto troviamo il nome di Daniele Autore in veste di produttore (Vanilla Sky e The Alternative Factory).


H(e)arth inizia con “Escape”, dove sinceramente la prima cosa che mi è saltata all’orecchio è un inglese dalla pronuncia …mmm… come si dice… italianissima?! Non è proprio il massimo, si può e si deve migliorare direi! Poi però ci si rialza dallo scivolone con il singolo dal sapore radiofonico “Follow This Sound” con tanto di videoclip molto U.S.A. (Football americano e Cheerleader per intenderci) ma girato in terra nostrana da Salvatore Perrone con il team sportivo Chiefs di Ravenna (ah si, gli Hydrahead sono di Ravenna tra l’altro). La classica combo amore + Punk Rock caratterizza invece “Incomplete”. Si passa poi alla meno aggressiva “No Regrets”, dove le speranze prendono il sopravvento e l’arrangiamento acustico ne consolida l’intenzione. Chiude il cerchio “Wrong Target”, il brano che conferma la linea guida che caratterizza H(e)arth: del Pop Punk classico realizzato con classe, quello che spesso piace molto agli adolescenti (e alle adolescenti soprattutto), ma che nonostante la produzione impeccabile e gli arrangiamenti ben realizzati a me personalmente ha comunque annoiato.

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Sixty Drops – Zodiac

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I Sixty Drops sono un collettivo abruzzese che in tempi di auto-tune, casse dritte o distorsioni cattive ha deciso di andare controcorrente tornando alle pacate sonorità Trip Hop di una Bristol anni 90. C’è da dire che sono passati un po’ di anni da quando “Teardrop” dei Massive Attack (1998) ha colonizzato anche le orecchie dei più sordi, ed anche se successivamente Tricky ha aggiornato il genere introducendo elementi elettronici più movimentati, comunque l’essenza di quell’atmosfera sonora opaca e al confine tra tristezza/speranza è rimasta la stessa; e soprattutto sembra rivivere ancora nelle note di Zodiac. L’EP d’esordio di questi baldi giovani si compone unicamente di tre tracce, poche forse direte voi, ma in fondo si preferisce la quantità o la qualità? Io opto per la seconda e ribadisco che qui la qualità sonora non manca. Si inizia con “Nelumbium”, cinque minuti tra beat Hip Hop, suoni Dark, delay ed un botta e risposta tra Jacopo Santilli e Ludovica Mezzadri, due voci che danno il meglio di sé quando risuonano all’unisono. “Down the Light Zone” si lascia invece l’oscurità alle spalle per dare spazio a sonorità Jazz e Chillout, creando una traccia pacata che mette in risalto il basso di Lorenzo Lucci. Si finisce con la strumentale “The Japanese Sundance” che di giapponese ha ben poco (se non dei synth/campana che appaiono sporadicamente), ma che invece di Dance o meglio di “dolce” Industrial ha molto. Il cerchio di Zodiac si chiude in modo incazzato e turbolento, quasi a voler ribaltare la pace dei sensi con cui si è aperto, ma, anche se la traccia è realizzata egregiamente, purtroppo il risultato è quello di lasciare l’ascoltatore spiazzato da un brano che poco centra con il resto dei suoni e le emozioni suscitate in precedenza.

Mettetevi delle buone cuffie, oppure dotatevi di due ottime casse per ascoltare i Sixty Drop perché la fatica e l’impegno messo nella ricerca dei suoni e nel mixaggio si devono poter sentire ed essere ripagati. Quindi per favore lasciate nel cassetto le cuffiette da cinque euro e godetevi questo viaggio con coscienza e magari perdetevi nell’inquietudine umana intrinseca in ognuno di noi.

Qui sotto, ed in esclusiva per Rockambula trovate l’EP in streaming. Buon ascolto!

Nelumbium

Down The Light Zone ( Ft. Lorenzo Lucci )

The Japanese Sundance ( Instrumental)

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L’Ordine Naturale delle Cose – EP

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Freschi freschi e appena nati, Stefano Cavirani (voce/chitarra), Gioacchino Garofalo (chitarra/basso), Mattia Amoroso (chitarra/basso), Enrico Cossu (viola) e Alessandro Aldrovandi (batteria) formano a Parma nella primavera del 2013 L’Ordine Naturale delle Cose, una band decisamente Alternative Rock fedele alla lingua italiana che é andata diretta in studio per registrare le loro prime quattro idee nate da questo incontro sonoro. EP si compone infatti di quattro brani che mettono in evidenza l’ottimo potenziale di questa band attraverso la loro evidente abilità nel creare una sonorità che li caratterizzi con arrangiamenti mai banali. Si parte con “Questa”, una traccia malinconica caratterizzata da un botta e risposta tra una viola alquanto depressiva che si contrappone a del cattivo Rock distorto; si continua con “La Volta Buona” invece maggiormente ritmica ed “Opaca”, forse il brano meglio riuscito di tutto l’EP anche grazie alle sonorità celtiche ben realizzate. Si finisce con “In Punta di Piedi”: calma tra arpeggi di chitarra e poi subito dopo incazzata e molto Linea77 dei primi tempi.

Purtroppo la voce di Stefano rimane soffocata un po’ in tutte le tracce non uscendo fuori come dovrebbe e come meriterebbe; questo molto probabilmente per una questione di mix (scusami Omid Jazi), ma considerando il breve tempo da cui il progetto L’Ordine Naturale delle Cose esiste il risultato del loro debutto è più che ottimale anche se forse troppo affrettato, perché date le potenzialità che si intravvedono ascoltando questo loro primo lavoro forse aspettare un po’ più di tempo per organizzare e sviluppare nuove idee non sarebbe stato male. Insomma, far uscire con calma un lavoro più studiato e meno immediato per presentarsi al mondo. Per chi volesse ascoltarli EP è scaricabile gratuitamente dal loro sito web, quindi buon ascolto!

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Okkervil River – The Silver Gymnasium

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A due anni di distanza da I Am Very Far del 2011 esce per la major Indie ATO Records The Silver Gymnasium l’ultimo lavoro degli Okkervil River capitanati dal frontman occhialuto Will Sheff e dai suoi capelli alla John Lennon. La loro fatica è un ritorno nella città natale di Sheff, una piccola town nel New Hampshire chiamata Meriden, e un ritorno alla sua infanzia anni 80 avvenuta proprio lì. Il risultato è quindi un concept album nostalgico in tutto e per tutto, a cominciare dal sito internet trasformato per l’occasione in un fighissimo videogioco Atari datato 1986 in cui il protagonista è un giovane Sheff che munito di zaino va alla ricerca della sorella avventurandosi tra bar, cimiteri, librerie, negozi di videogiochi, presentandoci così la sua vita adolescenziale. Lo scopo di tutto questo è quello di trascinare il fan (ormai diventato nerd anche lui) all’interno di un vortice Atari che gli farà comprendere meglio da dove arrivano le storie ed i luoghi raccontati in The Silver Gymnasium.
Si comincia con un piano alla “Hey Jude” in “It Was my Season” e si continua sulla stessa linea di cori e contorni beatlesiani in “On a Balcony” per poi approdare in un freddo dicembre fatto di insicurezze e di giovani speranze con “Down Down the Deep River”. “Pink Slips” è una classica ballata (drogata però, non romantica) che precede l’inizio musicalmente depressivo di “Lido Pier Suicide Car”, brano che parla delle solite zuffe tra ragazzini e che finisce diventando uno shaker di suoni allegri molto da pigliata per il culo. Belle le chitarre e la batteria in crescendo dell’intro di “Where the Spirit Left Us” (che però successivamente ricade in quell’ormai scontata e abusata forma compositiva di piano-forte = riff-ritornello). Cassa dritta, marcia militare, chitarra acustica completamente stereofonica e una voce retrò caratterizzano invece “White”, una delle migliori tracce del disco. Si continua il percorso infanzia-adolescenza con “Stay Young” (di cui non è difficile immaginare il contenuto) e con “Walking Without Frankie”, in cui a farla da padrone è un basso dritto molti anni 80 e giochi di pan tra i vari strumenti. Molto New Wave e molto Cure per intenderci. Ci avviciniamo alla fine con la penultima traccia caratterizzata da una conversazione a mo di domanda-risposta come testo, ed in cui la risposta a tutte le domande è sempre “All the Time, Every Day”, guarda caso anche il titolo della traccia. Il cerchio si chiude e Sheff saluta la sua infanzia ricordando le piccole gioie ed i piccoli dolori della quotidianità vissuta a Meriden con “Black Nemo”, ed arrivando alla conclusione che ormai è pronto per camminare su marciapiedi più affollati ed andarsene per una nuova strada che soprannominerà Okkervil River.
The Silver Gymnasium è un album con un inizio e una fine, un percorso musicale nostalgico, un ottimo ascolto per una giornata uggiosa in cui si è in vena di vecchi ricordi e di un raggio di sole che ci illumini il viso, un disco pieno di infelice speranza, ma niente di più e niente di meno.

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MalaScena – MalaScena

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“MalaScena è una lotta tra bui intimistici e le luci della ribalta.”

Come in una scena oscena, t’illudi ma rimani distesa di schiena,
Questa è una mala-scena, se credi all’intesa allora scordati l’impresa,
Infondo tutto è una catena come la musica in cancrena che scema,
Ad ogni intenzione corrisponde una discussione, un clima di tensione.

Scusate, ma il gioco di parole tra Mala e Scena mi ha dato alla testa, ora ritorno in me e ve li presento: loro sono Tiziano Cicconetti, Alessandro Renzetti e Felice Roberto, un trio tutto Rock che dal 2009 è in giro a suonare e ricercare nuove sonorità per trovare una propria identità. Ora sono convinti e consapevoli del loro sound e finalmente sfornano il loro primo ed omonimo EP, MalaScena appunto, un mix tra disillusione Grunge e aggressività Hard Rock rigorosamente in lingua italiana.

Partono in quinta e si presentano con il brano “Essere”, in cui descrivono l’insostenibile leggerezza dell’essere come una strada senza ritorno fatta di illusioni che svaniscono e rimangono stagne in un “potrebbe essere”. Un po’ come il mood degli italiani: vogliono fare, vogliono fare, ma poi non concludono mai nulla per un motivo o per l’altro, o forse solo per pigrizia. “Illudimi… di Lunedì” è uno sfogo che suona come David Grohl in “Smells Like Teen Spirit” e continua con “Madida” (che significa bagnato/sudato), dove si aggiunge però una voce più melodica e meno guasta. Finalmente un basso in primo piano ed una voce radiofonica per l’intro di “Alice” ed una fine in pieno stile Invasioni degli Omini Verdi che consacra questa ragazza in piena crisi esistenziale. MalaScena si conclude con un altro gioco di parole: “MalaIdea”, un pezzo acustico e introspettivo in piena linea con il resto delle argomentazioni espresse in queste cinque tracce. Beh che dire se non buona fortuna a questi baldi giovani, anche se ripensare e musicare in lingua inglese non sarebbe male.

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Margareth – Flowers

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Sono ormai lontane le sonorità Pop ed acustiche degli esordi di White Line e oggi i Margareth si ripresentano al pubblico dedicandosi maggiormente ad un Rock sempre più etereo ed elettronico, tra i Flaming Lips nei momenti più sperimentali, gli Archive di With Us Until You’re Dead in quelli più incazzati, e i Sigur Ros in quelli più acustici e Indie. Flowers si compone di quattro tracce, la prima, “Help You Out”, si apre con un ticchettio ritmico a mo di “lancetta di orologio” accompagnato da una batteria acustica ripetitiva, un basso-synth importante, una voce calma e accordi in stile Explosions in the Sky e gruppi affini. Lounge e percorsa dal suono di un pianoforte è “Flowers”, una di quelle canzoni che ascolteresti volentieri di notte tornando a casa su un autobus, mentre particolare e ben strutturata è “Asimov”, un canzone che si fa spazio tra momenti di pace prevalentemente acustici e sfoghi distorti e sintetici. Bisogna dare merito a questi ragazzi dell’ottima scelta di cambi di suono e ritmo in questa traccia: si passa da un inizio tipicamente Ambient-Rock che incorpora strane combinazioni di suoni, ad uno stacco con tanto di riproduzione virtuale del classico organo ed una batteria a modi Chillstep (Dubstep in versione Chill per intenderci meglio), ed un finale che ritorna ad essere incazzato. Chiude il tutto “Maze”, una canzone caratterizzata da parole, guitar-noise e strings che ti permettono di andare in un altra dimensione e fluttuare.

I Margareth sono strani ed il loro è un suono dove conta veramente e principalmente il timbro sonoro generale e le atmosfere invece che voce, ritmica e struttura. Ciò che si percepisce è la voglia di trasmettere un’idea non ben definita e soggettiva attraverso la loro musica ed i loro strumenti. Il difetto (se così si può chiamare) è quindi quello di non aver bisogno di un cantante che comunque non disturba ma nemmeno fortifica o aggiunge qualcosa al tutto, diventando dunque superfluo.

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Preti Pedofili – L’Age D’Or

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Cosa pensereste se entrando nel website di una band vi trovereste di fronte questa frase? “L’uomo è il sacerdote del caos, la pedofilia è la sua volontà di potenza sulla natura infante, la vita è la celebrazione di tale miseria. I preti pedofili danno messa ogni giorno.” Spero che la risposta sia: “E questi pazzi da dove escono? Mo me li vado ad ascoltare per vedere quanto sono blasfemi!” e blasfemi lo sono, a partire dal nome che hanno scelto per presentarsi: loro sono i Preti Pedofili e suonano con tanto di tunica sacerdotale e colletto bianco. Insomma promettono bene anche senza ascoltarli direi. Ora, dopo Golem, Faust e lo Split con i Nastenka Aspetta un Altro, ci presentano L’Age D’Or, il primo vero full-lenght composto da dieci tracce liberamente ispirate al cortometraggio surrealista Un Chien Andalou (1929) di Luis Buñuel e Salvador Dalì. Il punto centrale di tutto l’album non è quindi quello di spiegare o trovare una logica nel degrado e nella solitudine che caratterizza l’odierna società occiedentale, ma di fotografare e creare suggestione attraverso “Il Male” intrinseco della società stessa: ingiusta ed atroce.

Quindi iniziamo subito con un tocco di Country sintetizzato in “Iride”, un brano che si conclude con un lungo sermone sulla sensibilità della vita e sull’importanza della libertà individuale, poi c’é “Mavis” con il suo materialismo alienante e chitarre ripetitive a farla da padrone, a seguire c’è “Self Made Man”, una traccia gridata, parlata, effettata ed accompagnata da un beat complesso e mai ripetitivo, poi è la volta di “Cancro”, brano che si sviluppa da un intro di batteria per poi sfociare in grida, distorsioni ed un racconto malvagio, concludendosi infine con un rumore industriale. Dalla quarta traccia in poi si cambia registro: si entra in un mondo più melodico e Rock (che mantiene comunque la sua particolarità blasfema attraverso un cantato simile ai cori cristiani) in “Dies Irae”, si aggiunge invece una voce diabolica che si esprime in mezzo a una batteria sincopata, stralci di calma melodica, synth disturbanti e chitarre distorte o con delay in “C’est Femme l’Autre Nom de Dieu” e “Vio-lento”, mentre segue un suono più elettronico in “Begotten” ed una drum-machine in “Primo Sangue”. L’ultima traccia, “Hate”, si serve di sonorità più lente rispetto a tutti gli altri brani, concludendo dunque con un’ottima scelta sonora che descrive quell’odio profondo che pian piano si sviluppa dentro un essere umano prendendone infine il completo possesso.

Il suono dei Preti Pedofili è come un palazzo a quattro piani: il pianterreno sono i testi (importanti ed essenziali per la struttura), il primo piano è la batteria (strutturata, piena di variazioni, e complessa come la vita che si sviluppa dentro ogni appartamento), il secondo piano è il basso (dritto come un corridoio), ed infine l’ultimo piano è la chitarra (effettata e spesso eterea come il vento, la pioggia, la luce e l’ombra che penetrano da una finestra).

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