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The Spezials – Crazy Gravity

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È la seconda “volta” per i milanesi The Spezials, ed è un piccolo registrato da emozioni spigliate che,  davanti vorreste condividere con tutti e  che invece ve lo terreste tutto per voi, gelosi della loro attitudine grattugiante e diretta che sforma un ascolto imprevisto, o che può correre il rischio – tranquillo –  di essere incredibilmente ostaggio di una sensibilità FM Alternative oltre i limiti; Crazy Gravity è la fissazione riuscita di suonare sia con certe spiritualità ispiratrici che con l’audacia amplificata della creatività, fuori comunque dagli ordini costituiti del piacere modaiolo a tutti i costi.

Registrate in crowdfunding su piattaforma musicraiser, le dieci tracce del disco, se ascoltate in sequenza determinante, sono una perfetta e definita sintesi di tutte le bipolarità umorali dell’ultima generazione, una scaletta che alterna la dolcezza di una ballata ventilata “Two Girls” e il cozzo del rock nudo e crudo della titletrack, un’onda calda dalla personalità multipla che stringe il microfono dell’ascolto e spiazza nella sua sincera coralità miscelata; pulito da tutte quelle banalità che si annidano come germi a presa rapida in milioni di produzioni underground, Crazy Gravity esprime davvero bella musica, quelle tonalità tutte inglesi di controbattere la noia con infinitesimali meraviglie senza demoni o altre astrusità rabbiose. Belle chitarre d’assalto dolce, una voce che compete sul ritmo sempre di corsa e quella liberazione sonora che si paragona  con esuberanze Arctic Monkeys, qualcosa di sottofondo della Leeds punkettara d’antan “Futuristic Horse”, “Morning Dead”, poi tutto quello che è in più e una rivelazione spiritata da tenere stretta e puntarci sopra.
Disco “birichino” e fruibilissimo, un suono totale che mescola ironia e mood frizzante, impasta e modella come plastilina il suo argento vivo e la sua concreta effervescenza, che racconta le sue storie col fiatone “Shimbone” e con le stramberie disco – danzereccie che provano a riscrivere una stringa di tempo che fa piacere – risentirla in vocoder – tra una cosa e l’altra “Normal”.

La guida  all’ascolto è come una linea schizzata di angoli elettrificati, il piacere – una volta identificata tale linea – è una scarica di adrenalina che precede lo schianto con una soluzione musicale stupendamente cool.

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Huge Molasses Tank Explodes – Bicephalous

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Gli Huge Molasses Tank Explodes sono un trio di Milano, formato da Gabriele Arnolfo (batteria, voce) Fabrizio De Felice (chitarra, voce) e Luca Sacanna (basso, voce). La storia del nome arriva da lontano, più precisamente da un articolo del Boston Post del 1919 in cui si parla dell’enorme serbatoio esploso in quell’anno a Boston, e soprannominato appunto il “Disastro Della Melassa”. Registrato alla Sauna di Varese da Andrea Caielli in presa diretta, Bicephalous combina distorsioni alla Dinosaur Jr con melodie scarne e nervose di band come Built to Spill e Modest Mouse.L’approccio live utilizzato per realizzare quest’album è stata sicuramente una scelta azzeccata per riprendere e mantenere quella forza che solo la “musica d’insieme” riesce a trasmettere. Grazie a ciò si sono riuscite a cogliere quelle sfumature d’intesa tra musicisti, cosa che purtroppo viene a mancare con un approccio in studio convenzionale e attraverso un overdubbing eccessivo. Quindi bravi e bravo anche Andrea Caielli che ha mantenuto nel mixaggio il suono originale della band.

Il disco si apre con “Assurances”, traccia dai tratti Punk Rock e caratterizzata da un assolo di chitarra al centro del brano. Belli i cambi di tempo, un po’ meno la pronuncia inglese. Il viaggio musicale continua con “Foiled” e “A Maze”, quest’ultima da me maggiormente apprezzata soprattutto per l’accostamento batteria/voce particolarmente azzeccato. Lo spirito live inizia a sentirsi prepotente con “Enclosures”, un brano parlato piuttosto che cantato, che lascia spazio a Gabriele, Luca e Fabrizio di esprimersi al meglio attraverso i loro strumenti. Meno Punk ma più Indie sporco è “K.Y.C.”, ottimo il basso e gli arpeggi di chitarra in “Realeyes”, ed invece Hardcore quanto basta ma completa anche di stacchi musicali che lasciano respirare l’ascoltatore, è la penultima traccia “Uneven”. Qui mi hanno stupito, non posso che dire bravi! “The Deceit” è uno di quei brani che ti immagini di stare ascoltando mentre guidi e ti godi il panorama. Una traccia apparentemente calma e d’accompagnamento, ma solo apparentemente, infatti il finale incazzoso e pestato non tarda ad arrivare, chiudendo il disco in bellezza.

Gli Huge Molasses Tank Explodes mi sono piaciuti, non posso dire di no, però avrei preferito un po’ più di punch, un po’ più di cattiveria, un po’ più… insomma mancano di qualcosa e forse quel qualcosa non sta tanto negli arrangiamenti ma nel confezionamento del disco, in parole povere avrei fatto masterizzare il disco fuori dai confini italiani, magari in California. Certo sono la prima a comprendere che i costi di produzione non sempre sono low-cost, però proprio perché trovo che questa band abbia delle ottime potenzialità, avrei investito un po’ di più nella realizzazione sonora. Un consiglio spassionato per una loro spero futura produzione.

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Tricky – False Idols

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L’uscita del nuovo lavoro di Tricky, False Idols, è prevista a fine mese e c’è già chi dice che questo lavoro merita la sufficienza. È chiaro che non hanno colto le sfumature. Ma andiamo con calma, piano piano. False Idols è un lavoro che arriva a ridosso di Knowle West Boy (2008) e Mixed Race (2010) dopo alcuni anni di silenzio e un paio d’album non proprio riuscitissimi. Nei precedenti ultimi lavori citati Adrian Thaws, alias Tricky, ha tentato di dare alla sua musica un ritmo più “orecchiabile” riuscendo in Knowle West Boy, album bellissimo dalla prima all’ultima traccia, e perdendosi in Mixed Race, album misto, con alti e bassi, in cui riaffiora un ritorno alle origini con suoni cupi e voce bassa, bisbigliata. False Idols non è l’album della maturità, né del cambiamento ma è un lavoro che cerca di tessere la tela degli anni che passano, tra alti e bassi, nel tentativo affermare una volta per tutte la propria identità musicale. È noto a tutti che all’inizio della sua carriera, primi anni ’90, Tricky ha, con successo, dato il via al Trip Hop (insieme a Massive Attack e Portishead) genere che ne miscelava altri, dall’Hip Pop al Dub passando per la Musica Elettronica e il Rock psichedelico. L’inizio dei ’90 rappresenta l’apice della sua carriera che andrà affievolendosi successivamente con dei lavori che il pubblico non recepì proprio bene come Angels With Dirty Faces e Juxtapose.

L’album si avvale della stupenda voce di Francesca Belmonte che con il suo contributo impreziosisce il lavoro di Tricky. Tra i brani spiccano “NothingMatters”, “Bonnie&Clyde”, “Nothing’s Changed”, “Chinese Interlude” e “Doesit”. Tutti brani ritmati che ripercorrono le varie esperienze sonore di questo problematico artista.

In un certo senso con questo lavoro è come se cercasse di far quadrare il cerchio mixando nuovi e vecchi concepts affermando con forza una e una sola cosa: Tricky è Tricky e non ha voglia  di cambiare, “Nothing’s Changed”, di seguire falsi miti accontentandosi del proprio pubblico, della propria gente e di chi fondamentalmente lo ama per ciò che è.

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“Diamanti Vintage” Pixies – Surfer Rosa

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Senza i Pixies noi Nirvana non saremmo mai esistiti, è la pura verità. Questo è quanto affermato da Kurt Kobain in una lontana intervista riferendosi specialmente a questo album dell’88, Surfer Rosa, l’album ufficiale che Black Francis, Joey Santiago, Kim Deal e David Lovering vollero a tutti i costi per fare sentire l’emblematico manifesto sonoro del loro stile, una eccezionale dinamite di Power-Pop, Garage e stimmate Hardcore, in modo di inibire  le altre garage band al loro passaggio. E la cosa riuscì alla perfezione, tanto che il magico Steve Albini lo produsse e lo lanciò nel mondo come un frisbee impazzito.

Sebbene solo un primo disco di carriera, i Pixies già esprimevano l’autentica folgorazione e una irrefrenabile urgenza di liberazione di andare oltre e contro, ed il loro tutto sommato Garage-Rock rodeva sotto sotto le irruenze. i riff e certe mutazioni psichedeliche di una caratterizzazione abbastanza spavalda quanto alternativa per l’epoca, fatto sta che questo disco arrivò alle orecchie di mezzo mondo, mondo che in pochissimo tempo li innalzò a “totem” di una nuova definizione musicale, ovvero i paladini del Noise-Pop. Una tracklist dalle infinite congetture, mille angolazioni d’ascolto e altrettante fusioni soniche, tredici umori elettrici brillanti e grezzi nel contempo che catturano anche- e soprattutto – per la loro anfetaminica pulsione che si  avvinghia tra melodie ed esplosioni.

La voce della Deal media dolcemente con gli amplificatori e pedaliere focose “Gigantic”, “River Euphrates”, mentre il resto della band coglie i campioni dettagliati di certi Pere Ubu, la nevrosi degli Stooges e Violent Femmes, “Bone Machine”, “Broken Face”, “Tony’s Theme” e senza farsi mancare uno spiraglio allucinato punkyes “Vamos”che stordisce per il nonsense che carica. Sconfinato successo ed un nuovo lessico amplificato, bambagia di fuoco per le fun-up  radiofoniche dei college Usa e un mix estemporaneo di lucidità, follia, alienazione e forte senso dell’humor che si impadronirà del globo rock lasciandoci sopra bei ricordi.

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Alley – Tales From The Pizzeria

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Perché Sanremo è Sanremo. Pararà! Cantava così il jingle del famoso Festival della Canzone Italiana. Il Concorso di Rockambula che ha appena decretato il suo vincitore però si chiama AltrocheSanRemo Volume2 e, per rimanere fedele al suo titolo, un jingle non ce l’ha. Possiede tuttavia una vera e propria colonna sonora: il disco del vincitore del concorso. Nel caso di questa seconda edizione il disco in questione è Tales From The Pizzeria degli Alley. Prima di procedere con l’ascolto, mi soffermo un attimo a pensare al titolo e cerco di immaginare cosa potrei mai aspettarmi da un disco che porta questo nome. Cosa saranno mai queste Storie Dalla Pizzeria? E soprattutto, ci sarà mai il modo di raccontarsi delle storie in una pizzeria considerando il rumore di piatti e la sovrapposizione di voci che caratterizza questo genere di locale? Sarà mica un disco fatto di rumore e nulla più?

E invece no. Tales From The Pizzeria comincia sottovoce, con un pezzo che si chiama “Welcome Back”, una canzone di benvenuto per  tutti, per chi suona e per chi ascolta. Alla prima chitarra, che con coraggio spezza il silenzio, si unisce il suono di tutti gli altri strumenti. Per ultima arriva la voce, suadente e decisa, a chiudere il cerchio. Finalmente posso rilassare i muscoli del volto racchiusi in un espressione di curiosità ed abbandonarmi all’ascolto. Non sarà un’accozzaglia di suoni, ma sarà Musica. Comincia a piacermi questa pizzeria. Il disco procede, tra una passeggiata (“Promenade”) e una corsa disperata (“Desperate Ride”), tra chitarre distorte in puro stile anni ’90 e un ritmo sostenuto: il sound della band è ormai chiaro, talmente chiaro che viene da chiedersi se le storie siano davvero finite tutte lì oppure o se ci sia dell’altro da raccontare.

Neanche il tempo di porsi la domanda che arrivano canzoni come “Madame Anvil”, “Brothers and Sisters” e “Joy” a cambiare le carte in tavola; il suono si arricchisce di nuovi elementi, le chitarre perdono le loro distorsioni e l’intero pezzo diventa più melodico. “Joy” ad esempio vanta anche un’introduzione che richiama un vero e proprio organo stile cattedrale. Dopo l’esplosiva “Super Cosmic Power Punch” ci si avvia verso la fine dell’ascolto. Il ritmo allenta la presa e tutto diventa più calmo, così come all’inizio del disco. Insieme a “Giona” anche la chitarra si spegne piano, le storie sono ormai finite. “Bordeaux”, bonus track del disco, è già un capitolo a parte.

Si chiamano Alley, che significa vicolo. Ma più che un vicolo la loro musica mi è sembrata una strada bella larga che fa viaggiare sicuri; una di quelle strade lunghe, che non vedono la loro fine, e sanno sempre dove vogliono arrivare.

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Alessandro Bevivino – I Corti di Verbo Nero Original Sound Track Scene Eliminate

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Un personaggio tutto da scoprire Alessandro Bevivino. Sempre pronto a stupirci con la sua carica e la sua energia artistica e propositiva. Anche in questo I Corti di Verbo Nero Original Sound Track Scene Eliminate fa praticamente tutto da solo. Testi, musiche, produzione e artwork. Più che un artista un vero e proprio arsenale d’ispirazione per lo più capace di non prendersi mai troppo sul serio, scherzando e dissacrando con intelligenza tutto il mondo che si è creato intorno. Questo disco non disco come lui stesso lo definisce è solo l’ultima (crediamo, perché non so cosa stia ancora combinando) fatica che in realtà rappresenta un modo per divertirsi e sfuggire dalla realtà. Non è un disco Metal, Western, Southern, Punk afferma Bevivino. Forse è Stoner, forse Folk Rock, forse Blues, forse Rock sperimentale aggiungo io. A dirla tutta è tante cose eppure ha un sound estremamente vintage, classico e affascinante. Dieci pezzi che mi sfido e vi invito a scoprire uno a uno, incespicando magari nelle sue follie, nei suoi richiami, nelle sue oscure profondità d’animo. Bevivino ondeggia con la sua chitarra in una danza calda come l’inferno, sputando sabbie e fumi di rituali indigeni nordamericani (“Fuga di Zakkaria W. Da Broken Pub City”) oppure facendosi trascinare in meandri rappeggianti (“Out of Control”) o ancora sciogliendosi in vortici lisergici e bollenti (“Preludio”, “I’Ma Shit Blues”), perdendosi in contorte intromissioni Glitch ed Experimental Rock (“Western Session”, “Verbo Nero”, “Minimal Cross In ‘Auge”) o accennando ritmiche quasi Punk (“Luisa And Bomber”). La sua voce riesce ad adattarsi perfettamente al ritmo che contraddistingue i pezzi, andando a convergere in timbriche stile Piero Pelù, ma anche Eddie Vedder se non addirittura Garbo (per non andare a scomodare i nomi più altisonanti della Western music a stelle e strisce). Per Bevivino un disco che è quasi solo un gioco. Ascoltatelo e capirete che ancora una volta non sta scherzando perché c’è tanta qualità anche in questi ventidue minuti di scene tagliate, compendio necessario a un film fenomenale.

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Nimby – Not in my Back Yard

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Completamente autoprodotto, Not in my Back Yard porta con se un’ottima produzione, che riesce a mantenere quell’impatto e quella vena live grezza anche all’interno di un impianto stereo. Non a caso infatti è stato registrato e mixato dal produttore artistico Fabio Magistrali (Afterhours, One Dimensional Man)presso il Parco Museo Laboratorio dell’artista internazionale Nik Spatari, col quale è nata una collaborazione per la definizione dell’artwork del disco. I Nimby sono Tommaso La Vecchia (voce e polistrumentista), Aldo Ferrara e Francesco La Vecchia (chitarre), Gianluca Fulciniti (batteria), Stefano Lo Iacono (basso), Raffaele De Carlo (flauto e tastiere) e producono del sano e grezzo Alternative Rock contaminato da Psichedelia misto Grunge, con la giusta cattiveria pestata e momenti melodici nostalgici.

Ma parliamo un po’ di queste dieci tracce, che si aprono con un quieto synth a introdurre “This Lines Among Them”, brano che parte prepotente con una batteria tutta tom e rullante e che segna fin da subito il timbro sporco della band, ricordando però attraverso la melodica voce quella voglia di riprendere le sonorità del Rock sporco americano di fine anni ’80. Ancora rumore con “Day Hospital” che aggiunge distorsioni vocali al mix sonoro, mentre con la successiva “Sleeping” le atmosfere si fanno più pacate ed elettroniche. Grezza e potente è invece “N.I.M.B.Y.”, traccia che ricordando il nome della band e dell’omonimo album fa presumere sia quella che maggiormente rappresenti lo spirito del loro essere musicale. Tra una drum pestata a modi Pearl Jam, un flauto dalle sembianze celtiche e degli intramezzi musicali nudi e crudi, le successive “Church of Reason” e “Cinema” escono vincitrici tra tutte le tracce, regalando alle orecchie un’ottima miscela sonora complessiva. Chiude il cerchio la pacata e sperimentale “Rubber Moon” in cui si fondono suoni noise, flauto, piatti, tamburi e chitarra acustica, come se Ia band abbia voluto dire all’ascoltatore: “Ok, dopo questo lungo viaggio sonoro sei giunto al capolinea, ora riposati”, e io ora mi congedo e spengo lo stereo. Amen.

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Aedi – Ha Ta Ka Pa

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Una delle più promettenti e deliziose realtà della penisola viene da San Severino Marche e risponde al nome di Aedi. A distanza di circa tre anni dall’opera prima Aedi Met Heidi, esce proprio nel 2013 il loro lavoro più ambizioso, Ha Ta Ka Pa, realizzato sotto l’ala protettrice di Alexander Hacke, basso, chitarra e voce nei mitici Einsturzende Neubauten. Tale sodalizio, si mostrerà evidente nell’evoluzione del sound della band che, messe da parte le atmosfere pastorali degli esordi, acquista un’energia e una forza eccezionale, rispetto al recente passato.
Ritmiche quasi Math si alternano a sferzate chitarristiche stile Built To Spill nel brano d’apertura “Animale”, certamente uno dei punti più alti dell’opera nel suo miscelare quel Rock alternativo anni 90 a potenza quasi crossover senza disdegnare momenti Punk Cabaret alla Dresden Dolls (vedi anche la parte che anticipa la chiusura di “Fohn”) quando il piano delirante insegue la chitarra, sullo sfondo di una voce angelica e demoniaca allo stesso tempo.

La voce di Celeste Carboni, melodiosa, anche quando alza i toni in vocalizzi mefistofelici che ricordano Diamanda Galas (“Animale”, “Idea”) riesce a essere leggera, morbida ed eterea mostrando non solo la sua timbrica affascinante ma anche discrete capacità e qualità canore.
L’importanza di Alexander Hacke, nello sviluppo del suono nuovo degli Aedi diventa palese negli episodi in cui le ritmiche si fanno tribali e assillanti e le chitarre distorte, sferzanti e taglienti (“Idea”).
I legami col recente passato, fatto di avanguardie folk e rock minimale, della band marchigiana non mancano (“Rabbit On The Road”), cosi come si possono intravedere strizzate d’occhio alla scena Indie più attuale (di scuola Arcade Fire) in pezzi come “Fohn”, brano gradevole, vertiginoso e trascinante all’ascolto ma senza il piglio innovativo che ci ha fatto apprezzare gli Aedi passati. Certamente, se preso come un intramezzo necessario per dare slancio a Ha Ta Ka Pa, è un pezzo più che riuscito, ma le cose migliori sono altre. Discorso simile per “Nero” che invece sembra riprendere le sonorità cupe e introspettive, specie nella sezione ritmica, degli ultimi Radiohead e per “Prayer Of Wind”, che tuttavia ricalca stilemi più vicini al Dream Pop (anche se la parte corale nel finale non può non far pensare ai canadesi già citati) mantenendo intatta quella vena ancestrale che pare fare la fortuna dei marchigiani. Non è quindi un semplice divertissement quest’avvicinamento alla scena Indie ma lascia lo spiraglio per una futura possibile nuova evoluzione, fortemente rischiosa da un punto di vista artistico ma che può certamente aiutare ad ampliare la fetta di pubblico interessata al sound Aedi. C’è da dire che, soprattutto grazie allo stile canoro bucolico di Celeste Carboni, la popolarizzazione del loro sound non sembra possa mai trasformarsi in mera banalizzazione, ma sarà tuttavia il futuro a darci tutte le risposte in merito.

Dopo le note leggere e dreamy di “Tomasz” arriviamo alla parte più interessante dell’album, che inizia con la spettacolare “Yaca”, fatta di chitarre acidissime, tribalismi martellanti e atmosfere lisergiche anni sessanta/settanta. La voce lucente di Celeste vibra in un’apparente monotonia ipnotica, quasi a ricordare Grace Slick e i Jefferson Airplane di “White Rabbit”. La chiusura è affidata a “The Sound of Death”, litania languida in crescendo di quasi solo voci (in questo caso Celeste non è sola), con accompagnamento chitarristico Slow/Sadcore e velatamente folkeggiante che diventa sempre più folle, distorto, pazzoide e frastornante a mano a mano che l’enfasi vocale aumenta la sua intensità. Il modo migliore per chiudere un disco che mantiene le promesse fatte cinque anni fa e che lascia nuove speranze per i talenti del nostro paese. Un disco assolutamente da ascoltare e una band da non lasciarsi sfuggire.

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Over The Edge – Held Breath

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I campani Over The Edge sono una delle realtà più interessanti della scena alternative per quanto concerne il metal condiviso con l’urgenza espressiva dell’hc melodico, una proficua congiunzione di cromaticità alla Guano Apes con le ansie spiazzanti delle L7, che in questo bollente Hedl Breath rispondono con potenti suggestioni acide e distorte che chiudono il respiro.
Quattro esasperazioni soniche che hanno nella voce di Jen Blossom l’illustrazione ossessiva della poetica malinconica e super elettrificata della loro garanzia di assorbimento, un viaggio sgolato e stonerizzato che ha nella sua densissima spirale una gelida potenza che infetta di maledizioni e oscurità una tracklist al fulmicotone, una serie di percorsi minati, emotivi e subdoli; sembrano appena usciti dal di sotto di un martello pneumatico, disegnano una strada senza ritorno verso le articolazioni a cingolo di un rock che scartavetra i timpani e lacera l’epidermide, eppure la brutalità abita da altre parti, ma il sentore di un qualcosa che alberga sotto sotto destabilizza l’ascolto, lo manipola in un bellissimo stato di grazia che ti fa rimettere su il disco all’infinito, te lo fa respirare fin dentro le sue fumigazioni sulfuree.

Undici mine innescate che forgiano un’alchimia a fusione, undici tracce che rimangono in circolo anche dopo ore dal loro turbolento passaggio, ma non solo lacerazione, anche quella dolcezza stordita alla Sandra Nasic che in “A Deep Breath” fa credere che la femminilità si riporti in angolazioni congrue e passionevoli,  ma è un feroce abbaglio, un’illusione da pagare cara quando si intercettano le armi a taglio sonoro di “Full Of Emptiness”, “Restless” o “7×7 Theory”, mentre la finale e falsa civettuola verve che gira indisturbata in “I’m Searching Myself Under my Bed” graffia in una autenticità avvincente che distacca quasi tutto il resto.
Al primo ascolto questa maestà infusa di pedaliere ti mozza il fiato, poi ti ferisce con la bellezza mostruosa del suo ghigno e ti dona la certezza assoluta di avere nelle orecchie un disco che brucia…e non c’è più nulla da dire! Da avere come l’aria che si respira.

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Absolut Red – A supposedly Fun Thing We’ll Probably Do Again

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“Non sarò solo una copia se saprò essere te” cantava il leader dei braidesi Mambassa qualche anno fa e io devo ancora capire come si possa applicare questa frase agli Absolut Red. Appropriarsi di qualcosa attraverso l’imitazione e saperlo fare proprio non è un fatto semplice in ambito musicale. Si rischia sempre di essere tacciati di scarsa originalità, di già sentito. E la band di Sasso Marconi effettivamente suona come già sentito fin dalla prima traccia, “Embriology”, in cui i riferimenti a un certo alternative rock americano dei primi Duemila si delineano subito attraverso l’uso di chitarre chiare e cristalline che eseguono melodie composte e raffinate. “Occasion” apre con un riff semplice ma incisivo, dal sapore molto Nineties, che lascia spazio a brevi incisi strumentali che dialogano creando un tappeto ideale a una voce che spesso si lascia andare a falsetti sullo stile dei Muse di Showbiz (non di quella porcata tamarra che sono diventati adesso). E già a questo punto si capisce che gli Absolut Red prendono a piene mani dagli Strokes. Ma tanto. Anche in “A Love Story From Outer Space”, una ballata con un momento chitarristico delicatamente blues, le agogiche e il timbro vocale ricordano l’uso della voce di Julian Casablancas. Mio dio, in Italia c’è qualcuno che sa suonare così: è davvero entusiasmante rendersi conto che è possibile anche dalle nostre parti fare un rock gustoso, serio, meditato a livello fonico ma non necessariamente ingessato, politico, incazzato.

Ma in “90’s Call”, quando ci si rende conto che gli Absolut Red non muoveranno passi in superamento della loro primaria ispirazione, quasi viene da chiedersi perchè non ascoltare gli originali e farla finita. “Sunday” mostra la bravura tecnica sopratutto della sezione ritmica, con un basso quasi didascalico che esegue passaggi tecnicamente didattici, così come emerge in “Life in Black and White”. “Bathroom Wishlist” è scanzonata e apparentemente leggera, ben sostenuta ritimicamente, al punto di sembrare, a tratti, un surf rallentato. “African Savannah” ha stacchi netti e aperture di gusto, ma, ancora un volta mi chiedo cosa mi stiano lasciando questi ragazzi. Probabilmente tanta voglia di finire di scrivere e far partire “I’ll try anything once”.
A Supposedly Fun Thing We’ll Probably Do Again è un esordio felicissimo per una giovane band nostrana, a cui non posso che augurare, però, di riuscire a rintracciare un sound molto più personale e di elaborare criteri compositivi che, pur guardando al panorama internazionale, li allontanino dall’essere semplicemente copie e rendano il giusto merito alla bravura tecnica degli Absolut Red.

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Arabeski Rock – Il Viaggio EP

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Finalmente, dopo tanto, sto finendo la pila di dischi che ho sulla mia scrivania. Lo so me la sto cercando ma ero a limite. Ascoltare tutto, dare il giusto tempo all’ascolto e  aver il capo redattore che pressa è sempre più complicato in un mercato musicale in cui l’indipendenza diventa un fattore di nodi, di connessioni, di riverbero nel web. Ma questi sono cazzi miei e ora non è tempo di soffermarmi, non è questo lo spazio. Scarto il prossimo EP, per le mani me ne capita uno che dall’aspetto ha poco a vedere con il rock!!! C’è una rovina in mezzo al deserto con un uomo in abiti tradizionali mediorientali che passeggia. Il solito superficiale! Unisco gli elementi che ho: un deserto, un arabo, un titolo, Il Viaggio e il nome della band Arabeski Rock. Potrebbe uscirci qualcosa di interessante, tipo mix di strumenti arabi miscelati ai classici strumenti rock o che ne so il solito bongo con qualche chitarra araba. Chi lo sa?! Mi ricordo ancora qualche anno fa quando lavoravo in un ristorante di cucina araba dove la proprietaria intratteneva il pubblico con concertino live e spettacoli di danza del ventre. Musica piena di vitalità ed energia che nella sua accezione più tradizionale richiama ad atmosfere riscaldate dal sole cocente che incendia la sabbia.Butto su l’album, vediamo che ci racconta. Il primo giro del primo pezzo, “Cargo”,  del primo album degli Arabeski non poteva non cominciare con un flauto ney, il tipico suono medio orientale che ti porta subito sul tappeto di aladin e ti fa pensare al deserto, ai cammelli, alle oasi. E bongo, anche se penso si chiami in un altro modo, d’accompagnamento che lascia spazio pian piano alla classica chitarra araba l’oud. Finora poco rock e molta tradizione araba. Ma di sottofondo si sente una chitarra elettrica che accenna ad un accompagnamento. Fiuuuù. Ma è ancora poco non riesco a sentire il rock. Forse è presto, sono solo alla prima track e molto probabilmente i componenti del gruppo saranno misti e avranno voluto sottolineare con la prima traccia il loro amore per la terra d’origine. Ma sono mie congetture, vado avanti. Non voglio usare neanche internet per saperne di più. Questo sarà un ascolto intimo. La seconda traccia, “Gnawa”, scivola anche lei nelle sonorità tradizionali della musica araba. E dal titolo, “Gnawa”. Chissà cos’è?! Aspetterò la fine per andarlo a cercare. A me serve rock! Dov’è il rock?! Non che per forza debba ascoltare rock o io abbia dei pregiudizi si chiamano loro Arabeski Rock e io adesso devo trovarlo. Ed è quello che sto cercando ora. Avanti. Prossimo pezzo “Le 2 Lune” e sorpresa intro alla Frank Zappa, a tratti psichedelica, progressive che sfocia in note orientali in un perfetto mood d’altri tempi. E qui il rock si sente!!! Sicuramente l’album si avvale delle collaborazione di molti artisti vista la quantità di strumenti che sto ascoltando nei vari pezzi.

La quinta track, “Tramonto nel deserto”ha un’intro che appunto ci fa viaggiare. Niente di più azzeccato nel titolo. “Lost in The Desert” è una song che soffia dal deserto e ti trasporta. E’ questo il potere degli Arabeski Rock. Lasciatevi trasportare tra le dune, tra le sonorità orientali e chitarre rock. L’album si chiude con tre pezzi, “Introspezione”, “Verso Chernobyl” e “Locanda” che concludono questo viaggio. Canzoni di riflessione. Come in ogni viaggio si torna verso casa e si pensa a ciò che è stato e a ciò che sta cambiando. Bello. Sicuramente un album diverso e coraggioso negli intenti. Le mie preferite “Gnawa” e “Le 2 Lune” ma quest’album merita di essere ascoltato lasciandosi andare senza pregiudizi perché quello che ci racconta è il sapore di una terra antica a noi distante a noi vicina. Però, forse, un po’ di rock inteso nell’eccezione più classica del termine manca ma vi posso assicurare che questo è un viaggio originale ed ambizioso.

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Ottovolante – La Battaglia Delle Mille Lepri

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Sono sempre felice come un bambino quando mi arrivano dischi come questo: scoprire che ci sono ancora band che si divertono, che non fanno il compitino appoggiandosi a ciò che veniva prima di loro, che non danno per scontato che una canzone debba avere questo, fare quest’altro, dire quell’altra cosa ancora… io so che esistono tanti gruppi così, solo che spesso me lo dimentico, e a La Battaglia Delle Mille Lepri deve essere riconosciuto almeno il merito di avermelo ricordato.
Scritto, composto ed eseguito dagli Ottovolante (al secolo Gianni Mannariti e Denial Marino), il disco si snoda in 13 tracce di rock divertito e mobile, tra echi naif (“Balliamo Anche in Soggiorno”, che però non mi esalta più di tanto) fino a piccoli capolavori d’atmosfera e melodia (“Nota Panoramica”, che mi riporta alla mente i Meganoidi più rock, con un arrangiamento di fiati e chitarre molto azzeccato).
La Battaglia Delle Mille Lepri è cantato in italiano, con una voce che a tratti mi ricorda Manuel Agnelli – e prima che gridiate alla bestemmia, specifico: come utilizzo e valore, non tanto in tecnica o capacità. I testi si indovinano interessanti, in bilico tra litania e filastrocca, ma emergono poco nel marasma, sia per come sono scritti, sia per come sono cantati (esclusi un paio di episodi, come la già citata “Nota Panoramica”, o la rilassata “Adesso Torno, tra pacatezza da Ministri – la voce e un arrangiamento di chitarre e archi fatto sottovoce, o la toccata-e-fuga acustica de “La Folla).

Il bello de La Battaglia Delle Mille Lepri è anche questo: la quantità di riflessi che s’intravedono tra le sue pieghe. “Francesca non vuole sentire” si porta dentro un’ambientazione rock aperta alla Brahaman,“La folla”suona acustica e viscerale, vedo un mezzo Bennato in Caro dittatore (1972), gli Afterhours fanno capolino qua e là tra riff di chitarra ossessivi e voci acrobatiche (“La Mente Mente e il Mondo è Pieno di Luoghi Della Mente”) . Devo ammettere che rimango più incollato agli Ottovolante negli episodi meno aggressivi (“Nota Panoramica”, “Adesso Torno”): sarà perché gli riesce meglio o sarà perché sono meno appoggiati al già sentito? Fate una prova e sappiatemi dire.
La Battaglia Delle Mille Lepri è bello perché è vario. È un disco divertente (e ciò non vuol dire che i pezzi siano tutti allegri e spensierati). È multiplo, è pieno di arrangiamenti diversi, un parco strumenti interessante (batteria, rototom, pentole, cocci in cucina, cucchiai forchette e cucchiaini, synth, kazoo, basso, chitarra elettrica, classica e acustica, pianoforte, trombette, e non vado avanti perché dal booklet leggo cose tipo vocine tupatapatapatapa o auanasheps e ho come l’impressione che gli Ottovolante mi stiano leggermente prendendo per il culo). Tre brani su tredici sono skit sotto i dieci secondi (se hanno un significato recondito, non riesco ad afferrarlo). Rimangono dieci tracce, e ne vale comunque la pena.
A qualcuno La Battaglia Delle Mille Lepri non piacerà perché è troppo semplice, troppo terra-terra, troppo insensato. Più per partito preso che per altro.
E vabbè, ce ne faremo una ragione.

https://www.youtube.com/watch?v=tlCWsLDttM4

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