La lunga strada che conduce al futuro – Intervista a Gianluca Gozzi di TOdays

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In vista della prossima edizione, dal 26 al 28 agosto, ho fatto quattro chiacchiere con l’ideatore e direttore artistico del festival torinese.

Inizia qualche decennio fa la storia che lega Gianluca Gozzi a Barriera di Milano, area post-industriale della periferia nord di Torino che sin dalla prima edizione ospita il TOdays Festival.
«Erano gli anni 90, studiavo all’università e in cerca di una sala prove in cui suonare con il mio gruppo scoprii un centro di quartiere, dove i giovani musicisti convivevano serenamente con gli anziani che giocavano a bocce. Mi misi a fare il volontario lì. Suonavamo ma imparavamo anche a montare e smontare strumentazione. Quel posto ci permise di capire cosa vuol dire fondare un’associazione e organizzare concerti. Iniziammo a fare cose che diversamente non avremmo mai fatto, a sviluppare idee e a costruirci una vita diversa. Lo battezzammo sPAZIO211».

È qui che sin dal 2015 si colloca il cuore della rassegna. Negli anni il main stage allestito a sPAZIO211 ha visto alternarsi artisti del calibro di PJ Harvey, Jarvis Cocker e The Jesus and Mary Chain, tanto per citarne alcuni. Ma è solo il punto di partenza da cui le energie si irradiano, perché il progetto TOdays nasce con l’intento di coinvolgere sin da subito l’intero quartiere. «Fare un festival non significa solo allestire un palco e farci salire un artista famoso con un paio di gruppi sconosciuti a supporto. Si tratta di concepire uno spazio più complesso, dove le persone possano scegliere. Questo a TOdays è accaduto sin dalla prima edizione: abbiamo trasformato un’intera area ex industriale in un luogo in cui accadevano tante cose in contemporanea». E così, giunto a Torino per godersi gli Interpol in tour con El Pintor e l’unica data italiana dei TV On The Radio, il pubblico finisce per scoprire luoghi inediti e inaspettati, come l’ex Cimitero di S. Pietro in Vincoli e i Docks Dora, angoli di città non contemplati dalle mappe turistiche ma ricchi di storia recente e di potenzialità.

Docks Dora – 2015 © Francesco D’Abbicco
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Periferia, sì, ma solo da un punto di vista puramente geografico. Le energie culturali c’erano già, andavano solo convogliate e valorizzate. L’occasione è data dal Comune di Torino che, dopo l’esperienza decennale del Traffic Festival dal 2004 al 2014, decide che è il momento di rinnovare un po’ la proposta nel cartellone degli eventi estivi, lasciando ampio margine a chi di eventi culturali si occupa tutto l’anno. «Per una volta, invece di calare dall’alto un progetto preconfezionato su un territorio, in maniera aliena, con spirito illuminato l’amministrazione comunale ha dato la possibilità a persone, associazioni e collettivi artistici di quel territorio di mettersi in gioco e proporre la propria idea».

Si passa quindi da una rassegna ad ingresso gratuito, in pieno centro città e articolata in più serate lungo tutto il mese di luglio, a un progetto diametralmente opposto, a cui in Italia sì è decisamente meno avvezzi: «un’esperienza immersiva di tre giorni consecutivi, dal primo pomeriggio a notte fonda, con un pubblico protagonista e consapevole», ad agosto – quando la città si svuota e anche la programmazione culturale se ne va in ferie – e senza i consueti scenari della Torino neoclassica a fare da sfondo. Per di più, a pagamento.

Pagare la musica non è un’abitudine da queste parti, ma la realtà è che «il pubblico non dà un valore a quello che accade durante un evento se il primo a non farlo è chi lo ideato». È un sfida non da poco in un Paese che spesso confonde l’intrattenimento con la cultura. «Gli assessorati alla cultura non dovrebbero dialogare con quelli al turismo ma con quelli all’istruzione», sostiene Gozzi. «Quando vado a teatro, al cinema o a un concerto io formo me stesso, le mie idee, le mie relazioni. Si va via da un concerto diversi da come si era prima di andarci: migliori o peggiori, ma di certo con elementi e strumenti in più, che permettono di evolversi e di formarsi». Va da sé che l’etica con cui decidono di farsi carico della richiesta dell’amministrazione comunale è ben precisa: «l’obiettivo di un festival che ha un mandato istituzionale non è quello di fare concorrenza agli imprenditori privati, in luoghi turistici e in momenti dell’anno in cui le proposte abbondano, ma è quello di promuovere e sostenere cose che diversamente non avrebbero diritto di cittadinanza».

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L’attitudine ad osare viene premiata: le edizioni che seguono confermano il successo della prima e di anno in anno la proposta si arricchisce di nuove idee e nuovi spunti di riflessione intorno alla musica e al contesto urbano che la accoglie. Alle performance di artisti internazionali come The Shins, Editors e M83 si affiancano eventi collaterali come mostre, talk e laboratori. Nel 2016 Calcutta si esibisce accompagnato da un coro gospel negli spazi del Museo di arte moderna e contemporanea “Ettore Fico”, mentre a pochi passi da lì la ex fabbrica-cantiere Incet fa da perfetto fondale alle sonorità urban sci-fi delle colonne sonore composte da John Carpenter. «Il luogo è parte dello spettacolo, non soltanto un contenitore. Il live di Carpenter è stato un successo anche perché aveva un senso che avvenisse là. Altrove ne avrebbe avuto un altro. Così come per gli Sleaford Mods, che nel 2019 si esibirono al Parco Aurelio Peccei, in un’area dove vivono persone che si alzano alle 4 del mattino per andare a lavorare alla FIAT: è solo in un contesto così che una band che viene dai sobborghi operai di Londra poteva avere un determinato senso».

ex Incet – 2016 © Elvira Buttiglione
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«L’obiettivo del festival è portare al centro musiche di confine, e in generale ogni anno il claim è sempre quello: guardare oltre i confini, per scoprire qualcosa che è ancora sconosciuto, ma anche oltre i propri limiti, per non replicare le formule precedenti, sebbene riuscite». Ma per farlo servono gli strumenti, soprattutto quando alcuni di questi limiti appaiono quasi congeniti: «Fare un festival come TOdays», continua Gozzi, «richiede il massimo sforzo per ottenere un risultato minimo, mentre invece lavorare bene e secondo un processo culturale sostenibile significa riuscire a fare il contrario».

Allora come adesso, in Italia gli eventi che coinvolgono la cultura non sempre ricevono da parte degli assessorati il sostegno di cui avrebbero bisogno per crescere e proporsi ad un pubblico più ampio, al di fuori della bolla degli appassionati: «in Italia è un po’ come nella boxe: puoi diventare il migliore della categoria in cui competi, ma se appartieni ai pesi medi rimarrai per sempre nei pesi medi». È dopo l’edizione 2019 che avviene un nuovo confronto in tal senso tra l’organizzazione e le istituzioni, da cui emerge la possibilità di mettere a punto un sistema più sostenibile e che possa contemplare una possibilità di evoluzione. I frutti iniziano a vedersi sin dai primi annunci per il 2020: una collaborazione col Museo del Cinema e la presenza di Grace Jones, un personaggio che vanta una carriera artistica da peso massimo. Sarà poi il Covid a mettere in pausa forzata tutti i progetti per quella che aveva iniziato a configurarsi come l’edizione della svolta.

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L’interruzione dura solo un anno. Nel 2021 il festival è ripartito, nonostante le molte difficoltà legate alla pandemia e agli spostamenti, che hanno causato più di una modifica in corso d’opera. Mettere a punto un evento come il TOdays continua ad essere un’impresa coraggiosa. La si può fare solo così, «con convinzione, accettando le cose per come sono e non per come vorremmo fossero, ma al contempo cercando di proporre un’idea che vada oltre concetti e abitudini precostituiti: in Italia si è abituati al concerto degli headliner, dove il resto viene percepito come qualcosa di superfluo, se non come una vera e propria rottura di palle. Bisogna avere costanza, raccontando il festival nei dettagli, e convincendo le persone a scoprire qualcosa di nuovo». Posti a sedere, capienza limitata, defezioni difficili da digerire – quella dei Black Country, New Road su tutte – ma con valori rinnovati e sempre più attenzione verso le realtà musicali recenti. Il 2021 si rivela un capitolo necessario e catartico, che si chiude nel migliore dei modi con l’incredibile spettacolo messo in piedi dagli Shame.

Shame – 2021 © Franco Rodi
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L’edizione 2022 è alle porte, con un cartellone che ancora una volta si distingue per trasversalità e intuito. «Cerco sempre di costruire una scaletta che abbia una narrazione, e quest’anno ho voluto che fosse il più possibile aderente ai tempi storici che viviamo. Ad esempio, il programma del primo giorno è un po’ un inno alla diversità di genere, inteso non soltanto in senso musicale. Tash Sultana supera le differenze sotto tutti i punti di vista, compreso quello dell’identità personale e sessuale. Volevamo arricchire il cartellone di presenze femminili, come Hurray for the Riff Raff. Anche il collettivo dei Black Country, New Road è composto da molte musiciste donne. Adiel è un’artista romana che sta spopolando in tutto il mondo. In generale, mi piaceva l’idea di catturare un momento storico particolare, come quello che abbiamo vissuto negli ultimi due anni a causa del Covid, coinvolgendo artisti che hanno rielaborato l’isolamento rendendolo corale: FKJ e la stessa Tash Sultana, che compongono in solitaria ma in versione live suonano come una vera e propria orchestra».

Sono tanti i fil rouge che congiungono i protagonisti. «Nella giornata conclusiva, ad introdurre i Primal Scream che festeggiano il trentennale+1 di Screamadelica ci saranno gli Yard Act, una band giovanissima che si è formata durante il lockdown e che la lezione di Bobby Gillespie l’ha metabolizzata trasportandola nel contemporaneo». E tristemente contemporanea è senz’altro la voce di una band bielorussa come i Molchat Doma, attualmente in tour in tutta Europa ma impossibilitati a rientrare in patria a causa delle loro dichiarazioni in merito al conflitto in corso tra Russia e Ucraina. «Anche loro sono una band che racconta l’oggi: artisti che rielaborano un momento storico attraverso il proprio suono, con coraggio, manifestando le proprie posizioni, facendo della musica un qualcosa che realmente permette di superare i linguaggi e di unire, anziché dividere».

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Gianluca è consapevole del fatto che una narrazione, seppur coerente e ragionata, a volte possa risultare palese e comprensibile solo a posteriori, ma è anche in questo che consiste la sfida. «Spesso capita che le persone arrivino al festival attirate da un singolo concerto e poi scoprano artisti nuovi, distanti dai propri gusti musicali, e ci ringrazino per questo: Perfume Genius apprezzato dai fan di Richard Ashcroft, i Low che conquistano la platea che attende Hozier».

‘All those are just labels, we know that music is music’, come dicono i Primal Scream in Come Together: ogni anno il filo conduttore è la spinta ad andare oltre i generi e le differenze, anche di età. «Mi piace pensare di poter far convivere nello stesso posto quelli che vanno in discoteca con quelli che leggevano ‘Il Mucchio Selvaggio’, quelli che hanno vent’anni con quelli che ne hanno cinquanta».

Nella prima edizione parte del cartellone venne curata da un’etichetta torinese, la INRI, nel cui roster militava una giovane cantautrice agli inizi della propria carriera. «In maniera provocatoria, decidemmo di mettere Levante in scaletta prima degli Interpol, consapevoli della possibilità che qualcuno avrebbe potuto inorridire. In realtà un festival – e lo vediamo nei cartelloni dei festival europei – non è un evento che si costruisce ragionando per generi musicali. Quel che ci incuriosiva era proprio vedere come il pubblico italiano che sarebbe stato lì presente per gli Interpol avrebbe reagito al live di Levante, e viceversa. Ricordo ancora perfettamente quando, un attimo prima di salire sul palco, lei mi guardò e mi disse: “questi mi ammazzano“. Invece non accadde, anzi: fece un live molto rock, energetico e potente, riuscendo a coinvolgere anche la porzione di platea che non era lì per lei».

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Quest’anno ci si dividerà tra due location: il main stage a sPAZIO211 e l’ex Incet per i dj set dopo i concerti e per gli appuntamenti diurni di TOlab. Dall’emergenza pandemica tuttora in corso è derivata una normativa che a conti fatti impedisce l’utilizzo di molti degli spazi che erano divenuti ambientazioni consolidate. Ma in Italia non tutti i mali sono arrivati insieme al Covid: se all’appello dei luoghi consueti manca il Parco Peccei è a causa della indisponibilità di economie pubbliche da destinare alla sua manutenzione, per cui attualmente l’accesso all’area verde è interdetto a chiunque, anche agli stessi residenti. «Purtroppo in periferia le potenzialità spesso rimangono inespresse. Il compito di un evento culturale è anche quello di puntare i riflettori sulle potenzialità dei luoghi in cui avviene, siano essi musei o parchi pubblici, prima che l’incuria li renda inutilizzabili».

Prima di salutarci, Gianluca mi racconta un aneddoto significativo legato proprio al parco. Risale allo scorso anno, quando lì si esibirono Les Amazones d’Afrique. «Arrivai al Peccei poco prima dell’inizio del live e mi dissero che c’era un problema. Era domenica, un giorno in cui il parco spesso si anima perché è frequentato da gruppi di residenti che organizzano cose, e infatti c’erano varie situazioni in corso in quel momento, tra cui una vera e propria festa privata, con tanto di impianto per la musica. Il problema era essenzialmente legato all’acustica. Dissi che sarei andato da loro a chiedere se potevano farci la cortesia di spegnerla durante il live. Poi però ci pensai un attimo e dissi che invece il senso di quello che stavamo facendo era proprio quello: riappropriarsi di un territorio e far sì che qualunque cittadino, che si tratti di un abitante o di un avventore occasionale, possa trovarvi il proprio spazio e il proprio tempo. Ne parlai con gli artisti, che concordarono con me, è alla fine si creò qualcosa di bello proprio perché spontaneo. Anche questa è creatività, che non va controllata quando esplode, e che per questo ha un senso».

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Last modified: 13 Settembre 2022