Intervista agli Abiura

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In occasione dell’uscita del loro primo album, il concept Piccola Storia di una Bimba e del suo Aquilone di Idee, ho incontrato all’interno della sala concerti del Garbage Live Club di Pratola Peligna (AQ), loro paese di provenienza, i quattro Abiura. Abbiamo parlato del passato e del presente, delle difficoltà che può avere una formazione agli esordi e della voglia di esprimersi e suonare prima che di raggiungere quel tanto osannato successo. Abbiamo discusso di un album che racchiude, pur con i suoi limiti, l’anima di chi suona, un disco che prima di essere musica è manifesto di onestà e umiltà intellettuale e un invito alla riscoperta della parte più bella che si nasconde in ogni uomo.

Ciao a tutti. Siete una formazione all’esordio ma avete tutti una grande esperienza alle spalle. Cosa vi ha spinto a rimettervi in gioco?

Pietro (Sanpié): sicuramente la prima cosa che ci ha spinto è la passione per la musica. Per quanto mi riguarda, dopo l’esperienza con i Tabularaza c’è stato un black out durato circa quindici anni. Poi, un bel giorno, incontrai l’amico Francesco per strada che insisteva affinché tornassimo a suonare. Alla fine mi ha convinto e abbiamo iniziato un po’ per gioco, insieme con Alfonso (Novecento). Non avevamo ancora un chitarrista (in seguito è subentrato Marco (Zavarock)) e abbiamo iniziato a suonare cover più per divertirci che per creare un progetto vero e proprio. Poi, l’appetito vien mangiando, e abbiamo iniziato a pensare più in grande chiedendoci dove ci avrebbero portato le cover. La risposta era “al nulla”, a passare solo il tempo. Da lì abbiamo deciso di fare un album con cose scritte da noi. Io ho scritto i testi del concept e ho proposto il tutto ai ragazzi che hanno mostrato entusiasmo. Così è nato Piccola Storia di una Bimba e del suo Aquilone di Idee.

Giacché le hai nominate, parliamo di cover band. Qual è il vostro atteggiamento nei loro confronti adesso? Le vedete sotto un’accezione negativa?

Pietro (Sanpié): assolutamente no. Io con il mio vecchio gruppo suonavo pezzi originali. Era un mondo fantastico, c’era creatività, c’era condivisione e complicità. Quando poi andavano a fare concerti accadeva che il pubblico non apprezzasse, desiderando qualcosa di più divertente, musica da ascoltare in spensieratezza. Perciò abbiamo cambiato stile e siamo passati alle cover. Il gruppo è cresciuto commercialmente ma è morto sotto il lato artistico nonostante avessimo vinto anche dei premi.

Dunque le cover band le vedete più semplicemente come una normale esigenza del mercato cui il singolo musicista può scegliere di sottostare o meno?

Pietro (Sanpié): ognuno può scegliere cosa fare. Se c’è chi trova godimento nel suonare cover, buon per lui. Anche perché poi riesce a trasmettere il suo trasporto anche al pubblico. Se si suonano cover solo perché è quello che vuole il mercato del live nei piccoli club allora inevitabilmente il discorso finisce per non reggere.

Alfonso (Novecento): è chiaro che quando parliamo di cover, noi parliamo piuttosto di reinterpretazioni. Se parliamo di riproporre canzoni di altre band rilette secondo il nostro stile, non è escluso che si possano fare.

Forse le più antipatiche, per certi versi, sono le tribute band pseudo fotocopie…

Alfonso (Novecento): sì perché poi rischiano di fare scopiazzature mal riuscite e poco apprezzate da chi magari si aspetta esecuzioni al pari degli originali.

Pietro (Sanpié): se devo ascoltare qualcuno che prova solo a imitare in malo modo i grandi, tanto vale mettere su il disco.

Francesco: c’è da dire che la cover è un po’ la palestra di tutti i musicisti. Si comincia così, sia in sala prove sia ai primi live. È giusto considerarlo un punto di partenza.


(una sconosciuta cover band che distrugge i Pink Floyd)

Tre di voi (Pietro (Sanpié), Alfonso (Novecento) e Francesco) non sono certo giovanissimi ma nella band c’è anche un ragazzo, Marco (Zavarock), di soli sedici anni. Come fate ad amalgamare due generazioni tanto distanti sia sotto l’aspetto della formazione musicale sia per i diversi stimoli?

Pietro (Sanpié): bastone e carota. Io dico sempre a Marco (Zavarock) di vedermi come un amico, anche se per certi versi noi potremmo essere tutti un padre per lui. È lui che deve avere l’intelligenza di capire in quali contesti può considerarci amici e quando dei “genitori”. Noi cercheremo sempre di dargli tutti i consigli di cui necessita. Anche di vita. La nostra band è soprattutto una palestra di vita. Ci si confronta su tutto, non solo sulla musica. Il gruppo è nato anche per quello. All’inizio ci siamo sempre detti che ogni membro vale come tutti gli altri e che, quando uno di noi dovesse lasciare, la band non avrebbe avuto più motivo di esistere. A noi interessa soprattutto interagire tra di noi, creare uno spirito comune che dia valore al gruppo. Vogliamo stare bene insieme, coinvolgere le persone cui teniamo.

Quasi una nuova famiglia…

Pietro (Sanpié): esatto.

Alfonso (Novecento): io dico spesso a loro che questo è un mondo che ha messo l’uomo ai margini. Questa forma di amicizia e collaborazione che è sfociata nel progetto Abiura vuole proprio rimettere l’uomo al centro, con le sue passioni, il suo amore, i suoi lati positivi e negativi. Il locale in cui ci troviamo credo sia mosso dalle stesse idee. La passione prima di tutto, senza curarsi del fatto che la massa non sempre gradisce musica di qualità, ma è attratta dal commerciale. Con tutte le problematiche dettate dal caso, è la passione che muove questo locale che ha messo proprio l’uomo al centro e alla fine, finisce per essere invidiato anche dai paesi limitrofi più grandi.

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(gli Abiura)

Abiura significa giuramento di una rinuncia. C’è qualcosa cui state rinunciando?

Pietro (Sanpié): mi sono imbattuto in questa parola leggendo Pasolini. Ho proposto il nome tra tanti altri ed è piaciuto a tutti. Se vogliamo invece leggerne il significato con riferimento a noi, posso dirti che, almeno tre di noi, per troppi anni, hanno rinunciato alla musica. Avevamo perso la strada maestra. Questo nome serve da monito per non ripetere l’errore fatto in passato. Mai rinunciare alla musica e alle proprie passioni.


(Luciano Muratori legge l’Abiura di Pasolini)

Il vostro album d’esordio è un concept. Una scelta difficile per una band all’esordio con tanta strada da fare. Come mai avete preferito questo tipo di proposta invece di realizzare qualcosa di meno impegnativo e più facilmente fruibile da chi dovrà ascoltarvi, come un Ep o un singolo?

Pietro (Sanpié): come hai rilevato, la scelta è certamente particolare ma noi veniamo da esperienze passate quindi non siamo propriamente di primo pelo. Io avevo del materiale da proporre e mi sembrava negativo rinunciare a questo materiale per paura. Il concept è stata la strada naturale che questo materiale doveva percorrere laddove un Ep sarebbe stato solo riduttivo e non adatto. I pezzi richiedevano consequenzialità.

Per quanto riguarda artwork, immagini e illustrazioni avete lavorato con una certa cura. Le illustrazioni sono opera vostra?

Pietro (Sanpié): una parte sono opera mia, un’altra sono opera di mia figlia Arianna che ho costretto (ride ndr) per una sera fino a mezzanotte a causa dei tempi ristretti a nostra disposizione.

Invece la copertina è un’opera astratta dell’artista Silvio Formichetti. Non è un po’ distante quello stile dalla vostra musica che invece è decisamente concreta?

Pietro (Sanpié): inizialmente la copertina doveva essere l’illustrazione che trovate nel libretto in corrispondenza del pezzo “La Bimba”. In realtà, pur essendo l’immagine bellissima, avevamo necessità di qualcosa di più profondo che attirasse l’attenzione della gente e fornisse uno spunto di riflessione. L’espressionismo astratto porta proprio ad andare a fondo, a ricercare un significato più profondo.

Questa è quindi una scelta estetica o c’è un legame tra opera e album?

Pietro (Sanpié): l’opera del maestro Formichetti porta il nome del nostro album e quindi è realizzata ispirandosi al disco. È un suo omaggio del quale gli sarò per sempre grato. Dentro quel quadro c’è la sua visione di ciò che volevamo trasmettere e speriamo che chiunque vada a guardare la copertina possa vedere qualcosa di personale finendo per entrare in simbiosi con ciò che volevamo esprimere.

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(un’opera del maestro Silvio Formichetti)

Il vostro è un lavoro tecnicamente irreprensibile. Probabilmente pecca sotto il piano della registrazione e per originalità stilistica. Per il primo aspetto, la giustificazione può essere data dai mezzi ridotti che una band agli esordi può avere a disposizione. In quanto a originalità, non credete che si sarebbe potuto fare di più per suonare più moderni e attuali?

Pietro (Sanpié): il nostro background è la scena anni Settanta e in parte quella italiana dei Novanta. Veniamo dalla tradizione del Rock italiano. Io credo invece che il disco sia molto originale. È un disco variegato, le canzoni non sono ripetitive o scontate. Ci sono ballate classiche, pezzi quasi Metal, Blues. La musica è un prato fiorito. Ognuno coglie il suo mazzo e inevitabilmente quel mazzo sarà composto dai fiori che ci piacciono.

Diciamo che non vi siete posti questo tipo di problema puntando solo a fare quello che volevate…

Pietro (Sanpié): esatto. Abbiamo suonato semplicemente quello che ci piace di più. Qualcuno ha notato dei riferimenti ai Litfiba, forse nella timbrica, e la cosa è certo un complimento. Altri parlano di Timoria o Negrita ma la cosa, per me, è soprattutto un complimento.


(splendido brano dei Litfiba del 1985)

Vi siete posti degli obiettivi precisi come band? Quale sarà il momento in cui potrete ritenervi soddisfatti?

Pietro (Sanpié): io mi ritengo già soddisfatto di aver creato un gruppo di amici con un unico cuore, un un’unica anima.

E sotto l’aspetto musicale?

Pietro (Sanpié): stiamo pensando già a un secondo album e abbiamo steso diverse tracce. Vogliamo fare dischi e appagare il nostro ego. Chiaramente abbiamo anche voglia di confrontarci col pubblico.

Dunque un passo alla volta, senza obiettivi a lungo termine.

Pietro (Sanpié): bravo. Anche perché con la vita che facciamo di mariti, padri e lavoratori non possiamo pensare troppo in grande.

Parliamo di chi potrebbe ascoltare il vostro disco. Quale pensate possa essere il pubblico ideale per apprezzare l’album?

Pietro (Sanpié): sostanzialmente chiunque ami la musica. Il disco è fatto con la massima spontaneità possibile.

Marco (Zavarock): sicuramente chi ha amato il Rock italiano anni Novanta potrà apprezzare gli Abiura.

Alfonso (Novecento): senza fare categorizzazioni, io credo che l’album, nascendo sulla storia di una bimba, con i suoi problemi, le sue perplessità, i suoi errori, la sua infelicità per poi arrivare a chiusura del viaggio in un ritorno a casa, possa piacere a chiunque sia appassionato di musica e storie di vita. Il nostro album è un viaggio che va analizzato; non può essere visto solo sotto l’aspetto musicale. La storia è molto attuale.

Pietro (Sanpié): mi piacerebbe essere ascoltato da una persona sensibile, che abbia voglia di andare a fondo senza fermarsi sull’aspetto formale.

Da qui torniamo al discorso delle difficoltà di fruizione del concept. Lessi un articolo in cui si affermava che il pubblico della radio mediamente impiegata, non ricordo esattamente, forse sette secondi o anche meno per decidere se continuare ad ascoltare o meno una canzone. Una cosa spaventosa.

Alfonso (Novecento): questo è il bello di essere veramente indipendenti. Se impiegano così poco, per me non è un problema.

Pietro (Sanpié): in fondo la nostra provocazione è anche questa. Tu sei convinto che ci sia qualcuno disposto ad ascoltare, oggi, un concept album?


(brano tratto da Platform, concept album del 2015 di Holly Herndon)

Non siete certamente gli unici che lo fanno ancora. Quindi direi proprio di sì. Magari si usa questo mezzo meno rispetto a decenni fa e il pubblico è sempre meno desideroso di questo “impegno”. La musica è diventata soprattutto intrattenimento piuttosto che arte.

Pietro (Sanpié): esattamente. L’ascolto dovrebbe essere alla stregua della contemplazione di un quadro, la cui visione diventa un modo per trovarsi con se stesso, attraverso la sensibilità di un altro. La musica dovrebbe essere questo e noi ci abbiamo provato. La nostra è una forma di anticonformismo in un mondo in cui si sono rovesciati i valori e i veri anticonformisti sembrano essere i virtuosi.

All’interno del libretto c’è una frase che mi ha colpito: “la vita non è una competizione”. Nella musica, però, una sorta di competizione, anche sana, viene a crearsi. Vi sentite pronti a “lottare” in un mercato saturo per quanto possa essere piccolo in un piccolo paese e per una band emergente e molto diverso di quello che era nella vostra adolescenza?

Pietro (Sanpié): la nostra idea di competizione inizia e finisce nel gruppo stesso. Noi vogliamo piuttosto collaborare, creare una scena unita che dia lustro alla zona. Io sarò sempre di supporto alle altre formazioni della zona.

Alfonso (Novecento): ci sono gruppi della zona che hanno fatto un miglioramento enorme. Christine Plays Viola, À L’Aube Fluorescente, Niccolò Maria Santilli e altri. La nostra band, fermo restando la collaborazione, ha obiettivi ben diversi da loro. Di certo non ci mettiamo a guardare nessuno con invidia. La competizione tra noi dovrebbe essere solo uno stimolo a far si che qualcuno riesca a emergere. Chiunque tra noi.

Pietro (Sanpié): aggiungo che oggi la scena dalle nostre parti (Pratola Peligna ndr) è eccelsa.


(l’ultimo videoclip della band Darkwave Christine Plays Viola)

Anche più varia che in passato…

Pietro (Sanpié): esatto. Anche noi, col nostro anacronismo e la scelta del Rock in italiano siamo diversi dai musicisti della zona. Qualcuno voleva scrivere guitar nel libretto. Ma cosa…noi suoniamo chitarre!

C’è da dire che in Italia è più facile cantare in italiano. L’ascoltatore medio (per quanto difficile inquadrarlo) sembra apprezzare l’inglese solo se cantato da stranieri.

Pietro (Sanpié): sicuramente. Chi riesce a cantare in modo valido in inglese ha tutto il mio apprezzamento. Ti racconto un aneddoto. Durante un mio concerto io stavo cantando brani in inglese. A fine concerto venne una ragazza canadese. Mi disse: “sei bravissimo, ma in che lingua canti?” Quando sento band come À L’Aube Fluorescente mi stupisco delle loro qualità fuori dal comune. Nel nostro paese ci sono delle eccellenze che andrebbero lanciate. Lo stesso Alfonso (Novecento) parlando di loro ha detto che hanno solo bisogno di partire. Hanno un tiro internazionale, come i Christine Plays Viola del resto.

Alfonso (Novecento): al di là della voce di Jacopo (frontman degli ALAF, ndr) anche musicalmente sono di un livello europeo.


(ultimo singolo degli ALAF)

Pietro (Sanpié): c’è anche Dr. Quentin che è un anfitrione pazzesco capace di coinvolgere chiunque. La nostra scena merita il giusto risalto perché è veramente valida. Cito ancora Niccolò Maria Santilli, Mauri D* che col suo Rap fa qualcosa d’impensabile per un piccolo paese come il nostro senza cultura Hip Hop e i Paincheck.


(brano estratto dall’ultimo Ep di Dr. Quentin & Friends)

Francesco: io penso al 1992. Di band ce n’erano due. Eravamo veramente pochissimi a suonare “seriamente”. Nel nostro piccolo abbiamo poggiato le basi creando una vera cultura musicale a Pratola Peligna. Una cosa straordinaria.

Oggi per diffondere la propria musica è forse più utile e immediato il web con siti tipo Soundcloud, Bandcamp, Reverbnation e programmi tipo Spotify piuttosto che la copia fisica. Vi state muovendo in tal senso?

Pietro (Sanpié): stiamo ultimando in questi giorni il caricamento del disco su Youtube. A breve ci sarà il modo di scaricare l’album direttamente dal web.

Parlando di qualcosa di più tecnico, nel disco ci sono parti di Spoken Word recitate da te, Pietro (Sanpié). Non pensi che si sarebbe potuto utilizzare un’altra voce, più teatrale o ritieni che, trattandosi di tue poesie, sia stato giusto lasciare a te questo compito?

Pietro (Sanpié): fondamentalmente è stata una scelta soprattutto pratica. Sì, forse si poteva spezzare con una voce magari femminile e ci abbiamo anche pensato ma sia per questione passionale, essendo mie poesie, sia per tempistica abbiamo scelto di fare così come potete ascoltare nel disco. Oltretutto presto le mie poesie saranno pubblicate da Aletti Editore di Guidonia.

Ultime due cose. State gestendo in qualche modo la fase promozionale del disco?

Pietro (Sanpié): nell’immediato stiamo pensando di fare un video ma dobbiamo ancora valutare bene. Abbiamo mandato il materiale a Rock Targato Italia e altri Festival e vorremmo contattare qualche etichetta. Quando feci l’album con i Tabularaza ne uscì un album bellissimo che non ebbe il riscontro che meritava per problemi con chi lo produsse. Non vogliamo ripetere lo stesso errore.

Mi hai detto che ci sarà un secondo album degli Abiura. Sarà un nuovo concept, seguirà la stessa linea stilistica o ci aspetta qualche novità?

Pietro (Sanpié): questa volta sarà Alfonso (Novecento) a mettere sul banco il suo materiale. Siamo a buon punto, comunque. Non c’è ancora un titolo. Se faremo un Ep, il titolo potrebbe essere Amica Urbe, da uno dei brani che lo comporranno. Abbiamo in mente possibili copertine e altro. I testi saranno poesie e pensieri scritti proprio da Alfonso (Novecento).

Alfonso (Novecento): abbiamo letto insieme quello che avevo scritto e pare sia piaciuto. È qualcosa di molto personale ma ho scelto di mettere tutto a disposizione della band. Adesso dobbiamo lavorarci tutti insieme, soprattutto sotto l’aspetto strumentale. Aggiungo che probabilmente ci saranno anche pezzi di Francesco.

Il terzo album toccherà a Marco (Zavarock) allora…

Pietro (Sanpié) (Sanpié): Marco (Zavarock) è il genio della chitarra. Quello che trovate nel disco è tutta farina del suo sacco e sfido chiunque, a sedici anni, a riuscire a fare il lavoro che ha fatto lui. Se gli chiediamo pure i testi, in sostanza noi altri potremmo andare a casa (ride, ndr).


(traccia numero otto dell’album degli Abiura)

Last modified: 21 Febbraio 2019

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