Gennaio, 2014 Archive

Supervixens – Nature and Culture

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Esiste un animo noir nella musica italiana, un turbine violento lanciato senza controllo, una materia acida spalmata sgarbatamente sopra appiccicose sensazione. Il dolore non sempre porta devastazione. Debutto discografico al veleno per i toscani Supervixens con Nature and Culture, solito prodotto dell’avanguardista Amaury Cambuzat (Ulan Bator), ormai marchio di garanzia della sperimentazione del suono. Il cervello perde pezzi durante la tempesta di chitarre che si scatena in “O”, lampi elettronici esplodono senza controllo e senza grazia. Batterie impazzite alla ricerca d’inconcludenti reazioni razionali. Oggi è tornato il gelo, tanto gelo. Poi mi spacco l’osso del collo e non capisco perché certe innovazioni musicali non decidano quasi mai le sorti della musica italiana. Nessuna traccia di tranquillità, un continuo stato di agitazione pervade le vene, il ritratto di una generazione incontrollabile in “I”. Interessante l’introduzione sorniona che lascia sempre nell’aria un pericolo imminente, qualcosa potrebbe scoppiare da un momento all’altro, rimango in attesa. Inizia a fare troppo caldo, insopportabile cappio alla gola. Fabbriche, fumo grigio e cemento nelle composizioni sonore più indescrivibili che neanche il genio di Barry Truax. Ferraglie scaraventate a terra e respiro affannoso per un finale al cardiopalma. Terrificante Industrial alla Oomph! (a velocità triplicata).

Un massacro emotivo che dura oltre dodici minuti. Molto più orecchiabile (per usare un termine normalmente scemo) “Chromo”, parecchia batteria ad arrampicarsi sulle corde lanciate tese dalle chitarre, sembra quasi di ascoltare un altro disco almeno all’inizio. Poi violenza, tanta violenza da rabbrividire. Inizia a fare sempre più freddo nel mondo dei Supervixens, continuo cambio di temperatura. Bisogna fare una pausa, è tutto troppo impegnativo da tirare di botto, manca ancora un pezzo e già sento di essere soddisfatto, potrei anche farne a meno ma ormai sono rapito dal vortice e vado avanti dritto per la mia strada fantastica. Come in un bosco malvagio a cacciare streghe malefiche. “Loud! Loud! Loud!” spara proiettili alla rinfusa, pezzo duro e legnoso dalle movenze grezze, poi cambia la mia sensazione, e cambia ancora. Come sentirsi degli stronzi inerti nel buco del culo del mondo, manca la forza di reazione. Mi lascio divorare. Nature and Culture dei Supervixens è un lavoro intenso completamente strumentale, figlio desiderato del produttore e chitarrista già citato (ma lo voglio citare ancora) Amaury Cambuzat, un prodotto bello e difficile. L’ascolto non risulterà sicuramente facile, Nature and Culture pesa quintalate d’innovazione. Poi i Supervixens non sono certo componenti di questa terra, le loro proiezioni superano di molto le aspettative della scena underground musicale italiana, in generale tutte le produzioni Acid Cobra sono l’estremizzazione della sperimentazione. Una bomba esplode senza dare preavviso, questo disco racchiude l’essenza di una gelida giornata d’inverno a quaranta gradi. Inizio ad amarli, inizio ad avere paura dei Supervixens.

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Album d’esordio per gli Wemen

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L’italianissima indie band Wemen è pronta a fare il grande debutto sul mercato discografico con il primo album: Albanian Paisley Underground è anticipato dal singolo (con videoclip) del brano “Coming Over Me”. I Wemen, inoltre, partiranno per un tour di presentazione del disco, che farà tappa lungo tutta la penisola:

sabato 25 Gennaio 2014
all’ARCI OHIBO’ di MILANO

sabato 8 Febbraio 2014
al CIRCOLO DEGLI ARTISTI di ROMA

venerdì 7 Marzo 2014
al GEORGE BEST di NAPOLI

venerdì 11 Aprile 2014
al TENDER di FIRENZE

mercoledì 16 Aprile 2014
al MERCOLEDì ROCK c/o 100DIECI CAFE’ di PERUGIA

giovedì 17 Aprile 2014
al GARAGE SOUND di BARI

venerdì 18 Aprile 2014
al DEJAVU di SANT’EGIDIO ALLA VIBRATA (TE)

sabato 19 Aprile 2014
al ARCI RUBIK di LECCE

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Le Luci della Centrale Elettrica live a Roma!

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Si esibiranno il prossimo 4 aprile Le Luci della Centrale Elettrica, all’Atlantico di Roma (ingresso 13 € più diritti di prevendita). L’occasione è importante per sentire dal vivo i brani del nuovo album, Costellazioni, in uscita a marzo 2014. Per ulteriori informazioni, visitate la Fanpage della band su Facebook.

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Girl With The Gun – Ages

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Sensuale da un lato, atmosferico dall’altro, sono queste le principali caratteristiche di Ages, il nuovo disco delle Girl With The Gun che prima di tutto si fregia della calorosa voce di Matilde De Rubertis già singer degli Studiodavoli. L’album è un concentrato di Folk, Electro e Rock, una miscela intrigante soprattutto per come proposta da questi talentuosi artisti, soprattutto Andrea Mangia, in arte Popolous, che in un modo o nell’altro è riuscito anche questa volta a rivolgere in dose massiccia i riflettori verso di se. Ages riesce a mettere sullo stesso piano o meglio, ancora in equilibrio, i generi indicati prima diventando insomma un prodotto che farà invidia. Chiaramente il disco è affascinante anche grazie all’operato di Andrea Rizzo che regala effettivamente una concreta dimostrazione di come si suoni una batteria: coordinato, veloce al momento giusto e lieve quando serve.

Tutte le tracce si lasciano ascoltare senza mai stancare ma un occhio di riguardo va anzitutto ad “Hold on for Cues” che mette subito in chiaro la bellezza pura del platter mostrandosi come una di quelle canzoni che sa nascondere e svelare il suo alone di mistero. La successiva “Fireflies” è anch’ essa singolare, una traccia che mette allo scoperto tutte le doti dei musicisti. Infine c’è “Hover”, che sembra quasi partorita dai Cure: ritmata, sprizzante ma nel frattempo calma, è un altro cavallo di battaglia di Ages.  Il gruppo è riuscito a produrre un disco di una certa qualità: da ascoltare in macchina durante un viaggio o distesi sul letto in un momento di riflessione o ancora facendo jogging, è sempre il momento giusto per Ages. Quando artisti di un certo talento e di invidiabile esperienza si accordano su di un disco fatto con intenti sinceri il risultato può essere solo buono e Matilde e soci lo sanno bene.

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Mogwai – Rave Tapes

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Ascolto: un album dei Mogwai lo devi sempre ascoltare lontano dalla luce; immaginate un posto piacevole al buio, non in solitudine. Ecco, l’ho ascoltato là.

Umore: un po’ confuso e sudato.

Dovunque si trovino i non più giovanissimi e talentuosi scozzesi sono sicuro che stanno già tremando all’idea che una mia recensione possa stroncargli per sempre la carriera. Scherzi a parte, per spiegare meglio quello che sto per scrivere vorrei partire dal mio ricordo live dei Mogwai: li ho visti due anni fa al Perfect Day di Verona e oltre che guardare un ottimo live ho avuto un’esperienza sonora nuova che tutti i mille e mille live che ho visto mi avevano mai garantito. A metà concerto mi giro per commentare con un mio amico quello che stavo vedendo, scelgo accuratamente quel momento perché la dinamica del pezzo che stavano suonando (non ricordo quale) era scesa di molto. Era uno di quei pezzi lenti, che ad un certo punto riduce al minimo le note, che si fa flebile e pensoso. Scelgo quel momento per dire una frase, una sola frase. Mi giro verso il mio amico e dopo non più di due o tre parole dalle casse mi arriva tra capo e collo un cartone sonoro talmente forte che indietreggio fisicamente di due o tre passi, come se davvero avessi preso un ceffone in uno dei peggiori bar di Caracas. Mai sentita prima una pressione sonora così forte, mai sentita prima un passaggio dal piano al forte così esagerato e così improvviso. Sono rimasto sconcertato e mi sono gasato come un bambino che comincia a capire di non esserlo più. Quei cinque secondi di musica hanno condizionato il mio parere su Rave Tapes. Secondo me, e con questo non voglio essere presuntuoso o tantomeno irrispettoso nei confronti di un gruppo che ammiro sinceramente, non è un gran disco. Più che altro sono convinto che sia interlocutorio. La loro esperienza di scrivere la colonna sonora di Revenants forse ha determinato questo strascico un po’ sbilenco che dichiara una via nuova ma al tempo stesso non la spiega bene. Complessivamente, ed è una tendenza che ho notato in svariati dischi non propriamente mainstream usciti nel 2013, in Raves Tapes c’è poco spazio per i chiaroscuri, per il dialogo tra silenzio e musica. Il fluire di questa assomiglia più ad un rubinetto lasciato aperto a metà nel bagno piuttosto che alla sciacquio ritmico e ristoratore delle onde che modellano la costa. Più un ruscello sotto casa che una cascata nella foresta.

Analizzando qualche pezzo, “Heard About Your Last Night” inizia con scampanellii molto Post Rock e ti fa immaginare uno sviluppo del disco molto diverso, “Simon Ferocius“ è un ipnotico crescendo che incalza lentamente ma alla fine non esplode mai. “Remurdered” invece mi sembra fare eco alla colonna sonora di Escape from New York di Carpenter e questo mi è piaciuto molto: un bass synth dallo spiccato sapore anni 80 fa da perno a tutto il pezzo e detta il crescendo senza segni distintivi melodici che arriva dalle basse frequenze come un terremoto che poi (mi passino la metafora forte) però non devasta. “Blues Hour” , pezzo cantato come un mantra, dà più il senso di autentico Post Rock d’annata, un pezzo lento come se si stessero scaricando le pile all’ipod ed invece energica come se ti stesse ricaricando dentro. In questo pezzo, le onde le senti tutte e ti lavano a meraviglia. Purtroppo in questo disco un episodio piuttosto isolato.

Ricapitolando, un disco dei Mogwai non può prendersi da Angelo Violante un’insufficienza; per definizione e rispetto. Ma il disco mi ha lasciato con un senso di insoddisfazione fastidiosa. Quello che mi è mancato è il dialogo tra il silenzio e il rumore, tra il pieno e il vuoto. Anzi no, mi è mancato proprio il silenzio. Il silenzio è la nota non suonata più bella, quella che ti rende meravigliose le note suonate, quello che ti permette di essere colpito al cuore.

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G-Fast – Go to M.A.R.S.

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Dietro il moniker di G-Fast si nasconde il One Man Band milanese Gianluca Fastini, un amante delle sonorità vintage, di quel maledetto Rock di una volta che puzzava di whiskey e suonava di Blues. Il suo nuovo disco preceduto da svariati live esce per La Fabbrica e si chiama Go to M.A.R.S., niente di elegante, niente di particolarmente eccitante. Perché questo Go to M.A.R.S. vorrebbe suonare esattamente come un disco di una volta, prendiamo tutta l’attuale scena Indie italiana e buttiamola senza timore nel cesso tirando lo sciacquone infinite volte. Tanto non ci sarebbe poi così tanto da salvare secondo alcune arroganti presunzioni. “Go to M.A.R.S.” prima traccia (e pezzo che titola l’album) parte subito massiccia e senza paura, piedone a spingere sulla cassa, chitarre Folk Rock e tanta voglia di arrivare su Marte. Ma questo dal titolo si era capito benissimo, dopo Bowie arriva G-Fast. Tanta spocchiosità nell’animo indipendente di “I Like It”, qualcosa diventa subito muro tra concetto e risonanza. Non arrivo a cogliere il senso e disordinato come un bambino eccitato dai regali di Natale vado avanti nell’aprire canzoni come fossero pacchi.

Nel brano successivo “Mystical Man” G-Fast usa chitarroni pesanti ma quella insistente sensazione di “vecchio polveroso” proprio non vuole lasciarmi stare. Capisco benissimo l’intenzionale ricerca di suoni del passato ma in questo caso il prodotto finale è stancante, è come mettere volontariamente la testa dentro una ghigliottina francese. Tralascio volentieri “On My Own”, non riesco a contemplare certe cose in nessun momento della mia giornata. Tengo a precisare che questo disco sono riuscito a metabolizzarlo (diciamo pure così) almeno dopo dieci ascolti durante i quali mi promettevo di trovare il lato positivo che puntualmente non arrivava mai. E nessuno mai potrebbe capire quanto aspettavo che ciò accadesse. “Morning Star” prosegue senza provocare troppo scompenso, alta orecchiabilità e sound arrugginito come non ci fosse un domani. In questo caso apprezzo molto la tecnica Old School. Andando avanti troviamo “Like an Angel” e “Toy Soldier”ma entrambe vivono di luce riflessa, un qualcosa già speculato negli anni novanta quando tutto era più facile e non ci giravano i coglioni a causa della crisi economica, quando potevi sentirti il padrone del mondo non sapendo che la fine era alle porte.

Ci vuole un fegato marcio per suonare Rock Blues senza contaminazioni. “Crazy” è finalmente un pezzo diverso dal resto, poco omologabile con quello ascoltato in precedenza, un mix di atmosfere tarantiniane e sole bollente sulla nuca. Ma possibile? Ho già ascoltato da qualche altra parte? Sento delle familiarità impressionanti. I diritti umani mangiati voracemente da un corvo nero in “The Crow Is Back”, ancora non riesco ad afferrare niente di buono, sconsolato cerco riparo nell’ultima traccia “What I Think of You”. E’ una ballata ma a me non piace affatto. G-Fast non rientra nella schiera di musicisti che salveranno la musica, almeno da quello espresso in Go to M.A.R.S. non riesco a vedere neanche uno spiraglio di positività. Inutile nascondersi dietro musicalità testate migliaia di volte e tecnica audace, la musica è soprattutto sentimento e questo disco purtroppo non trasmette niente. Consideriamola una brutta esperienza.

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Voglia di X-Factor? Fattela passare. Rock the Monkey!

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Rockthemonkey

Rock the Monkey! Manuale di sopravvivenza per non perdersi nel mondo della Musica.

Oggi più che mai, causa l’avvento e l’affermazione dei più disparati reality di carattere musicale, sempre più paiono i giovani cantanti decisi a intraprendere la “carriera” del musicista ma, allo stesso modo, tantissimi, forse la maggior parte, finiscono per perdersi nelle delusioni, nelle illusorie speranze, nella fama che dura un attimo, nella scarsa preparazione. Pochissimi sono i veri talenti tirati fuori da questi pseudo talent show e probabilmente saranno più i veri talenti che per colpa di questi talent show hanno rinunciato per sempre a scavare nel proprio Io alla ricerca del meglio di se e a intraprendere le strade migliori per far sì che questo talento potesse realmente venire fuori. Per cercare di indirizzare i ragazzi più capaci verso la via ripida e faticosa che rende veri artisti, David A. R. Spezia e Massimo Luca hanno realizzato un manuale che consigliamo vivamente a tutti questi ragazzi, pieni d’idee e con la passione che poi è la stessa che muove anche noi. Per capire meglio di cosa si tratti, abbiamo intervistato i due autori di questo Rock the Monkey!.

Ognuno di noi ha sognato, almeno una volta, di diventare una rockstar. Ma la musica non è solo un sogno, per tanti è una “scimmia” in grado di creare dipendenza e di trasformare chiunque in un perenne cercatore d’oro. Quanti hanno messo in piedi una band con gli amici e hanno iniziato a muoversi nell’universo musicale italiano: i pezzi scritti in saletta, la ricerca di locali dove suonare e di un’etichetta discografica, con l’obiettivo di far conoscere il proprio talento e diventare famosi.

Ciao David A. R. Spezia (scrittore) e Massimo Luca (musicista al fianco, tra gli altri, di Battisti, De André, Mina, Bennato, Dalla, Vecchioni, oltre che compositore e produttore di talenti come Grignani e Antonacci). Come state? Andiamo subito al dunque. Rock The Monkey, un manuale per diventare una Rockstar. A chi è venuta questa idea e perché soprattutto?
David: la scintilla l’ho avuta una mattina. Erano vent’anni che non sentivo Massimo. Ho recuperato il suo numero di telefono da un amico comune e l’ho chiamato. Lui si è ricordato subito.  Io sono stato molto diretto, devo dire, col senno di poi. Gli ho chiesto: “Massimo. Vuoi scrivere un libro?”. Dopo aver spiegato a grandi linee il progetto, ha subito accettato. Qualche giorno dopo ci siamo visti e abbiamo cominciato. Il libro ha preso immediatamente la sua impronta e l’idea è stata sviluppata e portata avanti grazie alla sua grande esperienza nella musica. Come scriviamo nel capitolo intitolato ”Intro”, siamo diventati una chimera. La fusione di due entità: lo scrittore e il musicista. Da qui è nato il nostro libro.

Massimo: Sì, oggi tutti vogliono apparire e lasciare una traccia di se stessi sulla Terra. Questa è una vera e propria sindrome! La causa va attribuita ad una televisione populistica che lancia in modo più o meno evidente messaggi che esasperano troppo il senso dell’edonismo! Il libro/manuale cerca di riportare il lettore in una dimensione normale raccontando quello che sino a qualche anno fa è stato il mestiere più bello del mondo. Il messaggio è evitare di fare i fenomeni da baraccone e migliorare la propria personalità artistica attraverso lo studio e la conoscenza fino al raggiungimento di uno stato di eccellenza. La scimmia? È la passione che non ci fa sentire la fatica. È una donna che ami senza essere riamato!

Ho letto il libro e, vista la presenza di David A. R. Spezia, mi aspettavo una narrazione meno schematica, quasi più un racconto dentro il quale s’inserissero le vostre idee. Invece si tratta proprio di un manuale, nel senso più classico del termine. Come mai questa scelta narrativa?
David: io direi che la scelta della prima persona nella narrazione, abbia portato il libro a essere meno “saggio” e più “manuale esperienziale”. È vero che si trovano pagine dedicate ai trucchi del mestiere, magari con elenchi di cose da fare e da non fare, però in tutto questo si inseriscono aneddoti della vita di Massimo: le sue esperienze dirette con Lucio Battisti per esempio, o di come abbia portato Gianluca Grignani al successo del primo album. Il libro vuole dare consigli, senza essere però pretenzioso. È come se qualcuno mi raccontasse la sua vita: ciò che una volta accadeva nelle botteghe degli artigiani nei confronti del garzone. Oggi questo non esiste più: ognuno fa musica e pretende di farla senza aver voglia di imparare l’arte e il mestiere.

Personalmente non sono mai stato un grande amante dei “manuali”, quei libri che pretendono di dare risposte, preferendo i testi che favoriscono il dubbio. Tuttavia in Rock The Monkey c’è qualcosa di diverso. Cosa lo distingue sostanzialmente da un manuale per smettere di fumare, uno per perdere peso, e cosi via?
Massimo: in effetti, non è un vero e proprio manuale; il titolo è ammiccante, quasi umoristico! In realtà, a parte alcuni consigli dovuti dall’esperienza, è un passaggio di testimone tra due generazioni che sono abbastanza distanti! Qui nessuno insegna niente a nessuno! Ho voluto “restituire” il dono che ho ricevuto quando ero poco più che un ragazzo. Il “dono” è tutti gli insegnamenti che i “vecchi” mi avevano regalato e che hanno contribuito non poco a far divenire la mia carriera quasi leggendaria. Dopo cinquant’anni ho voluto restituire ai più giovani questo “dono”.

Nella scrittura ho notato alcune cose caratteristiche. Esempio, frasi brevissime, tanta punteggiatura e “a capo”. Una fluidità anche eccessiva talvolta. Inoltre, molte note talvolta elementari e ripetizione dei concetti (cosa che nei manuali si nota spesso). A cosa è dovuta questa scelta espressiva?
David: il motivo è che quando si chiede a qualcuno di insegnarci qualcosa, questa persona deve cercare di esprimersi in maniera diretta e semplice. Ogni concetto deve essere fissato con pochi e facili termini. Ripetuto più volte per essere metabolizzato. Visto che la narrazione è sempre in prima persona, bisogna immaginare che è come se ci fosse Massimo a parlarmi in quel momento. Quando c’è dialogo, difficilmente si hanno frasi lunghe, tortuose, “teatralmente compite”. Non sarei alla scuola di un artigiano, al contrario, sarei alla lezione di un professore che non farebbe altro che conciliare il sonno. Per quanto riguarda le note, invece, il motivo deriva dal fatto che il libro è davvero pensato per tutti, anche per chi non sa niente della musica. Cose che per i quarantenni sono normali, per i ventenni non lo sono per niente.Chiedi a un ragazzo chi era De Andrè.

A chi si rivolge il volume? Avete pensato a qualcuno in particolare o a una categoria precisa quando avete deciso di scriverlo?
David: Rock The Monkey! è per tutti. È per i musicisti che vivono di musica. Per chi ha tentato la strada della musica e oggi fa altro. Per chi vuole iniziare questo percorso e non ha la minima idea di quello che lo aspetta. Soprattutto, è un manuale di vita che raccoglie aneddoti e pensieri di anni di palco e retropalco in un periodo in cui la musica era spumeggiante, viva, prepotentemente alla ricerca di se stessa. Mi ha fatto piacere leggere il commento di una lettrice, non musicista, che ha scritto che il libro è una “scusa che ti fa capire come affrontare la vita”.

Nel libro si afferma giustamente l’idea che, chi ama la musica, non dovrebbe inseguire il successo. Ma in fondo chi ama fare musica desidera anche condividere le sue emozioni e il successo è l’estremo della condivisione. Dunque, sono veramente cosi antitetici la passione vera per la musica e la voglia di inseguire il successo, inteso non in termini economici ma di pubblico?
Massimo: dico sempre che il successo è “dentro” di noi. Ricordo che negli anni 60 il successo lo decretava il pubblico quando ascoltava un complesso o un cantante. La balera “piena” di gente era il successo. Significava continuità, e la continuità significava sopravvivenza! Nessuno di noi ambiva a fare dischi! Noi volevamo solo “lavorare”, cioè suonare sopra un palco sapendo che domani ci sarebbe stato un altro palco e così via. Il disco era la fase terminale del progetto artistico. Quando centinaia di migliaia di persone conoscevano quel tal cantante o gruppo, mettere un disco sul mercato voleva dire averlo già quasi venduto! Oggi la televisione parte da quella fase terminale, e cioè al contrario. Si parte dal “successo” per finire a casa propria senza che nessuno noti che siamo scomparsi. E questo perché il “gioco” prevede un nuovo vincitore. Se questa è una carriera!

Altra cosa, parlate giustamente di live e indicate questa come una delle strade migliori per fare la necessaria gavetta. Eppure (anche noi con Streetambula organizziamo eventi) non tutti riescono a trovare spazi e date, vuoi per la concorrenza spietata di Tribute Band e Dj improvvisati, vuoi perché al pubblico della musica interessa meno che mai, vuoi perché pochi sono i locali attrezzati, vuoi perché pochi sono i gestori appassionati (molti i localari, come li chiamate nel manuale). Come si può indicare un problema, come la soluzione?
Massimo: localari a parte (c’erano anche cinquant’anni fa!) il problema vero, a mio parere, è la qualità del repertorio! Oggi quasi nessuno è più in grado di scrivere una canzone di quelle che si canteranno tra trenta o quarant’anni. E quindi si capisce il successo della “Tribute Band” che replica a papera un successo già conclamato dall’originale! La gente ha bisogno di cantare le canzoni e quelle di oggi sono solo note che si inseguono spesso senza nessun talento o logica artistica. Un giorno qualcuno disse che TUTTI potevano scrivere una canzone e il risultato è purtroppo visibile! E visto che sognare non costa nulla,immaginiamo un ragazzo in una balera qualunque di periferia che canta una nuova canzone tipo “La canzone di Marinella” o “Fiori rosa, Fiori di pesco”. La gente sgranerebbe gli occhi dalla sorpresa, esattamente come avevo fatto io quando ho sentito i Beatles dal vivo nel 65.

Personalmente ho notato un certo addolcimento del Rock moderno, meno propenso a esprimersi con aggressività, sia musicale sia testuale, specie in provincia. Quanto questa tendenza può essere data dal fatto che è più difficile suonare per chi sceglie strade di questo tipo? Stesso discorso per la sperimentazione. Chi osa e cerca veramente di essere originale ha meno chance e porte cui bussare?
Massimo: il Rock moderno non esiste! Non c’è più Rock, tantomeno in Italia! Dico sempre che il Rock non è una chitarra “distorta”. Il Rock è una filosofia di vita. Il Rock, quello vero, aveva testi dissacranti, quasi pornografici. Simulavano l’orgasmo! Quello di oggi è vile Pop mascherato con chitarre “power” che simulano il SUONO del Rock ma che Rock non è. La responsabilità dei nuovi “mostri” sacri attuali è grave! Loro (forse) sanno la verità ma se ne guardano bene dal divulgarla. C’era molto Rock nelle canzoni di Bob Dylan, anche se non c’era “rumore”. Oggi c’è molto rumore per nulla! A mio parere Vasco è più rock di quello che scrive.

Nel testo, a un certo punto, fate una lunga carrellata di artisti italiani, da Vasco a Grignani. Mancano però nomi nuovi. Chi sono gli artisti che, seguendo la strada indicata nel manuale, oggi possono dirsi delle Rockstar? Intendo artisti giovanissimi.
David: dipende sempre dal concetto di “Rockstar”. Se con questo termine intendi il successo e il conto in banca, direi che ce ne sono parecchi di esempi, oggi. Come diciamo nel libro però, il successo non si misura in una stagione. Bisogna ragionare in anni. Abbiamo inserito una lunga carrellata di vincitori dei due talent televisivi più seguiti: è curioso leggere i nomi delle prime edizioni e vedere, in chi ti sta di fronte, l’espressione tipica del “non l’ho mai sentito”. C’è poi qualche altro vincitore che è finito a fare spot per operatori di telefonia mobile. Nomi nuovi non sono citati nel manuale semplicemente perché riteniamo sbagliato prendere ad esempio una carriera magari di due, tre o quattro anni. Se ragioniamo in questi termini, la vera sfida sarebbe decidere chi lasciare fuori. Il concetto di “Artista” è molto più ampio: “è uno stato genetico immodificabile” che prescinde dal look e dal successo.

Massimo: ho letto qualche giorno fa su un quotidiano che presto uscirà un film sulla vita e il successo di Marco Mengoni! Come Jim Morrison dei Doors! (ride ndr)

Perché la musica di qualità, che si tratti di Rock, Musica Leggera o Avanguardia, fa cosi fatica a emergere e attecchire?  Di chi è la colpa della mancanza d’interesse del pubblico per la qualità ma anche per la novità, sia nella musica sia nei nomi?
David: dipende dal grado di attenzione. Oggi solo una minoranza silenziosa ha l’interesse di approfondire un concetto per arricchirsi. La maggioranza è tracotante, rumorosa. Viaggia in terza corsia con gli abbaglianti accesi e suonando il clacson per sorpassare.Siamo tutti costantemente disorientati da mille stimoli. In un contesto di questo tipo, chiunque voglia affermarsi deve urlare più degli altri e utilizzare l’unico mezzo che consente di farsi notare in poco tempo: la televisione. E siccome l’interesse è poco, l’approfondimento nullo, l’affezione inesistente, il pubblico non potrà far altro che spostarsi sulla prossima novità.

Massimo: David ha espresso bene il concetto. Aggiungo solo che ogni anno nel nostro paese ci sono quindici milioni di download di suonerie stupide e banali. È la cultura, il massimo comun denominatore della qualità della vita di un popolo. È un problema anche politico.Vivere senza cultura è come affrontare il polo nord con le infradito!

Supponiamo che 1000 cantanti leggano il vostro libro. Quanti di questi pensate onestamente che possano seguirne i dettami? E quanti riusciranno veramente a suonare senza dover fare altro nella vita?
David: su mille che lo leggeranno, mille lo faranno proprio. Di questo sono convinto.Non è facile avere il tempo di leggere oggi. E quindi, chi si prende l’onore di acquistare un libro, significa che è già mentalmente predisposto a investire del tempo su se stesso. Basta solo un concetto, uno solo, che sia rimasto e per me sarà già un enorme successo.

Massimo: David è molto ottimista e voglio esserlo anch’io! Però resta il fatto che statisticamente i giovani non leggono giornali né libri tranne quelli di Fabio Volo! Speriamo almeno nei musicisti e nei cantanti “contaminati” dalla “Scimmia”!

Nell’ultima parte del libro, parlate della figura dell’artista, in musica, ma sembrate tenere fuori tutta una serie di tipologie come gli sperimentatori (quest’anno non posso che citare i Nichelodeon, i Deadburger, gli InSonar as esempio) che, raramente riempiono stadi o scrivono “canzoni”. Ci vorrebbe un altro manuale per chi vede la musica sperimentale come la propria strada?
David: il libro va proprio in questa direzione. Non esiste un prototipo di artista o musicista. Nel libro citiamo l’”olimpo degli dei”, volutamente scritto in minuscolo, per indicare quel luogo cui tutti aspirano. L’olimpo non è un QUANDO – quando sarò famoso -, ma un DOVE, proprio per indicare che il successo nasce da noi stessi e non da fattori esterni, come la riconoscenza del pubblico. Grazie all’esperienza di Massimo, abbiamo descritto situazioni di vita vissuta. Di com’era la musica quando esisteva ancora un percorso artistico. Di com’è diventata oggi. Chiunque faccia “ricerca”, sia essa sperimentale o tradizionale, sposa la filosofia di “Rock The Monkey!”, perché è alla Scimmia della Musica che noi guardiamo, non al linguaggio utilizzato. Per questa ragione, stiamo organizzando seminari nelle scuole (non solo di musica): a febbraio saremo in due eventi in una delle più importanti scuole milanesi, davanti a ragazzi di medie e liceo. E in futuro vedo benissimo una collaborazione con chiunque sperimenti percorsi alternativi di musica, anche in queste occasioni di “testimonianza” per i giovani.

Massimo: concordo con David e ribadisco che il successo è dentro di noi. Cioè tutte le volte che riusciamo a “catturare” nel buio cosmico un gruppetto di note che insieme formano una grande melodia. Anche Battisti era uno sperimentatore, ma è stato anche un artista molto popolare. Sperimentare non vuol dire “ora faccio qualcosa che capiamo in pochi”. Questo è bieco provincialismo!

Grazie mille della disponibilità.
Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto. Poi, se volete, rispondetemi.
David: cito due frasi di Rock The Monkey! a me particolarmente care: “Se sarai tu a cullare la scimmia, avremo vinto” e “tutto il resto è da raccolta differenziata”.

Massimo: ma chi è ‘sto Massimo Luca?

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Hysterical Sublime: esce il videoclip di Colour!

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In concomitanza con l’uscita dell’uscita dell’omonimo Ep, gli Hysterical Sublime pubblicano il video del brano “Colour”, per la regia di Luca Trevisani. La clip è stata realizzata negli spazi del Museo Macro in Testaccio, a Roma. Godetevela:

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Boxerin Club – Aloha Krakatoa

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C’è poco, pochissimo da dire di Aloha Krakatoa, ultimo disco dei Boxerin Club: ma c’è tanto, tantissimo da provare, sulla propria pelle e nelle proprie orecchie. Aloha Krakatoa è un disco freschissimo, dove finalmente possiamo vedere un gruppo (italiano) che evita la trappola dei generi e delle etichette per regalarci undici tracce di variopinta festa sonora. I Boxerin Club suonano una musica perlopiù solare, danzereccia, tropicale, tra chitarre acute e frizzanti, percussioni assortite, cori orecchiabili, ritmi frenetici, trombe, marimba… un portale magico pronto a scaraventarci su una spiaggia all’equatore con la semplice pressione del tasto play.

Il disco è un vero frullato di stili, un concentrato di tutto ciò che può trasportarci al sole e all’estate in qualsiasi momento di una qualsiasi fredda giornata qualunque. Alcuni episodi spiccano per numero di trovate e per riuscita del trucco magico (penso a “Bah Boh”, ultimo brano composto, in cui si sente di più la mano del produttore – Marco Fasolo, già nei Jennifer Gentle –, o al primo singolo, “Caribbean Town”, o, ancora, alla più datata “Hedgehogs”, che i cinque Boxerin Club hanno fortunosamente eseguito anche per strada davanti ad un sorpreso Puff Daddy o come diavolo si fa chiamare ora), ma anche il resto del disco regala momenti di calore vario (“Cloud’s Roll Away”, “Boys Are Too (Lazy)”), o attimi più sospesi ma sempre esotici (“Northern Flow”, “It Takes Two to Tango”, “Clown”, “Try Hocket”), per poi terminare con i ritmi indiavolati e le voci rilassate di “Black Cat Serenade” e la sua coda strumentale da manuale.

Aloha Krakatoa è un disco d’evasione, ma ce ne fossero… Un disco che non si spaventa nel voler divertire, nel voler far ballare e sballare, così pieno di ritmo, luce, calore, in ogni piega, in ogni angolo. Ai Boxerin Club il merito di averlo saputo mettere in piedi senza preoccupazioni, senza affanni, ma con la voglia intensa e sincera di suonare liberi e divertenti. A noi, invece, la possibilità di gustarcelo almeno fino a questa estate.

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Rainska – Media Stalking

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Ci sono voluti ben cinque anni per sfornare il primo disco dei Rainska, Lo Specchio delle Vanità ed altrettanti per la loro seconda fatica discografica, Media Stalking. Prodotto con l’etichetta discografica Udedi, registrato presso gli studi de La Baia dei Porci di Nereto, e mixato e masterizzato presso l’Indie Box MusicHall di Brescia, il disco vede la partecipazione di Totonno DUFF nell’opening “Le Bocconiane”, Maury RFC ne “Il ‘93” e Clode LAZULI in “500 Lire”. Oggi lo Ska (o Bluebeat, chiamatelo come volete) non è certamente più di moda come quando nacque nei primi anni Sessanta quando da esso derivarono altri generi che poi divennero persino più famosi quali il Reggae e il Rocksteady. Lorenzo Reale (voce), Angelo Di Nicola (chitarra e voce), Giulio Di Furia (basso e voce), Lorenzo Mazzaufo (batteria), Pierpaolo Candeloro (sax), Eliana Blasi (tromba) e Martina D’Alessandro (sax) ce la mettono tutta quindi per emozionare l’ascoltatore sin dall’incipit della già citata “Le Bocconiane”.

Il risultato è certamente egregio, ma forse da un gruppo che ha festeggiato il decennale della carriera (pochi vi riescono) ci si aspettava anche qualcosa di più. Gli spiriti di Madness e The (English) Beat per fortuna rimangono costanti con i sette teramani sino alla fine garantendo loro un buon fine. Un ulteriore sforzo poteva essere fatto inoltre anche a livello di testi, talvolta troppo semplici ma certamente di sicuro effetto ed il sospetto è che si sia badato più agli arrangiamenti dei fiati che a tutto il resto. Del resto di esperienza ormai ne hanno accumulata talmente tanta da garantire loro la presenza su prestigiosi palchi al fianco di artisti famosi quali Shandon, Punkreas, Velvet, Piero Pelù, Teatro degli Orrori, Giuliano Palma & The Bluebeaters, Paolo Benvegnù, Linea 77, Vallanzaska, Africa Unite e Bandabardò. Dopo tanti e ripetuti ascolti ci si abitua anche al sound che a tratti ricorda persino quello della premiata ditta Sting / Summers / Copeland, ovvero dei Police, e talvolta persino quello del Punk anni Novanta dei Green Day e degli Offspring. Consigliato a chi vuol passare quaranta minuti circa in allegria, da evitare per chi non sa apprezzare Ska e Reggae.

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Torna A Night Like This Festival

Written by Senza categoria

L’Associazione culturale milanese A Night Like This ha festeggiato l’inizio del nuovo anno annunciando la data della terza edizione di A Night Like This Festival.
La ormai collaudata formula della manifestazione musicale indipendente, composta da oltre 20 artisti, tra band italiane ed internazionali e DJ su tre palchi nel cuore di Chiaverano (ai piedi della bellissima Serra Morenica nel Canavese), avrà luogo SABATO 19 LUGLIO 2014 .
Chi si fermerà a dormire nel camping di fronte al Lago Sirio, o in una delle strutture convenzionate, potrà assistere anche quest’anno ai live unplugged sulla piattaforma del lago previsti per l’aftershow del giorno successivo a completamento di un perfetto week end di musica e relax in un contesto naturale mozzafiato. Ancora nessuna anticipazione sulla line up, ma le premesse per soddisfare l’esigente pubblico di A Night Like This Festival ci sono tutte.
Seguiranno anche i dettagli sulle strutture in convenzione e i collegamenti dalle grandi città, supportati come sempre dal servizio navette dalla stazione di Ivrea.

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La Band della Settimana: The Pussywarmers

Written by Novità

Il quintetto svizzero si appresta a tirare fuori I Saw Them Leaving, il terzo album in studio in uscita il 28 febbraio per l’italiana Wild Honey Records. Il disco del gruppo d’oltralpe vede, per la prima volta, la partecipazione aggiuntiva dell’artista ungherese Réka che sarà con la band anche durante il tour di promozione che farà seguito all’uscita dell’album. Il primo singolo tratto dal full length è “Something You Called Love”, il cui videoclip nasce proprio da un’idea di Réka e del produttore del disco, Nene Baratto (bassista dei Movie Star Junkies) ed è realizzato dalla stessa artista con la tecnica dello stop-motion. The Pussywarmers, sono loro la nostra Band della Settimana.

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