Il nostro resoconto artista per artista della seconda giornata dell’imperdibile e prezioso festival che si tiene a Guastalla, giunto ormai alla sua quindicesima edizione.
Testo e foto all’interno di Gabriele Sottocornola
Senza averne mai sentito parlare prima, nell’ultimo anno ho incrociato in almeno quattro differenti occasioni il nome di questo piccolo ma mitologico festival sperduto nella campagna emiliana coprodotto e promosso da Maple Death Records, una delle realtà italiane più interessanti e preziosi in ambito underground e sperimentale. Handmade Festival, un nome (se mi posso permettere) forse un po’ troppo fricchettone per suggerire una buona qualità nella proposta musicale, che invece traspariva dalle interessantissime line-up degli anni passati.
Tutte le persone che me ne parlavano (e che avevano già vissuto alcune delle precedenti edizioni) spendevano parole oltremodo entusiastiche per descrivere l’esperienza del festival. Decido quindi di dare una chance all’evento e lo segno sul calendario dei potenziali live del periodo, insieme alla garanzia del Rock In Riot bergamasco, la data ferrarese degli Stereolab e il classico Beaches Brew a Ravenna.
Arrivati al dunque a poche settimane dall’evento, rapito da una line-up a dir poco stratosferica – Moin e Jon Spencer su tutti – e favorito dalle circostanze della vita, mi decido a presenziare alla data di domenica (la più succosa, per quanto mi riguarda) da concatenare con la serata ferrarese dei miei amati Stereolab, due giorni dopo.
Dopo una breve tappa al B&B, alle ore 13 in punto mi trovo all’ingresso del festival. Ad una prima impressione, l’area concerti (che include ben tre palchi e un’ampia area ristoro al centro) mi pare un po’ sacrificata e l’insieme conferma il preconcetto di sagra di paese dalla spiccata anima rurale e dalle sfumature hippie/new age (come ce ne sono tante in questo periodo in Italia). Nonostante sia ancora presto per i concerti e le temperature elevate, ci sono già numerose persone all’interno dell’area, concentrate soprattutto nell’area cibo e negli stand artigiani. Fedele alla linea, ordino anche io il mio bel piatto di salamella e patatine e mi preparo all’inizio delle danze.

Silenzio Primo
Sto dando gli ultimi morsi alla salamella, quando i Silenzio Primo aprono le danze del’Handmade domenicale. Sono le 13:30 spaccate e il sole batte violento sulle nostre teste, ma i ragazzi suonano un convincente e corposo darkjazz tromba/contrabbasso/batteria che ci trasporta in un qualche club (of gore) lynchiano. I nostri sono all’esordio e hanno un disco in uscita. Chi ben comincia…
Entrance
Ci spostiamo sul secondo palchetto e ci accoglie un allampanato e solitario giovanotto dal monicker Entrance. Il ragazzo propone un dilatato folk semiacustico denso di riverberi dal sapore vagamente psichedelico. La timida voce strascicata lo pone a mezza via tra un Mount Eerie meno sperimentale e un Sufjan Stevens più riflessivo. Il contesto rurale e l’orario insolito sono perfetti per godere di un set straordinariamente intimo ed emozionante.

Jack Name
Il palco principale viene inaugurato da un altro artista in solo, Jack Name, cavallo di razza della scuderia Maple Death Records. Le coordinate artistiche non sono lontane da quelle dell’esibizione precedente, ma la dispersività del palco “grande” penalizza un po’ l’impatto emotivo. Per sfuggire al solleone emiliano mi rifugio sotto il gazebo del mixer da cui riesco a godere appieno della ricchezza compositiva degli arrangiamenti. Dopo un inizio un po’ sottotono, il nostro prende fiducia e ci accompagna in un bel viaggione psych/space/alt-folk a base di synth, loop e arpeggi.
Osama
Prima pausa tattica per recuperare le energie e mentre siedo ai tavoli di fronte al palco B, attaccano gli italiani Osama. Sicuramente una delle band più classicamente rock dell’intera giornata: da principio mi paiono uno dei numerosi emuli del garage alternative americano, avvicinandomi meglio noto nello stile influenze darkwave (Sisters of Mercy, per intenderci). L’insieme non riesce a convincermi fino in fondo.
Graham Reynolds
Uno degli eroi del festival. Un elegante cinquantenne texano, capello castano fluente, vestito in abito lungo total black da countryman texano nonostante l’afa. La performance è allucinata e sognante, tre lunghe suite tra rumorismo sperimentale (ad una certa batte in terra dei piatti da batteria), musica classica/soundtrack (ha composto numerose colonne sonore per Richard Linklater) ed elettronica, anche accompagnata da sample vocali di Marta Del Grandi.

Francesca Bono
Si torna sul palco grande per un altro picco della giornata (e stavolta me lo vado a godere in transenna). Francesca Bono si esibisce in trio con Egle Sommacal (chitarrista storico dei Massimo Volume) e Francesca Baccolini (che, leggo ora, collabora con Dino Fumaretto).
Saranno 45 minuti in cui assistiamo a qualcosa di magico: una performance ipnotica, con una sinuosa Bono, voce e chitarra, che alterna registri da musa chanteuse ad altri più spiccatamente post-punk, lo sciamano Sommacal al solito immenso nel dipingere scarni paesaggi post-rock seduto di fronte ad una sterminata pedaliera e la Baccolini, divisa tra sintetizzatori e basso, a sostenere il trio con un ottimo complemento ritmico. La migliore esibizione di tutto il pomeriggio domenicale dell’Handmade.

TV Dust
Tocca all’unico gruppo che avevo già incontrato e avuto modo di apprezzare in precedenti live. Nella nuova formazione in trio basso/sax/batteria (anch’essi con un album appena pubblicato per Maple Death), propongono un movimentato e danzereccio jazz/funk con elementi no wave. Mi pare un set più confusionario del solito, penalizzato anche dalla posizione del palco B (vicino a zona ristoro e dj set). La gente comincia ad accalcarsi sotto il palco e pare apprezzare. Io mi defilo e ascolto distrattamente girando tra gli stand.
Lael Neale
Si torna in una zona più consona all’ascolto sul palco C. Qui ritroviamo Entrance in veste di musicista che accompagna la cantante Lael Neale. I riferimenti musicali sono chiaramente quelli della scuola Sub Pop, il bedroom pop e le nuove leve di folk-singer americane (da Adrianne Lenker ad Angel Olsen). La cantautrice si esibisce in un convincente set electro/indie-folk molto delicato e dreamy. Il risultato finale è tanto sognante e leggero quanto quadrato ed efficace.
Milan W
Grande hype anche per l’esibizione di Milan W di nuovo sul palco principale, il quale mi viene presentato come un genietto della neo-psichedelia fiamminga. In effetti ci troviamo di fronte alla formula psych folk che fa da leitmotiv alla giornata domenicale del festival, ma declinata in maniera ancora più “storta” (con tutta l’accezione positiva del caso).
Di sperimentazione in sperimentazione, Milan, accompagnato da altri due musicisti, ci propone un live molto eterogeneo che spazia dalla new wave synth-centrica e danzereccia, al folk più tradizionale dominato dagli arpeggi di chitarra classica, passando per intermezzi jazzy e post-rock atmosferico. La gente comincia ad essere davvero tanta sotto il palco e tutti mi sembrano particolarmente catturati dalla performance.

Laura Agnusdei
Arrivati al giro di boa della giornata, il fisico comincia a cedere e il palco B è sempre più funestato dal DJ set limitrofo e dalla calca di gente tra bar e stage. Mi accomodo in un angolo “tranquillo” lato palco e, nonostante la situazione mi sembri molto interessante, non riesco a cogliere tutte le sfaccettature dell’esibizione. Laura Agnusdei al sax e sintetizzatori si accompagna con altri due musicisti (percussioni, tromba e tanti effetti), per quello che pare un interessante proposta ambient-jazz in salsa new age. Ma per il momento mi astengo da giudizi.
[Fast-forward. Ho la fortuna di recuperare la loro esibizione in apertura della data ferrarese degli Stereolab, in un contesto più focalizzato all’ascolto e non posso che confermare le ottime impressioni sul trio, che nel giusto mood ti lancia in un viaggio orbitale intorno ad un pacifico pianeta alieno.]
Concentration
Recupero una fetta di pizza e una bevanda zuccherina per garantirmi la sopravvivenza alle prossime ore di live e sul palco si approssimano i Concentration, caleidoscopica band australiana. Il genere oscilla tra elettronica e musica d’avanguardia (si avvistano dei fiati sul palco) e un electro-pop-punk industriale e drogato. Il fulcro dell’esibizione (che potremmo definire, in maniera paracula, situazionista) sono i due vocalist che urlano frasi scabrose e pruriginose al microfono in atteggiamento artisticamente provocatorio. Il tutto mi risulta un po’ troppo kitsch, confusionario e fuori fuoco (soprattutto in un contesto come quello). Un mio limite sicuramente, ma assisto svogliato ed indifferente per l’intero set.
Memorials
Il karma musicale viene ristabilito dal gruppo successivo che si esibisce (quasi in sovrapposizione per far fronte al ritardo accumulato) in un set più “tradizionale”, molto debitore alla psichedelia e allo shoegaze UK di fine millennio. Molta classe ma anche parecchi muscoli in questa coppia di musicisti lui/lei che si destreggia tra sostenuto drumming krautrock, chitarre acide che lambiscono il wall of sound, raffinate melodie e vocalizzi eterei. Camaleontici, coinvolgenti e inafferrabili, hanno saputo costruire un riuscito set retromaniaco.
Moin
Qui non mi voglio dilungare molto. Le aspettative erano altissime e sono state persino superate. Un’ora scarsa di godimento in cui viene sublimato tutto quanto di buono avevamo ascoltato fino a quel momento: psych rock, jazzcore, post-punk, ambient dub. Si sta parlando della performance dei Moin, ovvero i Raime combinati con Valentina Magaletti, che, vista dal vivo, è la definizione stessa di “poetry in motion”. Potenza e precisione al servizio di un’idea originale di musica, non possiamo chiedere di più. Se avete l’occasione andate a vederli, non rimarrete delusi.

Holiday INN
Mi giunge voce che questi Holiday INN siano una formazione culto della scena clubbing underground romana e, non avendoli mai incrociati neppure digitalmente, sono molto curioso di assistere alla loro performance. Purtroppo sono anche provato dalle precedenti esibizioni e decido di stendermi sul prato lato palco e gustarmi il concerto nel chill.
Il duo voce ed elettronica propone comunque una godibilissima minimal techno senza fronzoli e dal grande impatto sul pubblico. L’incisiva esibizione viene funestata da qualche piccolo problema tecnico al microfono e viene prematuramente sacrificata (il cantante era nel pieno del consueto, mi dicono, spogliarello) per lasciare spazio al piatto forte della serata, avendo ormai accumulato quasi un’ora di ritardo sulla schedule.
Jimi Tenor
Prima della suddetta portata principale, un’altra particolare esibizione solista, probabilmente la più strana dell’intero festival. Jimi Tenor, un dandy finlandese vestito in abiti afro/gospel che propone un’elettronica downtempo arricchite da venature jazz date da clarinetto e sax. La musica è una commistione di diverse influenze (forse troppe) che arrivano anche a lambire la disco music anni ’80 (con tanto di cantato in falsetto). Faccio fatica ad inquadrare bene il senso dell’intero set, ma comunque apprezzo la sua godibilissima peculiarità e mi riprometto di approfondire al rientro.

Jon Spencer
Finalmente un po’ di “fucking rock” senza fronzoli a sgrassare tutta questa indigestione di jazz, elettronica e sperimentazione. Il nostro Jon Spencer (voce e chitarra) si presenta sul palco accompagnato da due baldi giovani al basso e batteria per deliziarci con il suo garage blues senza compromessi. L’intenzione del trio è messa subito in chiaro dall’attacco del primo brano, con Jon Spencer a sfoggiare un gran tiro di voce, volumi delle chitarre belli alti e il batterista ad esibirsi in esercizi ginnici prima di attaccare il drumming. Il set si mantiene energico e tirato per tutta la sua durata di oltre un’ora, e i nostri non si risparmiano: intrattenendo e interagendo con il numeroso e caldo pubblico rimasto sotto il palco ben oltre la mezzanotte.
Un plauso particolare in particolare al “grande vecchio” Jon che mantiene la stessa energia da predicatore blues per tutta la durata del live senza risparmiarsi e dirigendo come un sol corpo i suoi giovani musicisti/scudieri e il pubblico in estasi. Lo zenit avviene quando vengono riproposte in rapida successione delle versioni dei grandi classici dell’album Orange dei Blues Explosion, ovvero Bellbottoms e Sweat.
Christopher Owens
Le forze sono ormai allo stremo, ma mi riprometto di assistere anche all’esibizione conclusiva di questo straordinario festival. Mi accascio su una panca, mentre i volontari intorno stanno terminando di ripulire e sistemare le aree ristoro. In questa atmosfera di malinconica sospensione, che non sfigurerebbe in un film di Bogdanovic, sale sul palchetto laterale deliziandoci con raffinati arpeggi folk un introspettivo Christopher Owens. La situazione non potrebbe essere migliore, ma devo raccogliere le ultime energie ed incamminarmi verso l’uscita con gli ultimi inossidabili, sulle flebili e malinconiche canzoni dell’ultimo artista, prima di rischiare sul serio di addormentarmi nel parco.
***
Riflettendo sulla straordinarietà di quanto ho appena esperito: diciassette esibizioni di artisti internazionali più o meno di nicchia, ma indubbiamente sempre di ottimo spessore artistico, per oltre undici ore di musica filata, in un contesto agricolo e sospeso, direi magico, alle porte di uno sperduto paesino della pianura del Po. Riflettendo su tutto questo, dicevo, mi rendo conto di quanto possa ritenermi fortunato ad avere avuto modo di vivere fino in fondo questa giornata di “Primavera Sound padano” e di quanto questa esperienza, unita alla mia FOMO, così fisicamente ed emotivamente intensa rappresenti la mia “cosa divertente che non farò mai più” (almeno fino al prossimo Handmade Festival).
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Last modified: 21 Giugno 2025