In The Modern World cose del genere non dovrebbero mai più capitare. Non una ma ben due voci per raccontarvi come sono andate le cose giovedì scorso.
All’uscita di Romance, molto si è detto tra di noi sui nuovi Fontaines D.C. e sulla consacrazione sull’altare del mainstream di una band che abbiamo amato sin dall’esordio, al punto da sentire il bisogno di dedicargli una recensione a più mani – quasi tutte quelle di cui disponiamo in redazione – che alla fine assomigliava più a una seduta di terapia collettiva con cui superare il lutto, ognuno a suo modo.
Se ve la siete persa, la trovate qui, ma non è di questo che vogliamo parlarvi. Abbiamo un nuovo trauma da elaborare. È che in molti tra noi hanno ceduto alla tentazione di andare a vederli dal vivo, perché nonostante tutto gli vogliamo ancora un gran bene e perché credevamo di poter reggere gli effetti della nuova veste fluo in termini di affluenza e varietà del pubblico, così come ci illudevamo che saremmo sopravvissuti all’ostilità delle venue che in Italia ospitano i grandi eventi live – ci illudevamo così tanto che qualcuno di noi è finito persino nelle spire fatali dell’ippodromo delle Capannelle di Roma.
Giovedì scorso al Kozel Carroponte di Milano c’erano Francesca e Virginia, speranzose di beccarsi da qualche parte tra un brano e l’altro. Noi pubblico da casa aspettavamo che ci mandassero un selfie, ignari del fatto che non c’era alcuna possibilità che si incontrassero, entrambe troppo occupate a cercare di sopravvivere. Ma lasciamo che siano loro a raccontarvi com’è andata.

Nessun romanticismo
(di Virginia Bronzini)
Non c’è sensazione peggiore di mettersi a letto dopo una lunga giornata per scoprire un minuto dopo che ti devi alzare per fare la pipì. È un momento che tutti condividiamo e che a tutti sta sul cazzo.
Ecco, una volta entrata nel pit – inventato di sana pianta – sotto al palco del Carroponte, dovrai metterti il cuore in pace che la pipì non la farai più per le prossime quattro o cinque ore. Se invece cederai a questo fastidio, il meno peggio è che perderai i tuoi amici, parenti, congiunti che hanno una vescica più forte della tua. Nello scenario peggiore, uscirai dallo spazio che ti sei guadagnata (solo perché sei arrivata con grande anticipo) per buttarti in una folla indiavolata che ti spingerà con ragione alla transenna perché, nonostante abbia speso la stessa cifra tua, quello è il posto che gli è stato assegnato. Sovraffollamento. E la maggior parte delle persone presenti non vedrà e soprattutto non sentirà nulla.
Gli shame arrivano, sono carichi e non meritano di passare sottotraccia come accade in questa ambientazione che non solo non sa fornire loro una risposta all’altezza, ma nemmeno dei volumi adeguati. Cutthroat funziona dal vivo, così come Cowards Around. La magia di Adderall riesce a raccogliere una nuova manciata di seguaci, ma grazie al cielo Charlie Steen ricorda che non è tutto lì ciò che sanno fare. “Ci vediamo ai Magazzini Generali”, e se ne va via così, con un invito a seguirli in tour. Da qui in poi finirà l’ultimo sudore animale della giornata, perché il concerto dei Fontaines D.C. sarà come accarezzare una lastra di plexiglass e cercare di ottenerne lo stesso piacere che si trae accarezzando l’erba.
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Il mio è un parere strettamente personale, ma credo che quando un qualsiasi artista riesce a portare all’attenzione del pubblico discorsi legati alle radici, all’identità – a far interessare le persone alla storia del proprio paese, della propria lingua, per me ha già raggiunto l’obiettivo massimo auspicabile.
In questo concerto, questo sapore si è perso completamente. Già sapevamo che Romance è un album in cui molti di questi aspetti sono stati otturati e accecati dall’attraente verde fluo che ne pervade la narrazione. Ma una parte dei Fontaines è morta, e ce ne si rende conto vedendoli sul palco. Si ha la sensazione che l’obiettivo, a questo giro, sia tenere alta l’attenzione con una scaletta potente ma senza urgenze comunicative.
L’urgenza ricompare solo verso la fine, quando I Love You, già e per sempre pezzo epocale, viene utilizzato per portare l’attenzione sulla Palestina e sul fatto che ognuno di noi può e deve riflettere, parlare. “Israel is committing genocide, use your voice”. Anche per questo, rispetto ai live scorsi, il brano è scandito più lentamente e non accelerato con veemenza. Il messaggio deve passare.
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Ma per quanto riguarda la rabbia “minore” che ci ha fatto innamorare della band irlandese, come quella di Boys in the Better Land – in cui si rivede chiunque abbia provato il desiderio di una vita migliore per poter esprimere liberamente il proprio essere – quella è dispersa, volatilizzata, in un incastro fatto per fare un po’ di singalong. It’s Amazing to be Young, per esempio, resta comunque uno “scarto” dell’album che si prova a nutrire come un animale destinato al macello. Romance, l’intro dell’album utilizzato in questo caso per dar via al secondo atto del concerto, si conferma il momento più sinceramente toccante dell’ultimo lavoro, ma questa volta, un po’ per la condizione scomoda della location un po’ per i volumi indegni, smette di farmi avere rombi di motore e farfalle nello stomaco.
Insomma, dateci tutto, ma lasciateci sperare ancora di vivere in un mondo in cui il fatto che Carlos O’Connell indossi collane di Chopova Lowena sia meno rilevante del fatto che le nostre radici, la nostra rabbia, il nostro schifo, sono ciò che ci rende commoventi e degni di stare mondo.
Ma che CARRO succede?
(di Francesca Prevettoni)
When you speak, speak sincere
And believe me friend, everyone will hear
(Fontaines D.C., “A Hero’s Death”)
Risalgono ad esattamente tre anni fa le mie proverbiali “ultime parole famose” sui Fontaines D.C., al termine del loro concerto milanese al Magnolia a giugno 2022. Penso che probabilmente quella sia stata per me l’ultima buona occasione di godermi lo show dell’ormai inflazionatissima band di Dublino in un contesto modesto e tutto sommato ancora abbastanza vivibile. Come una palla di cristallo, l’accessibilità melodica di Skinty Fia ci aveva già offerto qualche azzeccata previsione su Grian Chatten e soci: cresceranno, si evolveranno, diventeranno inarrestabili. Con Romance questa ipotesi profetica si è innegabilmente concretizzata.
Ero fortemente in dubbio sul fatto di volerli rivedere ancora una volta, ma non avevo considerato una variabile cruciale. Il successo pop dei Fontaines D.C. ha portato gli stessi ad una crescita esponenziale della loro fanbase, nella quale ora milita orgogliosamente una persona che ha un nome ed un cognome, ma io da 33 anni a questa parte chiamo semplicemente “mamma”. E che fai, non ce la porti tua madre a vedere il concerto di una delle tue band più ascoltate degli ultimi anni? Presto, cerchiamo i biglietti, il concerto è sold out ma facciamo un tentativo su Fansale. La location è il Kozel Carroponte, a mezz’ora di autostrada da casa, un luogo di cui conservo molti piacevoli ricordi di serate estive all’insegna di musica dal vivo, divertimento e organizzazione sempre impeccabile.
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Conservo? No, scusate, mi correggo. Conservavo, fino alla sera dello scorso 19 giugno. Quella serata che doveva essere un ricordo indelebile e si è invece trasformata in un incubo. Dopo un’interminabile ricerca di parcheggio, arriviamo all’ingresso verso le ore 20 – orario di apertura dei cancelli, come dichiarava il post Instagram pubblicato a proposito dell’evento stesso. Peccato che l’area adibita al concerto sia già affollatissima, e qui giustamente osserverete che non sia nulla di strano, ci sono i fan più sfegatati appostati strategicamente fin dalle prime afose ore del pomeriggio, ma ciò che mi sconvolge è la visione raccapricciante di una fila chilometrica che costeggia tutto il perimetro esterno ed interno del parco, procedendo lenta e assorta come una straniante Via Crucis. Sì, mamma, queste sono tutte le persone che devono entrare al concerto, dobbiamo fare i controlli di sicurezza, non preoccuparti, sarà veloce.
In qualche modo mi rivelo essere estremamente profetica (e fortunata). Alle 20.30 spaccate salgono sul palco gli shame e attaccano a suonare il primo pezzo e di colpo gli addetti alla sicurezza sembrano rinsavire, cercando di affrettare l’afflusso di gente facendo pressione e utilizzando toni e modi tutto fuorché cordiali e appropriati – forse già intimoriti da una possibile rivolta di tutti coloro che vorrebbero soltanto varcare quella soglia e assistere anche allo spettacolo dell’opening act. Il mio zainetto supera i controlli totalmente inosservato, così come quello di moltissimi altri presenti. Avessi avuto un coltello nascosto nella borsa, qualsiasi altro oggetto contundente, infiammabile, esso sarebbe transitato senza alcun problema in un luogo dove erano presenti – a detta della stampa – ben 12.000 partecipanti, molti di più rispetto alla reale capienza della location. Qualcuno degli addetti ci spinge e ci esorta a lasciar passare il resto della folla: detto con un gesto, ma letteralmente un gratuito “andate fuori dalle palle”. Ci facciamo strada fra la calca e ci posizioniamo in un punto leggermente laterale rispetto al palco e, col senno di poi, adesso posso affermare che quella sia stata la miglior scelta della serata.
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Sin dalle prime note di Jackie Down The Line, visibilità e acustica risultano fortemente compromesse e ostacolate. Poteva andare peggio, penso, potevamo finire dietro un albero o una colonna come quei poveretti che vedo laggiù in fondo e scommetto non si stiano divertendo per nulla. Mi sposto per garantire la visuale migliore a mamma, che nonostante tutto è felicissima, osserva con interesse i suoi nuovi beniamini attraverso quell’angolo minuscolo di maxischermo, canta e muove la testa a ritmo. Cosa ci posso fare? Ormai sono qui. Non ha senso rovinarmi la serata, trascorrerla lamentandomi con i miei compagni di concerto disturbando anche quel poco che ci è concesso di sentire e andando contro i miei stessi principi (se c’è una cosa che non sopporto è proprio l’inutile chiacchiericcio durante un live). Quindi cerco di godermela per quello che è: uno spiraglio di luci colorate, un suono un po’ ovattato ma entusiasmante. Perché, tralasciando tutto ciò che è possibile criticare in questo contesto infernale (e ci sarebbe di più, molto di più da elencare), i cinque irlandesi continuano a dimostrare un’energia e una profondità fuori dal comune.
Una scaletta più varia che mai pesca a piene mani dai primi vagiti di Dogrel, risale lungo le memorie di una pandemia infinita trascorsa ascoltando A Hero’s Death, passa ripetutamente da Skinty Fia (con una straordinaria Big Shot, il pezzo che ho preferito a mani basse) e si sofferma sugli sgargianti abbagli fluo dell’acclamatissimo Romance. Nonostante massacranti mesi di tour alle spalle, i Fontaines D.C. mi appaiono in forma: la voce di Grian Chatten è quasi ineccepibile, la potenza sprigionata dai brani più trascinanti è contagiosa, l’atmosfera creata da quelli più riflessivi è di una bellezza rara e misteriosa. Mi domando a questo punto quanto ci saremmo potuti godere questo straordinario show, se solo l’organizzazione dello stesso ne fosse stata all’altezza.
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La mattina seguente amici e conoscenti mi riferiscono concitatamente di un pit non preventivamente dichiarato (la prevendita dei biglietti menzionava “posto unico”), creato a forza con delle transenne difese prepotentemente da addetti alla sicurezza e polizia, dell’impossibilità di muoversi liberamente anche solo per recarsi ai servizi o a comprare dell’acqua, di persone che si sono sentite male nell’impossibilità di ricevere tempestivi soccorsi. Io mi limiterò solamente a parlare di ciò che ho vissuto, e non certo perché io non creda ai racconti altrui. Eppure, leggendo feedback a caldo sui social e articoli vari sembra quasi che nulla sia mai accaduto. I post Instagram del Kozel Carroponte hanno i commenti bloccati, le disperate lamentele su Facebook vengono prontamente polverizzate dopo qualche ora. Il giorno dopo, i live report della stampa si concentrano su tutti gli aspetti possibili ed immaginabili evitando accuratamente di affrontare l’elefante nella stanza, l’apice assoluto lo raggiunge verso metà mattinata Rolling Stone Italia citando improbabili idilliaci pic-nic sull’erba. Responsabilità, scuse e altri atteggiamenti tipici di una collettività civile? Ad oggi, non pervenuti.
Di molteplici casi di concerti sovraffollati, disorganizzati, al limite della vivibilità e del disagio, questa è solo l’infelice punta di un iceberg che in Italia sembra ormai impossibile da abbattere e che pare avere soltanto una soluzione possibile: il boicottaggio totale di qualsiasi grande evento. Vogliamo parlare dei Magazzini Generali, claustrofobico girone dell’Inferno mai citato da Dante Alighieri ma tristemente memorabile per chi lo abbia mai provato sulla propria pelle? Già che ci siamo, citiamo i sold out di Alcatraz dove la gente è ormai costretta ad assistere agli show con un piede fuori dal locale? Il demoniaco Fabrique e le sue birre annacquate da 8 € (prezzi aggiornati al 2022, non ci sono più tornata)? Quasi mi pento di non aver speso quei 52,80 € per una magra spesa del venerdì sera all’Esselunga, ma quando saliamo in macchina per tornare verso casa il viso di mamma è sorridente, estatico. Mi abbraccia e mi ringrazia per averla portata qui. E io sono felice per lei, sono felice tutto sommato, ma ho quel retrogusto amaro in bocca di chi ha vissuto solo l’ennesimo triste dejà-vu di quella che ormai è diventata una realtà ricorrente.
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Quindi, mamma, se mi stai leggendo: ne parlo perché voglio che il prossimo concerto con te sia davvero indimenticabile. Chiediamo solo trasparenza, onestà, un porto sicuro dove far attecchire e fiorire il nostro amore per la musica dal vivo. È forse chiedere troppo? È troppo chiedere una regolamentazione più chiara, che preveda informative riguardo la capienza delle venue e il relativo numero di biglietti venduti? È eccessivo chiedere di guardare oltre i nostri limitati confini, ristretti dalla FOMO dell’utente medio e dal cieco approfittarsene degli organizzatori, di puntare l’obiettivo verso realtà estere che riescono a gestire il tutto in maniera egregia? È forse troppo chiedere di ridimensionare un mero scopo lucrativo a favore di una maggiore sicurezza e incolumità di ogni partecipante, considerando che fra il pubblico dei Fontaines D.C. ho notato numerosi minorenni accompagnati dai genitori? Quei minorenni che un giorno potrebbero essere i vostri stessi figli, quelli che un giorno vi chiederanno di essere accompagnati ad un concerto, e il giorno dopo sarete voi a pregare di ricambiare il favore. Di bello, ormai, al mondo ne è rimasto poco; alziamo la voce per preservarlo a tutti i costi quando ne abbiamo l’occasione. Io me ne sono presa personalmente ogni responsabilità: di parlarne apertamente e sinceramente, di utilizzare un mezzo a mia disposizione per far presente che qualcosa non va. Ora tocca anche a voi.
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Last modified: 1 Luglio 2025