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Duran Radio | Intervista allo staff della radio web dedicata ai Duran Duran

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Lennon Kelly | Intervista alla Folk band romagnola conquistata dall’Irlanda

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William Basinski @ Superbudda, Torino, 12/04/2016 [PHOTO REPORT]

Written by Live Report

Il compositore sperimentale statunitense William Basinski sta in questi giorni presentando in Italia la sua nuova composizione A Shadow In Time, requiem in memoria di David Bowie. Il Superbudda di Torino ha avuto l’onore di ospitare la prima data di questo breve tour il 12 Aprile.
La serata Ambient Drone è stata aperta dal set del bravissimo Paul Beauchamp che ha preparato il pubblico presente in sala al live dell’artista texano. L’autore delle celebri Disntegration Loops ha poi avvolto la gremita sala con la sua ultima composizione, un’elegia che si evolve lentamente e col passare del tempo si fa sempre più magnetica fino al doloroso, ma estremamente dolce, finale.
Una contemplativa composizione di cinquanta minuti per descrivere l’ombra lasciata nel tempo da una stella già di per sé nera. Basinski sarà nel nostro paese ancora per qualche giorno, chi può non se lo perda.

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #15.04.2016

Written by Playlist

Andrea Fardella – Le Derive della RAI

Written by Recensioni

Un bel disco sofferto, masticato, rimasticato e sputato con rabbia, disillusione, ma anche speranza, anche amore. Le Derive della RAI di Andrea Fardella è tutto questo: è una cavalcata visionaria e allucinata tra il dolore e la salvezza, che non è mai a buon mercato, condotta con piglio nervoso e sguardo impietoso dall’attore/musicista/cantautore.
Fardella scrive in modo personale e intenso, in uno stile che spesso illumina scene pronte a colpire allo stomaco non tanto nella singola immagine, che magari non brilla d’originalità, quanto nell’insieme: un panorama dissestato, crepato, di una nudità impudica di sé e degli altri che forse tanto deve alla sua esperienza d’attore. Qui e là si avverte il rischio di perdersi nelle frange spezzettate di un ruminare denso e continuo, di un getto poco controllato di spurgo psicologico, ma è un rischio limitato a pochi angoli.

Le canzoni, nella loro forma finale, devono moltissimo all’apporto in fase di produzione di Carlo Barbagallo, che le veste in maniera inconsueta e vivace, schivando l’ovvio che certe scelte di scrittura si portano dietro con arrangiamenti sghembi e puntualissimi, dove la batteria di Francesco Alloa pesta e si srotola quasi con un’anima propria. Le stesse canzoni nude, forse, si sarebbero perse in una semplicità un po’ troppo marcata, in andamenti che avrebbero dovuto appoggiarsi solo su voce e parole e che qui possono invece incuriosire e convincere anche quando tirano lungo (penso al finale perfetto di “Petit”, pezzo da nove minuti e dieci secondi che, miracolosamente, fatica ad annoiare).

Altro punto di forza è la voce selvaggia di Fardella, acuta e pungente, animale, quasi, in certi sforzi e in certi lanci, trattata a livello sonoro con effetti che sporcano e distanziano ma che comunque lasciano passare lo slancio, l’afflato primordiale di questa gola nuda e disperata. Sempre più raramente si incrociano cantautori che sanno unire la passione per la parola e per il cantato: qui la connessione è immediata, e la voce e le storie non possono slegarsi. È una voce che può anche non piacere nella sua ruvidezza: potrà pure apparire fastidiosa a qualcuno, ma di certo non annoia.
Le Derive della RAI è un disco in qualche modo claustrofobico: canzoni che si tendono e si gonfiano dentro gabbie e vogliono uscire e urlare, raccontare attimi di vita spesso sofferta in cui la luce è, bene che vada, comunque dietro un angolo; sfoghi, espulsioni catartiche, rigetti e riconquiste. Uniche controindicazioni i suoni acidi, virulenti, e certe già citate scariche a salve, attimi fuori fuoco, brevi scivolate. Per il resto un disco vivo, sentito, “vero” per certi versi, quanto può essere vera una rappresentazione cruda e umida di una sorta di nostra disastrosa, tenace, fragile umanità.

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evoL | Intervista al Pop Rapper dalla provincia alla conquista di Milano

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Flowers and Paraffin – Ricordati di santificare le feste

Written by Recensioni

Pubblicato il 27 Marzo, domenica di Pasqua, Ricordati di Santificare le Feste è il secondo lavoro dei Flowers and Paraffin, giovane band campana che due anni fa realizzò un breve Ep (5 pezzi in 12 minuti) che faceva ben sperare per questo seguito. I sei ragazzi provenienti dalle province di Salerno ed Avellino in questo nuovo lavoro, che si sviluppa in 7 pezzi che scorrono via in 19 minuti, non solo non hanno disatteso queste speranze ma sono riusciti a fare un buon passo avanti evolvendo il loro sound. Questo secondo capitolo porta infatti a maturazione la ricetta del buon esordio accompagnandola a soluzioni strumentali ora divenute più ricche soprattutto nei momenti in cui la band cerca soluzioni diverse (Post Rock, Math Rock, Shoegaze) che diventano ben più dei brevi inserti che si potevano trovare in Caduta e che suonate con la loro inclinazione Emo Post-Punk (senza dunque perdere in immediatezza) portano ad un buon guadagno in intensità. Non manca inoltre una crescita anche nelle liriche sempre basate sulla sublimazione di confusione, incertezze e paure della terra di mezzo dei ventenni nonché sull’immancabile ed altrettanto confuso argomento amore, che in questa seconda prova, nonostante qualche piccolo passaggio a vuoto, guadagnano comunque indiscutibilmente in spessore.
In quasi ogni brano della scaletta vedremo alternarsi momenti musicalmente soffusi ad altri ben più tirati ad accompagnare liriche ora espresse con uno spoken abbandonato a sé stesso ora urlate come per liberarsi da pesi troppo pesanti da portare per una sola schiena (come dichiarato nella conclusiva “Maledetta Gioventù”). Troveremo i momenti migliori nelle ben coese “Conta”, “Cosmo (Andrea)” e “Autoritratto”, brani dove l’incastro tra musica e parole risulterà pressoché perfetto, dove le chitarre ora carezzevoli ora graffianti pur facendo la parte del leone non ruberanno la scena a tutto il resto: una sezione ritmica sempre puntuale e pronta a pestare nei momenti più tirati, un synth che decora con precisione e senza risultare invasivo. In questi brani, che sono anche quelli dalle liriche più intense, troveremo gli incontri meglio riusciti tra l’innato animo Emo Punk della band e le deviazioni in altri territori di cui si parlava sopra e sarà sicuramente possibile sentirci una riuscita fusione, tra i tanti, di Marlene Kuntz, Fine Before You Came e Massimo Volume.

L’idea di terapia di gruppo tra amici segnalata dalla cartella stampa descrive bene l’intenzione dei sei ragazzi e si fa viva anche durante l’ascolto, i testi sono spesso delle confessioni, delle (ri)scoperte di sé che la band accompagna con complicità e riuscendo a creare una discreta tensione, considerando tra l’altro che stiamo parlando di ragazzi ancora giovanissimi che ad oggi in due lavori ci hanno regalato mezz’ora di quel che sono, mezz’ora di questa sofferta crescita che li porterà ad essere quel che saranno.
In estrema sintesi: promossi.

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Wilco, un’altra data in Italia a luglio

Written by Eventi

L’attesa cresce e la notizia provoca il desiderio di superare con un balzo questo inverno che non c’è stato: il 5 luglio tornano a Roma i Wilco, ospiti del palco di Villa Ada – Roma incontra il mondo, grazie a BMU Booking & Management.

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Manifesto, elettronica al Monk Club di Roma dall’8 al 10 aprile | Line-up completa e timetable

Written by Eventi

Manifesto – We Are The Music Makers si prepara per un lungo fine settimana totalmente dedicato all’elettronica e alla sperimentazione con una formula veloce e diretta in cui musicisti e ospiti si alterneranno in una serie di live showcase, set inediti, presentazioni, mostre, incontri e djset.

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Zirkus der Zeit – A Shape in the Void

Written by Recensioni

Probabilmente, tra l’infinità di dischi che ho avuto il piacere di ascoltare negli ultimi mesi, nessuno come questo A Shape in the Void dei liguri Zirkus der Zeit è riuscito a mettermi nella stessa condizione di difficoltà valutativa.

Partiamo dalle prime impressioni e da quei fattori che servono poi a costruirsi un’iniziale opinione; cominciamo da quegli elementi congegnati dal duo e che, inevitabilmente, vogliono innalzare l’asticella del nostro interesse. Un nome in tedesco che significa Il Circo del Tempo; due membri di sesso opposto rintanati sotto gli pseudonimi di V e Z; un album dal titolo in inglese che si traduce in una forma nel vuoto; un artwork minimale, oscuro e accattivante; una foto/disegno che ritrae V e Z in una posa che ricorda un’altra coppia che, come vedremo, è da considerare punto di riferimento dei nostri Zirkus der Zeit. Se l’intento era di rapire la nostra attenzione, ci sono riusciti; quello che resta è andare al sodo con l’ascolto e qui iniziano i dubbi. Tanta “solennità” inizia a sciogliersi col passare dei minuti e la prima cosa che viene voglia di fare è incazzarsi per una sorta di tradimento artistico ma poi subentra la serietà di chi è chiamato a descrivere qualcosa che probabilmente non conoscete (nonostante sia il secondo album) e non avete ancora ascoltato. Quello in cui certamente riesce il duo è, prima di tutto, creare un immaginario che coinvolga reminiscenze che superano la sola musica e fornire elementi per fantasticare e viaggiare nello spazio e nel tempo, nel passato e nel futuro, dentro e fuori i confini del mondo. Quello che colpisce è sicuramente il coraggio, soprattutto di V che crea trame soniche complesse, articolate, dalle continue variazioni e sicuramente non consone alle più ovvie produzioni nostrane. Quello che, invece, diventa il punto debole dell’opera è, prima di tutto la voce di Z, la quale, sopra tappeti sonori contorti e oscuri, prova a fare sfoggio di muscoli ma non regge il peso con la sua timbrica mediocre e una tecnica non proprio fuori dal comune.

Eppure non è solo lei a non convincere perché, se è vero che di V possiamo apprezzarne il coraggio (del resto, in Italia essere coraggiosi, nel senso di diversi non è poi cosa di troppo sforzo) non possiamo dire altrettanto degli arrangiamenti e del sound nel suo complesso, che da più parti si vuol far ricondurre a influenze di prestigio quali NIN, King Crimson, Tool addirittura, ma che in realtà, finisce per forgiare solo una copia non troppo riuscita dei Dresden Dolls in chiave Rock. Sono proprio loro il punto di riferimento principale, o almeno l’accostamento più opportuno, nonostante mai citato a quanto pare, per i nostri Zirkus der Zeit, soprattutto nelle sessioni di piano/voce che sono poi anche le più interessanti. Proprio come la band di Boston capitanata da Amanda Palmer, i liguri lavorano su atmosfere cinematografiche noir, su sonorità da Dark Cabaret, su immagini nostalgiche come sbiadite foto in bianco e nero, alternando poi Piano Rock e un banale Alternative Rock misto a Prog e Metal senza vera convinzione ma che finisce per essere l’unica vera variante notevole dal più noto e già citato duo.

Se dunque la fortuna del duo americano è da ricondursi alla creazione di questo varietà grottesco e circense da Belle Epoque, non si può dire lo stesso di chi cerca di imitarne all’eccesso lo stile e se i primi hanno avuto non solo la capacità di essere primi e diversi ma anche di produrre brani eccelsi e immortali, unendo sensibilità e divertissement ad arrangiamenti notevoli e una voce incantevole e intensa, gli italiani non riescono a colpire nello stesso modo, riducendo il tutto a una sorta d’imitazione basilare che vorrebbe forgiarsi di derivazioni più complesse senza riuscirci.
Detto questo, sembrerebbe ovvia una bocciatura per il secondo album dei Zirkus der Zeit, ma da qui i dubbi palesati all’inizio. A Shape in the Void è come un tema copiato dal primo della classe ma un tema ben scritto, con qualche spunto interessante e comunque diverso dalle banalità di quattro asini che si scopiazzano tra loro senza riuscire a mettere insieme un pensiero decente. Dunque, dopo una serie innumerevole di ascolti, non posso che promuovere il duo, se non altro perché hanno tutte le potenzialità per andare ben oltre quei limiti. L’importante sarebbe iniziare a essere davvero se stessi e partendo da questo presupposto si potrebbe veramente capirne il valore. Avvolgere i Dresden Dolls di fumo e veli neri, di schitarrate e ritmiche pesanti e contorte, non può bastare.

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #08.04.2016

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Derozer | Intervista alla band cult del Punk italiano

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