Experimental Rock Tag Archive

Casa – Nova Esperanto. L’album perduto del 2006

Written by Recensioni

Quindici anni dopo, il vero primo album dei Casa ha più senso che allora.
Continue Reading

Read More

Davide Riccio – New Roaring Twenties / Human Decision Required

Written by Recensioni

Un mastodonte citazionistico carico di strampalata bellezza.
Continue Reading

Read More

Nichelodeon / InSonar & Relatives – INCIDENTI-Lo Schianto

Written by Recensioni

La versione più irriverente e disillusa del genio di Claudio Milano.
Continue Reading

Read More

General Error – The Axe (For the Frozen Sea Within You)

Written by Recensioni

Un muro di suono pronto a cadere a pezzi sopra di noi.
Continue Reading

Read More

下山 [Gezan] – 狂 [Klue]

Written by Recensioni

Rock sperimentale dal Giappone, talmente strampalato che finisce per rivelarsi incantevole.
Continue Reading

Read More

Farboro – Post

Written by Recensioni

Dal midwest al sud, un rumoroso inno ad una terra malinconica.
Continue Reading

Read More

The Garden – Kiss My Super Bowl Ring

Written by Recensioni

Era da bel po’ che assurdità e bellezza non dimostravano di avere tanto in comune.
Continue Reading

Read More

Recensioni #21.2018 – Haiku Garden / Petrolio / Whispering Sons

Written by Recensioni

Xiu Xiu – Plays the Music of Twin Peaks

Written by Recensioni

Probabilmente non esistono molte persone nel mondo occidentale che non associno il nome Twin Peaks al capolavoro di David Lynch d’inizio anni 90. Se qualcuna di queste però sta leggendo la mia recensione, sappia che si tratta di una serie televisiva realizzata dal maestro del surrealismo cinematografico che racconta della morte della giovane Laura Palmer e delle indagini che ne sono seguite dentro una misteriosa cittadina al confine tra Stati Uniti e Canada. Chi sa di che parlo troverà riduttiva e semplicistica la mia descrizione ma non è questo il luogo per parlare della pellicola che invito tutti a riscoprire, in attesa dell’agognato seguito. Quello di cui discutiamo oggi è invece l’ultimo lavoro di una band meno nota del telefilm ma che meriterebbe più attenzione e almeno una volta nella vita una vostra presenza a un live.

Gli Xiu Xiu sono un’eclettica formazione californiana che ruota attorno al talento di Jamie Stewart e che, nel corso degli anni, ha visto più di una volta stravolto il proprio stile tanto quanto la sua compagine. Partendo da una materia prima New Wave, hanno esordito con lavori sperimentali degni di nota come Knife Play o A Promise di stampo sintetico ed elettronico, profondamente inclini ad ambientazioni malinconiche, sconfortate, mortifere, tragiche, tutto fino al capolavoro Fabulous Muscles in cui, mantenendo intatti i punti fermi estetici, hanno amplificato la loro vena Art Rock al massimo. Da qui in poi (era il 2004) hanno messo al mondo un numero impressionante di opere che non hanno disdegnato di accarezzare territori diversi e più morbidi come il Pop (“Angel Guts: Red Classroom”) ma anche lo Spiritual e l’Avant Rock oltre ogni immaginazione, con pochi lavori degni di nota e tante porcherie, specie in tempi recentissimi con Neo Tropical Companion Hearts, Tired of Your World… Peru e Kling Klang eppure quello che mi ha sempre spinto a tenerli d’occhio è un incredibile coraggio dovuto a una necessità di mantenere intatta la loro (in realtà sua, perché è Stewart il cuore degli Xiu Xiu) libertà espressiva.

A questo punto arriviamo a Plays the Music of Twin Peaks, una scommessa apparentemente persa in partenza viste la difficoltà di ridare linfa a una colonna sonora che è stata incredibile a tal punto da aver reso l’opera di Lynch ancor più intensa, terrificante, inquietante e memorabile tanto che bastano un paio di note di Angelo Badalamenti per far venire la pelle d’oca a noi trentenni che con l’incubo di Bob siamo andati a letto ogni sera.

Chi invece sa bene di cosa parliamo starà chiedendosi in che modo possano aver proposto questa parziale rilettura ed è quello che mi sono chiesto anch’io e che ho scoperto solo poco fa. Certamente lo stile tetro, perturbato e disperato degli americani ben si sposa con l’opera di Badalamenti eppure forte è il rischio che le esasperazioni sonore da loro adorate finiscano per stravolgere eccessivamente gli originali. Quello che, invece, hanno fatto ottimamente gli Xiu Xiu è stato abbassare i toni sugli aspetti loro meno consoni come quella certa eleganza jazzistica e quella soavità a metà tra Chamber e Dream Pop, per amplificare le parti più crude, brutali, senza per questo esagerare nell’interpretazione personale e suggerendo un punto di vista diverso allo “spettatore”, ora meno vittima sessuale e sacrificale al fianco della Palmer e più vicino alle figure malefiche del film. Tutto è meno tormentoso; le postille rumoristiche dilatano l’eccitazione e spezzano quell’inquietudine donando maggiore energia; la voce, nei pochi casi in cui compare, è perfetta nella sua disuguaglianza con l’originale per seguire l’impronta di questa versione disarmonica dei brani e il senso di angoscia è comunque riproposto con una forma dissimile (si pensi al lungo monologo -anzi no, ma non vi rovino la sorpresa- finale, “Josie’s Past”). Questo Plays the Music of Twin Peaks non può e non deve essere visto come una semplice riproposizione di vecchie canzoni e brani di una grande serie e soprattutto non deve essere inquadrato collegando le sue note alle immagini che avrete bene impresse nella mente se avete visto la serie. Quelle icone, le tende rosse, la luce soffusa, la nebbia del nord America, gli abiti sensuali delle ragazze del One Eyed Jacks, la convenzionalità yankee della casa di Leland, l’oscurità del bosco, sono già state descritte con perfezione e minuzia da Badalamenti e queste nuove trasposizioni non riuscirebbero a dare lo stesso effetto. Per riuscire ad apprezzare al meglio il collegamento tra audio e video dovreste vedere una versione di Twin Peaks che non è mai stata impressa su pellicola, mai probabilmente immaginata, una versione in cui ogni momento è vissuto nella testa disturbata dell’assassino.

Read More

Psalm Zero – The Drain

Written by Recensioni

Ha qualcosa di strepitoso e stupefacente questo duo di Brooklyn formato da Andrew Hock (guitar, vocals, drum programming) e Charlie Looker (bass, guitar, vocals, synthesizer, drum programming). Una cosa che sconcerta ma che tuttavia non basta a fissarsi in quella parte di memoria in cui stipiamo le cose che non vogliamo perdere per niente al mondo. Da un lato Charlie Looker quindi, già chitarra e voce negli Extra Life e chitarra in Rise Above dei Dirty Projectors e dall’altro Andrew Hock, chitarra e voce della band Black Metal dei Castevet. Dunque due anime che miscelano infiniti mondi, tanto diversi l’uno dall’altro; quello del Metal e quello dell’Art Pop/Rock e poi l’attitudine Indie e le sperimentazioni più azzardate.

Ecco spiegato da dove arriva tanta particolarità che fa di The Drain un disco che, al contrario di gran parte delle uscite che lo affiancano, pecca più sotto l’aspetto melodico e viscerale che non in termini di coraggio e originalità. Partire da tanto lontano per giungere a un punto comune attraverso strade diverse, così difformi, come pare porre l’accento la conclusiva “Manwhile”, l’apice stilistico degli Psalm Zero, quando le due voci mettono in scena una danza surreale, con un angelico cantato stile Jason Lytle (Grandaddy) a volteggiare intorno ad un violento quanto claudicante e metallico growl. Arrangiamenti Industrial impreziosiscono l’opera, gonfiandola di tensione nervosa talvolta sciolta nei synth che vanno a tagliare in maniera ancor più netta tutti i diversi mondi suggeriti dall’ascolto. La memoria dei Godflesh inizia a pulsare, con l’avanzare dell’ascolto e inizia a sorgere il dubbio di ritrovarci tra le orecchie qualcosa che non sia abbastanza e neanche abbastanza il suo contrario. Una preoccupante via di mezzo che farà fatica a imporsi come idea a sé stante, anche perché diverse sono le canzoni semplicemente antiestetiche e sgradevoli ma non di quella ripugnanza ricercata che mi piace tanto. Disarmonie che cozzano con la voglia di superare gli inestetismi del genere e finiscono per gettare The Drain in un vicolo cieco alla cui fine si erge un muro insormontabile, la barriera ricolma di schegge di vetro della normalità.

Read More

Aurelio Valle – Acme Power Transmission

Written by Recensioni

Leggendo la biografia di Aurelio Valle, scopro che non c’è nulla di quello che vi sareste aspettati. Innanzitutto non ha una folta barba da intellettualoide. Non è un giovane cantautore romano in vena di ironia sulla nostra società. E non possiede l’esuberanza del titolo curioso che è ha dato al suo disco solista. Aurelio pare avere origini messicane ed altri non è che il cantante/chitarrista dei Calla, Indie band statunitense che è partita nel 1997 dal Texas per approdare (già qualche anno fa) a New York City. Ma nonostante lo stupore iniziale nel sentire questo Post Rock molto d’atmosfera (invece di allegre schitarrate acustiche) questo disco non morde le mie orecchie. Acme Power Transmission è il frutto di anni di studio e di lavoro. E si sente. Un disco di ricerca, dove i suoni trovano il loro spazio, il loro posto nel mondo. Ma alla fine di ogni pezzo rimango sempre con un “ma”. Spesso la produzione (eccessiva?) prende il sopravvento sulla bellezza di brani che nudi e crudi sarebbero più sinceri e diretti, meno cervellotici. Più elaborato, meno semplice e anche meno Rock delle produzioni dei Calla che già fanno della sperimentazione sonora uno dei loro cavalli di battaglia. Le differenze si palpano subito con le distanti e scarne rullate di “Bruised and Diffused”. Il suono invade lo spazio, uno spazio buio, notturno. Conquista tutta la stanza e le pennate sulla chitarra sembrano arrivare dagli anni d’oro della New Wave. In “Deadbeat” l’Elettronica si intreccia ad un Rock dal sapore Novanta che purtroppo non sfocia in un ritornello degno della produzione certosina.

Il disco di Aurelio è più un’esperienza visiva che sonora e all’aumentare degli ascolti si catturano sempre più sfumature. Le praterie notturne di “Cowboy” vengono illuminate da synth che sembrano fuochi distanti, mentre l’incalzare del rullante (circondato da un ordinato noise) ricorda un vecchio film western: cavalcate polverose in lande desolate. La musica compone ancora le sue immagini in “Electraglide”, uptempo che cresce con costanza e pare sonorizzare una notte tormentata e sudata. Il pezzo sembra durare un’eternità ma questo episodio non stanca, e soprattutto risolve la carenza di Pop grazie alle soavi note incastonate nella voce di Nina Persson dei The Cardigans. Il disco chiude i battenti con la sussurrata “Lost Again”. Il suono avvolge, osserva, descrive, si modella lentamente ma non mangia, non attacca. Si fa ammirare, da vicino, come un gigantesco affresco che rimarrà nel tempo e non ha alcuna intenzione di sbiadire.

Read More