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gianCarlo Onorato / Cristiano Godano – Ex Live

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In breve: gianCarlo Onorato, musicista, pittore e scrittore, scrive un libro, un saggio sui generis che è una sorta di autobiografia attraverso istantanee fatte di musica e canzoni: “Ex – Semi di Musica Vivifica”. Il passo dalla penna alla chitarra è brevissimo, e presto Onorato si trova in giro per l’Italia a portare sui palchi un concerto/reading ispirato al suo libro, in compagnia di Cristiano Godano, cantante dei Marlene Kuntz, che lo affianca come un doppelganger dialogante. Ed ecco poi che il concerto si trasforma in disco, tutto registrato dal vivo nella data alla Latteria Artigianale Molloy di Brescia, nel dicembre 2013. Il disco è un esperimento interessante, che unisce in scaletta brani di Onorato e dei Marlene Kuntz, oltre a cover di pezzi di Lou Reed, Velvet Underground, Beck, Neil Young, Nick Cave,  il tutto inframmezzato da brevi reading tratti dal libro. La grande vittoria del duo è quella di riuscire a miscelare tutto senza troppi scossoni, complice un organico ridotto all’osso (oltre ai due cantanti, troviamo solo tre musicisti ad accompagnare con mano leggera il percorso, tra chitarre umide, pianoforti, percussioni varie, organi, batteria…). Il mood del disco è sommesso, sussurrato, tra scariche sensuali e malinconie tiepide, in una pasta che la registrazione dal vivo aiuta a rendere “vera”, perfetta nelle sue imperfezioni infinitesimali (scusate l’ossimoro). Le canzoni prendono forma nel buio, scintillano nella mani di Onorato e del suo doppio, che le rigirano, le accarezzano, le mangiano e le risputano sottovoce, ma se è un bisbiglio, è comunque carico, appassionante, cosciente (“Perfect Day”). I reading scivolano, alternando al loro interno passaggi più riusciti (l’iniziale “Non Già il Suono Organizzato”) a brani meno coerenti, ma non per questo privi di fascino (“Chitarra Fender Telecaster”) – e la voce di Onorato si presta con dolcezza alla narrazione e alla sua atmosfera.

Un disco da provare, per farsi un piccolo viaggio organizzato nel mondo interiore di gianCarlo Onorato. E ammettendo pure che questo viaggio non abbia un valore universale (potremmo discuterne), è pur sempre vero che il racconto ne esce solido, compatto e piacevole. E magari, alla fine, scoprirete di esserne più conquistati di quanto avreste pensato prima di ascoltarlo. Non sarebbe una sensazione bellissima?

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Dagomago – Evviva la Deriva

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Comodo definirsi Indie Rock quando si sa bene che vuol dire tutto o niente. E così i Dagomago contornano il loro genere di nessuna specifica e ci obbligano o ad ignorarli per quell’etichetta o ad ascoltarli per forza per giudicare. Evviva la Deriva è il frutto di poco meno di due anni di collaborazione del trio piemontese, eppure è un disco già supportato da un’etichetta, da un bel packaging, da una bella squadra di promozione. “Male”, la traccia di apertura, promette male come il titolo sembra preannunciare visto che apre con una serie di versi in rima, immagini depresse stereotipate, vocali aperte alla Manuel Agnelli. Sembra la solita roba nostrana, già sentita. Ma la band si riscatta con “Le Cabine del Telefono” che si rivela, invece, ben più particolare, con un cantato acido alla Francesco-C e un non so che dei Dari. Questa sensazione prosegue con “Cucinami Se Vuoi”, una canzone d’amore finito che ha più il sapore Punk di un vaffanculo che quello di una ballad di addio. Bella, mi ha fatto ridere. E anche con la successiva “Cervello in Fuga” capiamo che i Dagomago non sono la solita band nostrana che si piange addosso. Anzi: sembrano di proposito riprendere nei titoli tematiche care al Rock di protesta italiota per farne una bella caricatura, come in questo caso, in cui il testo recita “Il mio cervello è in fuga e io non gli sto più dietro” mentre la musica è una scanzonata serie di passaggi accordali delle tastiere, direttamente dagli anni 80. E si gioca con gli stereotipi anche in “La Vita Acida”, tra musicisti che suonano davanti a nessuno, Roma ladrona, la Milano da bere. Ok, non è che siamo di fronte a degli idioti o a dei ragazzotti leggeri che scherzano su tutto e non riescono a prendere niente sul serio. Evviva La Deriva è un album lucido, che affronta semplicemente da un altro punto di vista e con un altro piglio. E la faccenda è evidente in “Apprendista a Tempo Indeterminato”, un insieme di malessere diffuso che attraversa longitudinalmente la sfera privata e il contesto sociale, la vita professionale e l’amore. Il tutto condito con una bella chitarra sanguigna che finalmente esce fuori, più che nelle altre tracce, rivelando una certa bravura tecnica. Le tracce confluiscono con molta naturalezza una nell’altra, così “Viva Salsedo!” inizia quasi senza essercene accorti e lascia spazio a “Maninalto”, una marcia che apre a singhiozzo, elettronica e freddissima. Il disco prosegue con “Iocnr”, forse la traccia meno immediata di tutte, complessa nell’arrangiamento, non immediatamente incasellabile in nessun genere, con uno stacco dissonante, artificiale, confusionario. Quando inizia “Tenera È  la Notte”, quindi, la differenza stilistica è notevole: accordi in deelay e cantato soft e fumoso, puntellato da effetti strumentali e doppie voci che danno subito un tocco di etereo al brano. Una bella parentesi o più semplicemente il climax di una maturità che la band sembra andare acquisendo man mano che le tracce scorrono, come in un percorso di formazione. Il cerchio non può che chiudersi con la smentita della prima traccia: “Non Fa Male” è un’altra ballata, che richiama vagamente i Perturbazione per l’arrangiamento e gli Eva Mon Amour per il mood delle liriche.

Nel complesso è un disco che si fa ascoltare e che può rivelare anche qualche bella sorpresa. Ve lo consiglio, e, se vi capita, andate a vederveli dal vivo già che sono in tour.

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Fedora Saura – La Via della Salute

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Vengono dalla Svizzera i Fedora Saura, “cavallina storna da corsa e quintetto di musica contemporanea”. Picchiano e spiazzano, gridano e ballano, e il tutto è così dannatamente fuori di testa da risultare quasi affascinante. Ritmi sghembi, suoni grezzi, violenti e giocosi, e la voce: una voce che è vera protagonista, quella voce così gaberiana che foss’anche solo per il timbro ci piazzerebbe nel cervello il termine teatro-canzone, ma che in realtà si avvicina più a certe declamazioni salmodianti à la CCCP, come bene fanno notare nella loro cartella stampa. Le nove tracce de La Via della Salute s’affastellano dense e ariose allo stesso tempo: coagulate nel risultare grevi all’ascolto, pesanti come macigni nel loro incedere in vortici dal minutaggio oltraggioso, ma aperte nell’afflato ironico, nel suono ruvido e spezzato, nella parsimonia di strumenti e arrangiamenti che le rende pungenti come aghi e affilate come denti di cane.

Sta tutta qui, credo, la dicotomia del disco, che ce lo fa amare/odiare (“amare” forse è più che altro iperbole, “odiare” s’avvicina di più alla realtà, al fastidio urticante che questo disco emana). Ma non è certo un disco da buttare, anzi: questo fastidio, questa grana grossa che ci disturba è, forse, lo schiaffo che i Fedora Saura vogliono infliggerci. “Un’opera anti-cristiana e anti-capitalistica”, ci dicono, mentre la loro cavalcata sghemba ci disturba e, insieme, sottilmente, ci aggancia e ci incanta, e al terzo, quarto, quinto coraggiosissimo ascolto riesce persino a intrigarci, a farsi attendere, come un desiderio sotterraneo che mai ammetteremmo di provare. Stanno fuori dal tempo e dal mondo, i Fedora Saura, e fuori dal tempo e dal mondo suonano una musica ai limiti, non certo adatta a tutti i palati, ma che a quelli più avvezzi a masticare spigolosità  può anche ricordare gusti sublimi e dimenticati, di un’integrità d’altri tempi.

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Cesare Cremonini – Logico

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Luogo di ascolto: in metro, di fronte a un ciccione con un cheesburger grande quanto il mio orgoglio.

Umore: come di chi prova a imparare qualcosa che già sa.

La mia curiosità di recensire Cremonini parte tutta da un punto: dal momento in cui si è sentita per la prima volta uno spezzone del suo primo singolo nello spot dell’Algida (credo). Ebbene quel frammento di canzone deve avere colpito non poco gli abituali detrattori dell’ex enfant prodige del Pop di 50 special, perchè di lì a poco tempo l’etere era tutto un gorgogliare di sperticati ravvedimenti sulla caratura dell’artista; gente che evidentemente aveva bisogno di un temone con synth house per passare dalla parte di quelli che ” devo ricredermi su Cesare Cremonini, forse sto male, ma il disco è una bomba”, oppure “il nuovo di Cremonini ha suoni da Arcade Fire“. Fermo restando che chi vi parla ritiene gli Arcade Fire stessi una band sopravvalutata e modaiola, ho sentito l’obbligo morale di spendere una parola anche io in merito. Mi sono preso la briga di aspettare il nuovo Logico e ho provato a farmi un’idea un pò meno legata agli isterismi concettuali di certa critica, quella di cui non si capisce un cazzo quando scrive, non perchè scriva con parole sofisticate ma perchè scrive roba che non significa un cazzo. Vi dirò, il disco di Cremonini non è male. Ma non erano male nemmeno quelli che lo avevano preceduto. E lo so perchè li avevo ascoltati e lo avevo visto dal vivo più volte. E’ un personaggio multiforme Cremonini, oppure semplicemente in evoluzione e maturazione: dotatissimo musicalmente e con i giusti riferimenti davanti (è uno cresciuto a pane e Queen, per intenderci, altro che Arcade Fire), ha passato un buon decennio per imbruttirsi e sgarruparsi l’immagine per non essere più associato ad una Pop star alla Eros, manco a farlo apposta ha frequentato le donne giuste (Malika) per uscire dalle grinfie dei primi sogni erotici delle quindicenni e entrare in quelli dei salotti con la puzza sotto il naso, ha provato in ogni modo a cancellare la cadenza scanzonata Bolognese, addirittura storpiando l’italiano del suo precedente lavoro fino a farlo assomigliare al calabrese (provare ad ascoltare “Una Come te”), aveva reso espliciti i suoi ascolti dei Beatles nella coda dello stesso pezzo, meritoriamente simile nelle scelte di orchestrazione ad “All You Need is Love” (l’influenza dei Beatles si avverte, ad onor del vero anche nella nuova “Quando Sarò Milionario”).

Non ci è ancora riuscito. Eppure non serviva, perchè chiunque capisca un pò di musica e non abbia l’anello al naso (come spesso chi dice di capire di musica) si era accorto del talento dell’ex Lunapop già da subito. Uno non può vendere 900 mila copie fisiche e far cantare mezza Italia a 17 anni ed essere un brocco. Scrivere una melodia che rimanga è la cosa più difficile, se ti viene così spontaneo parti già molto bene. Andando avanti è cresciuto ed ha ampliato il raggio, ha approfondito i testi, ha reso più ricercata la musica e gli arrangiamenti. Ma la crescita è stata costante e sicuramente faticosa, considerato il successo da giustificare, mantenere e in un certo senso amplificare. Con questo disco il Cremonini non mi sembra abbia fatto il passo decisivo, la tracklist di Logico scorre fluida e rispecchia tutti i temi intimisti della sua poetica, conserva anche quel gusto per le suggestioni american style (in “John Wayne”) tradotte in salsa Padana (nel senso di pianura); non mi sembra però che abbia ancora acquistato quella personalità e quel carisma che serve per farsi chiamare cantautore, se ancora quella parola ha significato. Forse dovrebbe solo fottersene di tutti quelli a cui quel synth di Logico ha fatto così tanto effetto; del resto quelli non comprano i dischi, nè danno alcuna patente di cantautorato. Perchè Battisti della critica se ne fotteva e Rino Gaetano pure, non parliamo dei Beatles e dei Queen: la critica la patente di artisti glie l’ha data vent’anni dopo, molti anni dopo il pubblico. Diamo a Cesare quel che è di Cesare, non un centesimo di più, nè un centesimo di meno, perchè anche aspettare che arrivi è una bella colonna sonora.

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Od Fulmine – Od Fulmine

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I sogni alcune volte riescono a realizzarsi ma le delusioni sono sempre molto più frequenti, la musica d’autore riesce a farci camminare spensierati e pulsanti sopra la bellezza della vita. Perché poi non è necessario esternare le proprie emozioni, potrebbero essere male interpretate e di colpo tutto potrebbe finire. Scrivono canzoni irresistibili come faceva Tenco gli Od Fulmine al debutto discografico con questo omonimo disco. Indie Rock d’autore tanto cercato dai Non Voglio Che Clara e sponsorizzato dai Perturbazione, la tecnica è quella giusta dei bei testi in chiave Rock, la formula perfetta per modernizzare il cantautorato italiano di tanti anni fa. Gli Od Fulmine sono di Genova e provengono da diverse ma affermate realtà musicali (Meganoidi, Numero 6, Esmen), il loro legame con la cosiddetta “scuola genovese” è strettissimo perché oltre Luigi Tenco si percepisce qualcosa di Fabrizio De Andrè e Umberto Bindi. Insomma, hanno imparato dai grandi maestri cercando di mantenere alta la qualità del cantautorato italiano. Brani come “Altrove 2” e “Ma Ha” spiegano benissimo il concetto di fusione tra cantautore e Indie Rock, soprattutto se viene considerato un sound prevalentemente estero e poco italiano. Se poi volete far increspare la pelle avete bisogno di un brano semplice ed emozionale come “Nel Disastro”, un classica struttura compositiva con un ritornello bellissimo: Ma nel disastro mi vedrai sorridere/Sotto un diluvio ritornare in me/Di notte ho visto quello che mi manca e tu mi vieni incontro anche se non lo fai più.

Non è facile trovare il giusto equilibrio nella musica, il rischio di strafare è sempre dietro l’angolo, gli Od Fulmine percepiscono soltanto le parti buone dell’arte, parlano di amore con chitarre indurite, non hanno paura di mettere a vivo i propri sentimenti. L’ascoltatore è libero di interpretare le canzoni come meglio crede, ognuno può vivere il proprio film senza dover rendere conto a niente e nessuno. L’omonimo disco degli Od Fulmine riesce a caricare di passione, giocando con intrecci sostenuti a volte dalle lacrime a volte dai sorrisi, piove ed immediatamente esce il sole, “Fine dei Desideri” come pezzo immagine dell’intero concept. Le cose che portiamo dentro non sempre riusciamo ad esternarle con la giusta precisione, questo disco parla con il cuore in mano, questo disco è veramente carico di considerevoli aspettative. E noi siamo fieri di ascoltare una band come gli Od Fulmine.

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Alex Bandini – Signore e Signori Buonanotte

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Ecco un bell’esempio di chi lavora e plasma la musica con fantasia e fatica. Il primo disco di Alex Bandini (in realtà ne pubblicò uno nel 2012 sotto il nome IlSogno IlVeleno) sa essere a tratti leggero come una piuma e a tratti pesante come un macigno. Macigno che ci dobbiamo portare dietro di questi tempi e senza tante lamentele fischiettiamo melodie per alleviare la fatica e la paura. Utilizzando i muscoli e tutta la nostra immaginazione. Alex sfodera dieci canzoni dove tutto è ben amalgamato e ben tenuto nella classica forma cantautorale di storia. Il ragazzo però non cade, per sua fortuna, nella trappola di molti suoi colleghi che arrivano a sfiorare le corde dei vari mostri sacri italiani, scadendo in facili copie carbone dei vari De Gregori, De Andrè e Dalla. Alex Bandini invece attira verso di se tutte le ispirazioni (ci butta dentro anche Battisti e aggiungerei perché no?) ma non si ferma a farsele scivolare sulla pelle. Le immagazzina dentro, le lavora per poi soffiarle fuori, con quel filo di voce che al primo ascolto pare sembrare sintomo di timidezza e riservatezza, ma nasconde una grande potenza in ogni singola parola che sussurra. Le influenze del cantautore abruzzese non sono prettamente musicali e lo si capisce già dal primo brano del disco, dedicato allo sceneggiatore Ennio Flaiano (che lavorò in molti dei capolavori di Fellini). L’atmosfera leggiadra della canzone ci porta direttamente sull’onirico set di “8 e 1/2”. Da un filo di voce esce: “la solitudine non è un delitto se aiuta la poesia ad essere magia”. E se questa frase fosse stata gridata, sarebbe stata meno forte.

L’amalgama viene poi arricchito da arrangiamenti per nulla banali, che anche qui cercano ispirazione nel cinema italiano. Spesso strizzano l’occhio a Morricone e ai western italiani, omaggiati con “Il Grande Silenzio”, dedicata all’omonimo film di Sergio Corbucci. Il lavoro di produzione (compiuto da Alex insieme a Gianluigi Antonelli) è a dir poco sopraffino, la scelta degli strumenti è studiata sapientemente in modo da fornire ad ogni brano il giusto tappeto su cui stendersi e prendere forma. I suoni mandano ad un altro livello pezzi come “Antonio Vecchio Pazzo”, triste e malinconica decadenza dei sogni di un comunista vecchio stampo, e “Paese Sera”, uno spaccato dell’Italia fatto di semplici ma straordinari episodi. Tra realismo e (di nuovo!) Federico Fellini: “musicisti e ballerine dentro i cabaret le luci al neon, in bianco e nero”. Questo è un disco che si fa ascoltare innumerevoli volte. Ricco di dettagli. Ci tiene sull’attenti alla ricerca di qualche nuovo particolare, di qualche nuovo personaggio così strambo, eppure reale e così vicino a noi. Questo disco ti pianta con le orecchie davanti allo stereo. Gli occhi possiamo tenerli chiusi che di immagini già ne sentiamo passare una marea.

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“Silvano Pistola”, il nuovo video dei Moostroo

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“Silvano Pistola” è il primo singolo estratto da MOOSTROO, omonimo disco del trio bergamasco MOOSTROO. Il brano racconta e mette in scena una storia di provincia come tutte quelle contenute nel lavoro d’esordio del gruppo (disponibile dall’11 marzo 2014 sul sito del gruppo e su Bandcamp). Silvano/a, figlio adolescente di una famiglia arricchita, viene ricoperto di cose e alla fine si trova tra le mani ciò che meglio d’altro può funzionargli da terapia famigliare: una pistola. La sua non è una soluzione auspicabile, ma solo il risultato di un’educazione anaffettiva che sostituisce con gli oggetti e il possesso ogni possibilità di scambio umano. “Silvano Pistola” nasce da un’idea di Franz, bassista dei MOOSTROO. La regia è dello stesso Franz e del cantante-chitarrista Dulco. Le riprese ed il montaggio, nonché la post-produzione, sono di Paolo Bonfanti – Calamari Production. Gli interpreti nel video sono: Roberta Agazzi, Matteo Lodetti delle Capre a Sonagli e Francesca Biava.

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Edoardo Borghini – Fumare per Noia

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“Ci riproviamo, ci ricaschiamo”: così comincia Fumare per Noia secondo (capo)lavoro di Edoardo Borghini, giovane cantautore livornese, che vuol dare un seguito al suo primo omonimo disco. Forse questo titolo perché l’artista vuol subito chiarire che, per una sorta di consecutio temporum, “Fumare Per Noia” è il logico risultato di una maturazione artistica avvenuta in un periodo, neanche troppo grande, che passa attraverso arrangiamenti molto più complessi e persino per imitazioni canine in “Canzone di Quel che mi Viene in Mente” (proprio come fece John Lennon quando impersonificò un tricheco in “I am The Walrus”, sesta traccia dello storico Magical Mystery Tour, spesso coverizzata ed eseguita live anche da artisti del calibro di Frank Zappa, Oasis, Styx e dai nostri conterranei A Toys Orchestra). In “Perso l’Occasione di te” si ha la sensazione di imbattersi in un gioco musicale che prende spunto a quella “Eleanor Rigby” tanto cara agli stessi The Beatles e all’estro geniale del già citato Frank Zappa. Di quei riferimenti a Neil Young e a Francesco De Gregori che si erano riscontrati nel precedente compact disc invece è rimasto poco, proprio come se si volesse far capire l’ampiezza artistica di Edoardo Borghini che stavolta ha optato per un repertorio tendente più a Lucio Battisti (quello del periodo Mogol) e agli americani Byrds.

La conclusione è affidata a una “Ho Preteso” che è cantata in maniera piuttosto originale ed eseguita strizzando l’occhio al Jazz e allo Swing degli anni cinquanta. Peccato che il nostro viaggio sonoro con Edoardo Borghini duri solo otto canzoni (una mezz’oretta di tempo circa). Ci stavamo prendendo gusto. E come dice lo stesso Borghini in “Canzone di Quel che mi Viene in Mente”: “No, io non sono quel che si dice un cantautore matto, un canzoniere, un paroliere, ma so solo che a te piaccio così come sono”. E per una volta tanto l’autostima è davvero meritatissima.

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MOOSTROO – MOOSTROO

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I MOOSTROO sono senz’altro una scoperta interessante. Non certo al primo ascolto, questo no: non colpiscono immediatamente, ma fatti passare da un labirinto d’assimilazione, un intestino d’attenzione, per così dire, ecco allora che vengono digeriti e la luce che li colpisce forma l’ombra che andremo a leggere. I MOOSTROO sono in tre, sono di Bergamo e suonano strani, dagli strumenti (“silent-guitar classica distorta, alternanza con basso a due corde”…) al timbro della voce, che già nel suono è sussurro provinciale, discorso ironico da bar con avventori più accorti di quanto possa sembrare. Il disco scorre tra ballate di una canzone d’autore (“Valzerino di Provincia”) che non ha paura di sporcarsi, di rotolarsi nel fango (In sterco veritas! è il loro motto), fino ad arrivare a piacevoli commistioni di Rock e Folk (“LPS”, con quel bellissimo riff, quel sapore alla CSI…), o a costruzioni ritmiche che strizzano l’occhio a panorami più contemporanei (“Silvano Pistola”).

Sono sporchi, questi mostri; brutti, sporchi e cattivi; ma sono il nostro specchio, che ci fa le smorfie e ride della sua ironia e della nostra incomprensione. I MOOSTROO si nascondono, si coprono di fango e feci per dissimulare il loro acume pungente, il loro ghigno beffardo. Sono irriverenti, ma sensibili, di una durezza smussata, di una semplicità che è camuffamento. Sono come dovrebbero essere gli Zen Circus. Certo, possono non piacere, soprattutto ad un certo pubblico che dal cantautorato vorrebbe l’elevazione e poco sopporta il rivoltarsi tra le frattaglie (ahimè, io stesso storco il naso su un brano come “Il Prezzo del Maiale”). C’è da capire che però ogni tentativo “altro” è meglio che la ripetizione di schemi già abusati. Quindi ben vengano i MOOSTROO e la loro finta sporcizia, che possano perlomeno insegnarci che i punti d’incontro tra la ruvidezza del Rock e l’eloquenza della canzone d’autore sono, davvero, infiniti.

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3 Fingers Guitar – Rinuncia all’Eredità

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C’è coraggio, indubbiamente, nell’animo DIY, scarno, tagliente e infuocato di Simone Perna, testa e mani del progetto 3 Fingers Guitar (accompagnato, in quest’avventura, dalla sola batteria di Simone Brunzu). C’è coraggio, follia, un’inclinazione incosciente alla spettacolarizzazione in Rinuncia All’Eredità, una sorta di concept sul retaggio di un padre nei confronti del figlio, che contiene le prime canzoni in italiano del progetto.  La musica, pensata ed eseguita quasi totalmente dal titolare, è scarna, fumosa, tribale. Chitarre violente, ritmiche ripetitive e ossessionanti, noise e polvere, intimità rarefatta, poi presa ad unghiate, come fosse troppo stretta, come non bastasse cantare, ma ci fosse bisogno di lacerarsi i vestiti, di graffiare le pareti che si chiudono intorno. L’atmosfera (il gioco) sta sull’equilibrio tra le involuzioni senza capo né coda e gli ambienti più fermi, per cui più convincenti – e più ovvi. Il pugno di “Ingresso” scuote, mentre il corpo di “Riproduzione” incanta e ondeggia. L’arpeggio della title track ci riporta all’improvviso in una zona franca, un’isola che sta da qualche parte al di là dell’oceano, in un crescendo avvolgente, che prosegue idealmente in “Fuga”, ancora più a ovest. Sale il Blues nell’intro de “L’Unica Via”, trasformandosi poi in un Post Blues iridescente e ipnotico.  La chiusura (“Fine”) è adamantina e catartica.

Croce e delizia del disco è la voce, sporca, imperfetta, fastidiosa a volte. Un timbro e un tono che possono alternativamente aggiungere profondità o creare punte di doloroso imbarazzo. Il disco è interessante, inserito com’è in un discorso di cantautorato “altro” che vuole staccarsi dalla noia dei quattro accordi con la chitarra e inventarsi un mondo (cosa peraltro non lontanissima – nell’idea – da certe evoluzioni recenti di un Vasco Brondi). Fosse amico mio, Simone Perna, gli consiglierei – da amico – di lavorare sulla pasta vocale, certamente senza snaturare il senso del suo cantare, ma levigando alcuni estremi che possono risultare spigolosi. Per il resto, la strada presa sembra gratificare ampiamente lo sforzo d’intraprenderla. Ma io Simone Perna non lo conosco, e dunque mi limito a riconoscerne i meriti, senza aggiungere altro.

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Colpi Repentini – Arriva Lo Zar

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Sei belle canzonette di Pop d’autore per spazzare via la banalità. Tanta intelligenza, sia nelle liriche che negli interessantissimi intrecci musicali, in questo EP dei milanesi Colpi Repentini. La band è di giovane formazione ma questo Arriva Lo Zar definisce bene la rotta del quintetto. “Brucio la Città” è l’inizio festaiolo e funkettone con un ritornello aperto ed epico che non dista molto dalle melodie di Cesare Cremonini. Un pizzico di teatralità e un suono un po’ chic, che pare certamente più ironico che snob. Gli ingredienti sono innumerevoli e lo dimostra anche la title track “Arriva lo Zar”, testo senza troppo criterio e suono retrò dove il piano domina la cavalcata fino all’arrivo dell’inatteso chitarrone (troppo?) distorto. In ogni caso il mix è vincente e le canzoni sono storie nonsense ma divertenti, con quella patina che le rende chic e terribilmente “milanesi”. Anche quando i ritmi calano in “Non ti ho Persa Mai” il pacchetto rimane compatto e anzi guadagna in intensità.

Senza contorcersi in complicazioni i Colpi Repentini si destreggiano bene tra l’essere piacioni e ricercati. Una sezione ritmica mai scontata e la grande espressività nella voce di Alessio Piano, che spesso sembra al servizio della musica più che delle parole, fondendosi bene con gli altri strumenti. Un ottimo collante. “Il Diavolo (da Lui si Presentò)” è una danza scura, un po’ Fred Buscaglione e un po’ Tom Waits con un finale quasi Hard Rock. Una sana dose alcolica per sciogliere gambe e cervello. “Un’Ottima Giornata” chiude l’EP. Spensierata e rilassata (a parte il video tremendo che la accompagna), la canzone rimane un buon singolo per farsi conoscere sebbene non risalti in pieno le potenzialità e il sapore variegato della band, meglio espresso in tutto il resto del prodotto. Niente per cui gridare al fenomeno. Ma questa band è un ottimo esempio di come la musica italiana possa essere colta e presentare innumerevoli sfaccettature. Senza dimenticarsi di essere semplice e bella.

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Maria Antonietta – Sassi

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Si affida a un sound più ruvido, ma ora è felice e monogama – ed ha anche imparato a non dire parolacce.
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