Heavenly Recordings Tag Archive

What’s up on Bandcamp? [novembre 2020]

Written by Articoli

I consigli di Rockambula dalla piattaforma più amata dalla scena indipendente.
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Aldous Harding @ Spazio 211, Torino | 31.10.2017

Written by Live Report

Lo Spazio 211 di Torino ha ospitato martedì scorso l’artista neozelandese Aldous Harding, di ritorno in Italia dopo gli ottimi riscontri ottenuti durante le 3 date che in estate l’avevano vista calcare il nostro territorio per la prima volta nella sua carriera.

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #10.02.2017

Written by Playlist

Mark Lanegan – Imitations

Written by Recensioni

Luogo di ascolto: in macchina nel tentativo disperato di incassare un assegno prima del fine settimana.

Umore: come di uno che sta per fare un fine settimana dispendioso.

Mark Lanegan è affetto da un morbo serio e debilitante, nel suo caso è stato colpito da poco e la malattia è solo ai primi stadi: l’ex vocalist degli Screaming Trees è malato della sindrome di Morgan. Già, quella malattia che nei periodi di magra creativa spinge l’ex leader di una band ben riuscita ad uscire con dei dischi di meravigliose canzoni di altri, o come fa figo chiamarle, cover. Certo nel caso di Morgan la malattia che giustamente porta il suo nome è ai massimi livelli, il suo personaggio televisivo oramai è diventato ipertrofico rispetto alla caratura di artista di cui oramai non si ricorda nemmeno un pezzo degno di nota ma molte acconciature di gran bizzarria. Torniamo a Lanegan, Imitations (il titolo è chiaramente esplicativo degli intenti con cui lo si è registrato, evidentemente) è un disco di cover a cui non si può voler male ma nemmeno dire un mondo di bene. L’occhio tra le dodici canzoni che compongono la tracklist mi è caduto subito sull’ultima, “Autumn Leaves” quindi l’ascolto ha seguito una strada piuttosto sghimbescia (per quelli che leggono Signorini, significa storta): era troppa la curiosità di sapere come sir Lanegan avesse affrontato il pezzo più interpretato del sistema solare, sconquassato da sbrodolamenti jazzistici per 40 anni, infangato con versioni in inglese tradotte a membro di segugio (per i lettori di Signorini: a cazzo di cane), deturpato con pronunce francesi improponibili da parte per lo più di inglesi che non sanno altre lingue e dicono agli italiani che non sanno cantare in inglese. Direi che con “Autumn Leaves”, date le premesse, Mark se l’è cavata abbastanza bene; nulla di più però di un buon pezzo riarrangiato in maniera da calcare finalmente il battere di ogni accordo come mi ero disabituato a sentire dopo decenni di spostamenti ritmici swing, con un bell’arrangiamento di archi e batteria in modalità spazzole.

Mark Lanegan penso sia l’unico al mondo, al pari di Johnny Cash, a potersi permettere di cantare a tonalità subumane, avere la presenza scenica della stele di Rosetta (per i lettori di Signorini, il gossip qui non c’entra, Rosetta non è mai entrata nella casa del grande fratello) e al tempo stesso rapirti dal vivo come se non ti trovassi più a casa tua o in un palazzetto dello sport. Quando ascolti la voce di Mark Lanegan la sabbia che al mare trovi nelle pieghe dei pantaloni diventa terra rossa del deserto del Mohave e il cellulare in tasca diventa una pistola nella fondina. Quando ascolti tutte quelle chitarre arpeggiate dal suono così antico e al tempo stesso così caldo pensi di aver sbagliato a nascere nel vecchio continente e ti bombardi il cervello di suggestioni cinematografiche. Imitations poi non è cantato male, anzi; Lanegan dimostra di essere anche un ottimo emissore di note medio alte, arricchendo la sua tavolozza vocale di sfumature che sinceramente non credevo ci fossero. “Brompton Oratory” è un pezzone, davvero azzeccata l’interpretazione e la cornice, “Mack the Knife” è troppo simpatica in veste Country con le acustiche a fare il contrappunto alla melodia della voce, “Elegie Funebre” invece sembra cantata invece che in francese in coreano tanto è brutta la pronuncia . Il disco non è malaccio, ma è sempre un disco di cover e per di più senza nemmeno rischiare tanto, lo vedrei bene come colonna sonora di Nashville, la nuova serie Sky sul Country, ma nulla di più. Da un popò di artista così è lecito e doveroso aspettarsi un disco solo quando ha materiale per farlo, mica deve pagare le bollette come Morgan.

Almeno spero.

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TOY – Join the Dots

Written by Recensioni

Continua la già lunghissima tradizione inglese di band Psycho Pop, che affonda le proprie radici almeno ai Beatles di “Lucy in the Sky With Diamonds” o “I Am the Walrus”, e che attraverso miriadi di (più o meno riusciti) epigoni giunge fino al 2013 e a questo Join the Dots dei TOY. Secondo album per la band di Brighton, Join the Dots è senz’altro una conferma: un album (nonostante le apparenze e certe linearità ritmiche e vocali) divertito e divertente, che ci proietta in un mare sonoro dall’orizzonte lontanissimo e molto, molto colorato. Si potrebbero (e si possono) passare ore a navigare sui soundscape azzeccatissimi in cui i TOY annegano i loro brani (“Endlessly”, o l’inizio della title-track, o, ancora, l’intera opener “Conductor”, 7 minuti di naufragio sonico). Si sente, oltre alla psichedelia in senso lato e allo Shoegaze più onanista, anche un richiamo all’Elettronica vintage, negli artifici retrò (arpeggiatori e simili) e nelle linee di batteria drittissime e ossessive, da drum machine: una realtà che si sposa benissimo con tutto il resto del marasma, e che ci porta sempre più nel mare aperto di un mandala musicale che ruota su sé stesso e che racchiude un mondo di sensazioni e pulsazioni emotive, più o meno leggere, in cui vorremmo perderci senza possibilità di ritornare.

Penso abbia anche poco senso cercare di descrivere un disco del genere: non perché sia un disco bellissimo (non lo è necessariamente), ma perché è un disco di cui va fatta esperienza, che prende vita nelle pieghe della coscienza, quando si rifrange nel nostro piccolo universo personale e ci ruba, ci rapisce, ci trascina altrove. Come luce in un cristallo, e il cristallo siete voi, e il riflesso, il brillare, dipende anche dalla vostra personalissima forma. Di dischi come questo Join the Dots si può dire, al massimo, se sono suonati bene, se le canzoni filano, se la produzione regge, se la band sa fare il suo mestiere. Su questo non ho dubbi. Sul resto, lascio la parola a voi. Tappatevi il naso, prendete un bel respiro e buttatevi tra le onde dei TOY, poi sappiatemi dire.

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