Il cantautore friulano ha appena pubblicato il suo secondo album in studio e per l’occasione abbiamo provato a farci raccontare cosa si cela tra le pieghe della sua arte tanto misteriosa quanto affascinante.
Intervista a cura di Gabriele Sottocornola e Federico Longoni.
In copertina: Massimo Silverio © Riccardo Carpa
Da pochi giorni il cantautore friulano Massimo Silverio è tornato con un nuovo album, il secondo della sua discografia: Surtùm (di cui abbiamo avuto modo di scrivere qui) segue di due anni il debutto di Hrudja e per certi versi ne è la sua evoluzione. Ne abbiamo parlato con lui in persona, facendoci spiegare cosa si cela tra le pieghe di un lavoro tanto denso ed evocativo.
Ciao Massimo, come stai? Come stai vivendo l’uscita del tuo secondo LP?
Ciao! È un periodo decisamente molto intenso, ma c’è tanta bellezza che sta accadendo. Non vedevo l’ora che arrivasse il 10 ottobre per l’uscita di Surtùm, il nostro nuovo disco che abbiamo tutti fortemente voluto. Parlo al plurale, riferendomi anche ai miei compagni musicisti che sono coinvolti in questo progetto, ovvero Nicolas Remondino e Manuel Volpe. Ed è soddisfacente, anche perché c’erano molte aspettative e tante persone che si sono interessate. Non possiamo essere più contenti di così, insomma.
Inoltre, qualche giorno fa, i primi giorni di ottobre, sono stato in tour per la presentazione di un nuovo progetto in trio di materiale completamente inedito, che coinvolge oltre a me, anche Nicolas Remondino e Vieri Cervelli Montel. Un’esperienza molto appagante ma molto stancante che è arrivata alle ultime fasi di gestazione. A breve saremo pronti a presentare anche questa nuova creatura!
In relazione ai significati del disco, Surtùm nel dialetto carnico ha il significato di palude o stagno, e molte canzoni al suo interno richiamano l’ambito semantico dell’acqua e dell’umidità. Ci spiegheresti cosa cosa rappresentano per te questi termini e come li hai declinati all’interno del tuo nuovo lavoro?
Allora, tutto il discorso legato all’umidità, all’ambito semantico dell’acqua, è un qualcosa che è maturato durante le fasi conclusive del tour di Hrudja, il mio primo album. Durante questo periodo, quando i live si facevano un po’ più rarefatti e ho cominciato a guardare retrospettivamente alla bellissima esperienza collettiva che avevamo appena vissuto in tour, ho sentito l’impulso di tornare per una dozzina di giorni in Carnia, nel mio paese natale.
Lì ho vissuto un periodo molto introspettivo e intenso per me, in cui ho girato per tanti luoghi della mia infanzia, i boschi, i greti dei torrenti, insomma i posti dove andavo a giocare da bambino. Ho camminato veramente a lungo e mi sono perso nella contemplazione di questi luoghi e della loro bellezza naturale. L’umidità è un elemento onnipresente nella natura della Carnia, una regione talmente piena di acqua che i boschi sembrano trasudarne.
Inoltre, eravamo in periodo autunnale, iniziava quindi il primo freddo e di conseguenza la prima brina. Quando mi svegliavo presto il mattino guardando questo strato bianco che si depositava sulle cose per poi sciogliersi con i raggi del sole, mi è venuta in mente questa immagine forte. Mi sono interrogato su dove vanno a depositarsi tutti i nostri gesti, le nostre azioni, e mi sono immaginato questo luogo “altro”, un non-luogo, dove i canti, le parole, le preghiere, i gesti, una volta esauriti, esaurita la loro eco, vanno a depositarsi, come in una palude.
Quindi sono partito dal termine Surtùm, che significa appunto palude, ma che a livello timbrico e sonoro mi evoca numerose altre sensazioni. Ho seguito questa direzione che mi ha guidato nella composizione delle nuove canzoni, soffermandomi su altri aspetti legati all’acqua, delle vere e proprie preghiere legate all’acqua. Come Avenal, che rappresenta la figura della sorgente, dove appunto può nascere un suono, un amore, un sentire, un sentimento, un’emozione.
Finora hai descritto il tuo disco in termini positivi, legati alla bellezza e all’incanto. Ma dall’altro lato abbiamo notato come questo sia anche pervaso da tinte cupe, quasi funeree. Fin dalla copertina, che rappresenta una gerla distrutta e abbandonata nel fango. I testi stessi parlano spesso di morte, sacrificio, oscurità. Da dove arrivano queste sensazioni e come sono entrate a far parte dell’album?
Partiamo dalla copertina, e quindi dal primo impatto visivo che può avere questo lavoro: quella gerla rovinata dal tempo e dall’usura è stata fotografata in una palude, a rappresentare quello che noi ci stiamo trasportando sulle spalle come un veicolo della nostra esistenza, e che viene lasciato lì, abbandonato su questo terreno paludoso, simbolo sicuramente di morte, ma anche di rinascita e di vita. La palude è un luogo di umidità e oscurità per eccellenza, ma anche un luogo di fertilità, di grande biodiversità e vitalità. Tra l’altro quella gerla era appartenuta a mio nonno e mi è dispiaciuto tantissimo doverla rovinare affinché sembrasse devastata dal tempo, dato che si trattava di un lavoro artigiano di una minuzia incredibile.
Per quanto riguarda le sensazioni che attraversano il disco, in quel periodo ero pervaso da una grande malinconia e tristezza, che deriva soprattutto dall’avere gli occhi aperti sulla situazione globale – tutto ciò che stiamo vivendo, le cose terribili di cui siamo testimoni. Di fronte a tutto questo, continuare a fare musica mi sembrava qualcosa di molto piccolo, quasi vano ed egoico. Mi interrogavo sul senso di continuare a creare nuova musica piuttosto che fare qualcosa di più utile per il prossimo. Quindi, tutto ciò che è uscito, sia a livello lirico che di armonie e melodie, era ed è assolutamente in linea con questo forte disagio provocato da quello che stiamo vedendo accadere quotidianamente. Allo stesso tempo, era strettamente connesso ai forti cambiamenti che io, Nicolas e Manuel sentivamo sia a livello personale che collettivo.
Il risultato è stato quello di provare a buttare fuori tutto e realizzare qualcosa di nuovo, di forte e personale. La forma che mi è sembrata più idonea è stata quella di canti-preghiere che mi permettessero di esprimere questi sentimenti, senza la paura di tendere troppo al negativo, al nero, alle cose più ombrose – ma che fossero in sintonia con gli stati d’animo del momento. Questa è stata la naturale conseguenza di provare a fare un nuovo disco nel momento in cui avevo deciso di farlo.
Questo lavoro ci è sembrato più sperimentale e meno legato alla forma canzone. Come mai questa scelta di esplorare territori più sperimentali e meno convenzionali? Si tratta di una decisione presa a tavolino o qualcosa che è maturato spontaneamente?
Tengo a specificare che con Nicolas Remondino suoniamo insieme da parecchi anni, anche molto prima di Hrudja, il quale è stato un punto di raggiungimento della nostra esperienza insieme, quando decidemmo di coinvolgere Manuel nell’avventura – cosa che volli fortemente all’epoca e che ho continuato a volere anche per Surtùm.
Quindi la fase di lavorazione e scrittura del nuovo disco è stata tutta molto naturale, non abbiamo mai stabilito nulla a tavolino. Abbiamo deciso di fare solo quello che volevamo e ci sentivamo di fare. Abbiamo lasciato che la genesi stessa dei brani si sviluppasse in totale libertà, senza interferire in nessun modo. Tutte le canzoni che superavano il minutaggio più canonico e radiofonico durante il nostro lavoro di arrangiamento e produzione sono state mantenute tali.
Ad esempio, Sorgjâl è un brano la cui musica è stata improvvisata. Un giorno, dopo un concerto, ci siamo trovati in studio da Manuel con una giornata libera e abbiamo deciso di metterci a suonare insieme, facendo una sorta di jam session. Sentivamo e sentiamo ancora un forte legame che si è creato dopo l’intensa esperienza live. Ci siamo affiatati e siamo sempre stati bene insieme, avendo condiviso tanti pensieri, idee, ideali.
Quando abbiamo improvvisato quella canzone, eravamo tutti molto sintonizzati su quello che è il male che stiamo lasciando a chi verrà dopo di noi. Questa cosa creava un terremoto interiore dentro di noi, e per questo la canzone ha un determinato spessore musicale. È stato molto naturale lavorare in questo modo, lasciare che le cose accadano semplicemente parlando di quello che ognuno sentiva, e poi su questa condivisione creare qualcosa insieme.
In una precedente intervista avevi raccontato che i tuoi brani nascevano dal nucleo voce-chitarra, su cui poi si innestavano gli arrangiamenti. Quanto è cambiato il tuo modo di approcciarti alla scrittura dei brani, magari attraverso questa metodologia più corale e condivisa che ci hai appena descritto?
Il periodo di germinazione di Surtùm è stato molto intenso per me. Ho scritto veramente tantissimo su questo concetto di un luogo dove gli echi di tutte le cose vanno a depositarsi. Mi sentivo estremamente aperto e sensibile verso tantissimi aspetti, verso tutte le persone che mi circondavano, vecchi compagni di vita, i luoghi e le cose. Sentivo il bisogno di scrivere, scrivere, scrivere. Pertanto è quasi come se il disco fosse trapelato anche da tutto questo sfogo su carta. Da lì, tanti dei momenti presenti in questo album sono improvvisati.
Ad esempio, Vare è nata in un’unica take di chitarra e voce, in un momento estremamente triste per me a livello personale. Per un breve momento ero molto collegato con me stesso, sentivo di essere presente. Questo stato d’animo mi ha portato a non avere aspettative, ma semplicemente ad accettare tutte le situazioni, le contingenze della vita, quello che stavo vivendo, le sensazioni che mi arrivavano, in maniera fortemente introspettiva. Accogliendo tutto questo, sono arrivato a un momento di rilascio assolutamente spontaneo e in un certo modo non conscio, che è stato poi la nascita vera e propria del disco.
La genesi dei brani di Surtùm non è stata troppo lavorata, non sono stato seduto con una chitarra a lavorare su accordi, melodie, testi e canzoni. È stato quasi tutto estremamente spontaneo e diretto, una naturale evoluzione dalle tante pagine scritte e rimuginate durante il periodo immediatamente precedente. È stata un’esperienza molto interessante e molto profonda quella vissuta attraverso questa modalità di scrittura.
A questo disco hanno partecipato non soltanto i tuoi soliti collaboratori, ma anche numerosi altri musicisti. Com’è stato per te collaborare con tutti questi artisti e come hai sviluppato queste collaborazioni?
Surtùm, un po’ come Hrudja, è un disco legato in maniera viscerale alla dimensione montana, e le collaborazioni sono arrivate quasi per necessità. Gli ospiti sono Benedetta Fabbri al violino, Flavia Massimo al violoncello su Sorgjâl, Martin Meyers al corno delle Alpi e Mirko Cisellino a corno, flicorno e basso tuba.
Già gli strumenti stessi – i fiati, il corno delle Alpi – hanno sempre avuto una funzione legata al richiamo della montagna. Avevano uno scopo comunitario: i paesi tra le montagne comunicavano tra di loro utilizzando strumenti simili. Gli archi sono sempre figli di strumenti antichi a corda che a me personalmente hanno sempre mosso tanto a livello emotivo. Si avvicinano a una dimensione molto più acustica, senza tempo, che, anche al di là della mia musica, è molto nel mio pensare e ragionare. Inserire strumenti a fiato era come un richiamo, un chiamare l’attenzione, per avere una certa presenza e sottolineare l’importanza del messaggio.
Il violino di Benedetta, ad esempio, è stato molto importante per completare il mio canto e le atmosfere che volevamo creare. Flavia Massimo l’abbiamo conosciuta quando abbiamo suonato a Paesaggi Sonori sull’altipiano del Voltigno – lei è la direttrice artistica di questo bellissimo festival in Abruzzo. È stata una delle date più belle del tour con Hrudja tra le montagne. In quei momenti si crea una forte connessione, e ci è sembrato naturale volerla coinvolgere nel nuovo progetto.
Martin Meyers l’ho conosciuto grazie a Nicolas ad un festival organizzato da lui e la sua compagna Natalia Rogantini in Val Chiavenna. La chiusura del festival a Dasile, in questo borgo montano raggiungibile solo a piedi, è stata affidata ad un solo di corno delle Alpi suonato in cima a una montagna. È stato un qualcosa di indimenticabile. Già lì avevo immaginato come questo richiamo, questa voce che si muove tra i crinali, sia la cosa che più si avvicina a quello che potrebbe essere per me il suono di una montagna, imponente e meraviglioso. Stesso discorso per il corno suonato da Mirko Cisellino, un mio caro amico musicista friulano, incredibile trombettista.
Abbiamo sentito di voler coinvolgere persone, musicisti e strumenti che fossero completamente in sintonia con questo paesaggio che volevamo portare fuori, sottolineare e mettere in risalto. Prima ancora del significato e del senso, volevamo proprio evocarlo a livello sonoro e di sensazioni.
Quanto il nuovo disco è ancora influenzato dai canti tipici della tua regione, le villotte, o quanto hai deciso di invece di allontanarti da essi? Da dove deriva la tua conoscenza di questi componimenti? Dalla tua esperienza diretta, oppure hai svolto studi a riguardo?
Purtroppo ormai è quasi impossibile avere un contatto diretto con chi praticava naturalmente questi canti tradizionali, le villotte, che sono state fissate in libri bellissimi come Anima della Carnia di Claudio Noliani, veri tesori della memoria dal valore inestimabile. Tanto di questo retaggio mi arriva da quando ero piccolo. Nel mio paese ho avuto la grande fortuna di vedere queste signore – la villotta era principalmente un canto femminile – lavorare nei campi e cantare durante le feste. Era qualcosa che mi aveva colpito parecchio e che è riemerso spontaneamente con gli anni, mentre maturavo una maggiore consapevolezza musicale.
In Surtùm ci sono momenti dove canto seguendo queste metriche e melodie: il brano finale, Ghirbe, è cantato per gran parte su quella metrica. La maggior parte delle villotte sono canti rivolti a cari lontani, amori infranti, persone che non ci sono più, temi profondi e importanti. Ho notato che questa modalità espressiva è riemersa all’interno del disco quando dovevo dire cose cruciali e molto intense, quando dovevo esprimere qualcosa di molto identitario e necessario. In quei momenti il modo più vero è risultato essere quello delle villotte.
A proposito dei testi, in questo ultimo lavoro hai deciso di cantare per tutto il disco in carnico, abbandonando anche quei pochi brani in inglese che erano presenti in Hrudja. Come mai?
Anzitutto, Hrudja era una raccolta delle canzoni che avevo scritto nel corso degli anni fino a quel momento. Non sono quindi brani omogenei scritti tutti nello stesso periodo come è invece avvenuto con il nuovo lavoro. Le canzoni in inglese che ho inserito nel primo disco erano soprattutto un mio tributo a tanta della musica che ho ascoltato nella mia vita, che per forza di cose è cantata in inglese. Rimangono episodi di cui vado molto fiero e che mi hanno insegnato qualcosa. L’inglese è una lingua che ti avvicina, anche se trovo fastidioso questo monopolio. Per fortuna adesso sembra che ci siamo un po’ stancati, si avverte il bisogno di ascoltare qualcosa di più autentico e personale. Dunque, quando ho deciso di cantare in carnico l’ho fatto per trasporre con la massima fedeltà le mie sensazioni – in modo che non ci sia alcuno scarto tra quello che ho in testa e come lo voglio dire, perché lo dico nel modo e nella lingua con cui lo sto pensando.
Con Surtùm, non mi sono posto più limiti da un punto di vista musicale nel cercare di assecondare i gusti del pubblico (rispetto alla durata delle canzoni, o del produrre un disco troppo cupo), ho abbandonato qualsiasi mediazione e ho deciso di cantare solamente in dialetto carnico. Non escludo che in futuro magari vorrò dire qualcosa in maniera più comprensibile a tutti. Per intanto è un momento molto florido per l’uso di lingue minoritarie nella musica, il che mi rincuora, perché sta cambiando qualcosa. Credo sia un bene continuare ad essere assolutamente identitari, autentici e soprattutto veri, preservando ciascuno la propria identità, seppur minoritaria. Secondo me il miglior modo per essere amici, veri e sinceri con il prossimo non è cercando di omologarsi, per essere qualcosa che non si è, ma bisogna prima di tutto essere sé stessi partendo da come si dicono le cose, in maniera totalmente autentica.
Cambiando discorso, questo disco, oltre ai richiami alla sfera naturale di cui parlavamo in precedenza, per via delle sue tinte quasi gotiche pare suggerire una contiguità con l’universo letterario e cinematografico dark-fantasy. Ci chiedevamo se fossi un appassionato e fossi stato influenzato da questo mondo.
Una delle cose che mi ha toccato di più è stata la lettura del manga Berserk, l’ho riletto completamente poco dopo la scomparsa di Kentaro Miura e rimane un capolavoro senza tempo. Sono sempre stato amante di Tolkien, anche se non conosco tutto a memoria del suo immenso universo. Qualche mese fa mi sono riguardato la trilogia estesa diretta da Peter Jackson e ho pianto tantissimo, cosa che non mi era mai successa.
Ad ogni modo, quello che è presente in questo disco, che può sembrare simile a quella sfera lì oscura, magica e fantastica, non è assolutamente conscio o voluto. La cosa che più mi muove ormai è la poesia, il potere della parola, del simbolo, del significato. Ciò che trovo fondante e di importanza vitale in quello che faccio è provare a tendere verso quel tipo di verità che mi capita di trovare quando leggo poesie – quella comprensione “inconscia” di un’esperienza, di un sentimento, di una ricerca fatta da qualcun altro.
Non ho l’ardire di dire che scrivo poesie, però la scrittura per me è molto importante: il suo simbolo, il suo emblema, la sua potenza più ultima. Questo è quello che mi muove e che sento più vicino a quello che faccio in questo momento della mia vita.
Durante la creazione di Surtùm che musica hai ascoltato? Da cosa ti sei fatto influenzare musicalmente?
Nella fase di creazione di Surtùm era molto difficile per me pensare di poter ascoltare musica. In effetti riuscivo ad ascoltare solo musica tradizionale, un po’ dal Medio Oriente, dall’Est, dall’Asia. Musica che reputavo e reputo molto più vera di quella che io stesso faccio e di quella che caratterizza il mondo occidentale. Uno dei pochissimi artisti occidentali che ho ascoltato è Moondog, che definisco un compositore incredibile e che, oltre che all’aspetto artistico, è anche una persona spiritualmente altissima alla quale appunto sono grato del lascito che ci ha regalato.
In questo nuovo album usi la voce ancora di più come fosse un altro strumento musicale. È una cosa voluta ovviamente, ma volevamo sapere come è nata questa cosa?
Ricollegandomi ai discorsi di prima, mi sono concentrato e ho meditato a fondo sul concetto del canto, della preghiera, della voce. Per farvi un esempio, Zoja è una canzone che a livello di testo e contenuto è un’analisi, un guardare la propria voce da fuori, vederla come un’arma, uno strumento potente. Qualcosa che dovrebbe essere usato sempre in funzione della fratellanza o dell’amore per la natura, ma che al tempo stesso può diventare qualcosa di tagliente, di affilato e che in me rappresenta un simbolo di dolore, come può esserlo un ricordo.
Il canto per me è sempre stato qualcosa di estremamente spontaneo. Continuo e continuerò sempre ad approcciarmi così – non sono conscio di quello che faccio con la voce. Ho la mia consapevolezza, ma non è portata dallo studio, dato che non ho mai studiato canto o musica. È sempre stato un qualcosa che rappresenta e parla attraverso i miei stati d’animo in quel momento. In questo senso, esplorare di più le potenzialità della voce è servito per trovare dei luoghi di risonanza dove alcuni concetti, alcune cose che volevo far uscire hanno trovato il loro spazio naturale per esistere al meglio.
Noi musicisti dovremmo essere dei veicoli, un punto di passaggio tra cose che arrivano da altri universi, altre realtà e altri piani, e portare fuori questa cosa meravigliosa in maniera autentica e in assenza di quel controllo che alla fine crea solo inutile maniacalità e, in fondo, omologazione. La ricerca della perfezione che ormai sembra così radicata nelle persone non è sana. Bisogna accettare le proprie sfaccettature, i propri limiti, il proprio essere, la propria condizione umana. Abitarsi di più, essere più sé stessi e cercare meno di piacere a tutti conseguendo ideali di perfezione che non verranno mai raggiunti.
Dimensione live: come procederà la tua avventura relativamente alla musica suonata dal vivo a supporto dell’album di imminente uscita? Continuerai in formazione allargata con due, tre, o più elementi o ci dovremo aspettare anche concerti acustici chitarra-voce?
Questo nuovo live per Surtùm l’abbiamo già suonato in anteprima a Tolmezzo, il capoluogo della Carnia. È un concerto che ho voluto fortemente per regalare qualcosa al posto in cui sono nato. Lì abbiamo avuto come ospite Benedetta Fabbri in quartetto con Nicolas e Manuel, che sono i miei fedeli compagni. Sarebbe bellissimo che ci seguisse sempre anche lei, ma bisogna trovare le condizioni giuste per coinvolgere più persone. Sono un grande amante delle formazioni live che cambiano sempre, che possono evolversi. Magari un giorno riusciremo ad esibirci anche in quintetto, con Mirko al corno e alla tuba.
Per ora abbiamo un tour di una dozzina di date già fissate e pubblicate sui miei profili social. La prima sarà al circolo ARCI Bellezza di Milano il 6 novembre, dove presenteremo l’album in trio. Qualche giorno eravamo a Radio Popolare e abbiamo suonato in trio la versione acustica di tre canzoni del nuovo disco. Mi sono molto emozionato e mi piacerebbe esplorare anche il live acustico in solo, spero che ci sarà la possibilità di organizzare concerti in questa dimensione perché è una cosa che mi appartiene molto.
La preparazione del live comunque è filata liscia come l’olio, l’abbiamo percepita come qualcosa di necessario, che doveva succedere. Non abbiamo avuto nessun tipo di difficoltà, sono canzoni che sembrano fatte apposta per essere suonate dal vivo. Non c’è una formula unica, è sempre tutto in divenire, in cambiamento, in movimento. Siamo pronti, caldi e non vediamo l’ora di presentare la nostra musica dal vivo!
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Last modified: 31 Ottobre 2025




