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Carne, l’album d’esordio dei Gouton Rouge

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Carne è l’album d’esordio dei Gouton Rouge, quartetto lombardo Power Pop, in uscita a marzo per V4V-Records in free download e cd digipack. Prendete tre ragazzi che a sedici anni vogliono fare Shoegaze: cinque anni dopo suonano ancora, sono in quattro e non hanno mai fatto Shoegaze. Il resto ha poca importanza. Nati nel 2008 da un errore di battitura a Busto Arsizio, i Gouton Rouge sono Dario, Eugenio, Francesco e Michele.

Sbiadire è il primo singolo estratto dall’album e lo trovate di seguito.

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TOY – Join the Dots

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Continua la già lunghissima tradizione inglese di band Psycho Pop, che affonda le proprie radici almeno ai Beatles di “Lucy in the Sky With Diamonds” o “I Am the Walrus”, e che attraverso miriadi di (più o meno riusciti) epigoni giunge fino al 2013 e a questo Join the Dots dei TOY. Secondo album per la band di Brighton, Join the Dots è senz’altro una conferma: un album (nonostante le apparenze e certe linearità ritmiche e vocali) divertito e divertente, che ci proietta in un mare sonoro dall’orizzonte lontanissimo e molto, molto colorato. Si potrebbero (e si possono) passare ore a navigare sui soundscape azzeccatissimi in cui i TOY annegano i loro brani (“Endlessly”, o l’inizio della title-track, o, ancora, l’intera opener “Conductor”, 7 minuti di naufragio sonico). Si sente, oltre alla psichedelia in senso lato e allo Shoegaze più onanista, anche un richiamo all’Elettronica vintage, negli artifici retrò (arpeggiatori e simili) e nelle linee di batteria drittissime e ossessive, da drum machine: una realtà che si sposa benissimo con tutto il resto del marasma, e che ci porta sempre più nel mare aperto di un mandala musicale che ruota su sé stesso e che racchiude un mondo di sensazioni e pulsazioni emotive, più o meno leggere, in cui vorremmo perderci senza possibilità di ritornare.

Penso abbia anche poco senso cercare di descrivere un disco del genere: non perché sia un disco bellissimo (non lo è necessariamente), ma perché è un disco di cui va fatta esperienza, che prende vita nelle pieghe della coscienza, quando si rifrange nel nostro piccolo universo personale e ci ruba, ci rapisce, ci trascina altrove. Come luce in un cristallo, e il cristallo siete voi, e il riflesso, il brillare, dipende anche dalla vostra personalissima forma. Di dischi come questo Join the Dots si può dire, al massimo, se sono suonati bene, se le canzoni filano, se la produzione regge, se la band sa fare il suo mestiere. Su questo non ho dubbi. Sul resto, lascio la parola a voi. Tappatevi il naso, prendete un bel respiro e buttatevi tra le onde dei TOY, poi sappiatemi dire.

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Tripwires – Spacehopper

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C’è tanta, tantissima inglesitudine nel disco d’esordio dei Tripwires. Spacehopper (che, detto per inciso, ha una copertina bellissima) è un frullato molto godibile ed abbordabile di stili che sono stati moda per periodi più o meno lunghi negli ultimi vent’anni, soprattutto in terra d’Albione: c’è il Brit Pop (ma più dalle parti dei Blur che degli Oasis: se non nelle sonorità, di certo nell’inventiva e nel caos creativo), con ritornelli intensi, tutto sommato orecchiabili, da cavalcare in cuffia o in qualche dj set (“Shimmer”); c’è il Rock, nelle distorsioni frizzanti e nella batteria sixties, in un impianto Indie che potenzialmente potrebbe aprire ai Tripwires la porta di radio e tv musicali (“Paint”); c’è lo Shoegaze, tutto nei cori sognanti e nei soundscape che coprono lo sfondo (la title track), negli effetti gonfi dei distorti e nei suoni (e nelle linee) di chitarra, pungenti e nasali, caotici, disseminati qua e là con sapienza (“A Feedback Loop of Laughter”).

Spacehopper è un’ottima via di mezzo tra il gusto un po’ onanista del suono panoramico e della psichedelia old school (“Love Me Sinister”) e qualche sapore più propriamente Pop/Indie Rock, canticchiabile, radiofonico, anche se, ad essere sinceri, la bilancia pende più spesso verso il primo elemento – e meno male (vedi il bell’intro di “Under a Gelatine Moon”, o l’atmosfera sospesa di “Catherine, I Feel Sick”). La voce, di rimando, oscilla senza paura tra il timbro di un Bellamy smorzato e meno primadonna (“Plasticine”) e paste con salsa Beatles (“Tin Foil Skin”, coraggioso pezzo-monstre da sette minuti e cinquanta), e il tutto, frullato, produce un cocktail dal sapore notturno, agrodolce e frizzante, da accompagnare ad una corsa in tram dopo mezzanotte, o a momenti introspettivi durante lunghi tratti ferroviari privi di luce naturale. Ne risulterà un viaggio comodo, anche per chi magari non è tanto abituato a viaggiare.

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Wolther Goes Stranger – Love Can’t Talk

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“L’amore non parla ma suda, santifica, scarnifica. Questo disco è una raccolta di canzoni d’amore calde e bastarde. Perché così è l’amore e pure Wolther”. Questo è quanto recita il retro della copertina di Love Can’t Talk, fatica discografica di Wolther Goes Stranger. Sorvoliamo su cosa tendenzialmente suscitano le già mezze recensioni degli uffici stampa o delle agenzie di promozione, figuriamoci quando è la band stessa che velatamente indirizza all’ascolto, naturalmente suscitando poi reazioni tutt’altro che favorevoli. Il terzetto, comunque, apre il disco con “Darling”, ballatona Indie Elettronica punteggiata dal pianoforte, con un testo piuttosto banale, volutamente ripetitivo, che lascia spazio all’apertura pulsante di  “Your Name”, primo esempio della commistione linguistica inglese-italiano che la band tanto decanta (“Hanno l’inglese e l’italiano perché sanno a chi devono parlare e vogliono essere capiti”), ma che a me fa abbastanza rabbrividire.

Già da questi due brani si evince un’ottima competenza tecnico-strumentale, una buona creatività e un’ispirazione variegata che attinge dallo Shoegaze quanto dal Trip-Hop, dalla Dance anni 90 e dal barocchismo degli anni 80. Manca però uno stile inconfondibile, manca quel quid che faccia trasalire nel sentire qualcosa di nuovo. E nella terza traccia, “I’m Sorry”, troviamo l’altro neo della band: la voce femminile. Nulla da togliere alla tecnica di Linda “Bru”, ma il timbro e la dizione andrebbero modificati: personalizzato il primo e migliorato il secondo. Il brano di per sé è l’ennesima conferma della cifra stilistica della formazione, che ha le idee chiare sul da farsi ma sembra dover ancora trovare il suo spazio nel mondo musicale. “Idol” ha meravigliose chitarre pulp, ma tristi rime tronche meteperché che fanno rimpiangere l’uso dell’inglese. “Jesus” è la traccia più riuscita, più curiosa, originale, personale: anzitutto il duetto vocale che fonde una timbrica maschile a quella femminile rende la costruzione del testo, questa volta ben fatto davvero, dialogica e filmica, suadente e sexy.

L’unico difetto è che Samuel Romano dei Subsonica sembra l’ideale ispirazione della linea melodica su cui viene intonato il testo e non che il cantante della band torinese non sia un buon esempio stilistico nel genere, ma, diciamocelo, ha anche un po’ rotto. A “Sometimes” mi sembra già di sentire una cover di una cover, mentre “Sixteen” ricorda particolarmente “Architecture” dei Manor, che, se avevano conquistato il mio interesse con “Afghan Hound”, con quell’ultimo singolo stantio anni 80, se l’erano giocata completamente. L’album chiude con “Julesdormeinberlin”, brano riflessivo, quasi interamente strumentale, un prologo ideale e azzeccato per un album nel complesso né sgradevole né particolarmente pregevole. I Wolther Goes Stranger si ascoltano una volta da disco e una volta dal vivo, se proprio capita, per dare una seconda possibilità e, per il resto, nulla più.

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My Bloody Valentine – M B V

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Il ritorno della band di Kevin Shields.
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ELF – I Hate You Everybody Ep

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ELF, al secolo Samuele Palazzolo, polistrumentista “da camera” (da letto, ossia: progettini autoprodotti, autocomposti, autosuonati) si circonda di fidi compagni di viaggio per spararsi il trip da fungo allucinogeno nel bosco liquido di chitarre scarne, ritmiche ondeggianti, synth umidi e rumoristi. Lo fa in un ep, I Hate You Everybody, che, con solo 3 canzoni (“I Hate You Everybody”, “Involution”, “The Pavement is Full of Stars Stars Stars”), riesce degnamente a presentare i soundscapes interiori dell’elfo in questione: post-rock e shoegaze in prima fila, tutta una giungla di suoni (fischi, distorsioni, voci nascoste, campanelli) sullo sfondo. Ci vorrebbe più attenzione alle linee vocali (distraggono senza regalare nulla in cambio, anzi: a volte scivolano nella parodia, loro malgrado) e più coerenza ideale (raccontaci qualcosa, ELF!).

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Miavagadilania – Fuochi EP

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Scoperti circa tre anni orsono, i milanesi Miavagadilania ritornano sulla lunga distanza con l’Ep Fuochi a reiterare quella formulazione nero torba che è la loro essenza musicale, un repertorio che rimane quasi intatto e che si rivolta dentro arrangiamenti post del post, una solennità che stringe con le sue spire lattiginose di shoegaze, fumigazioni sperimentali, tutta la patina noir dark che si possa racimolare, e che in cinque tracce diventano ossessioni cinematiche e malattia poetica nitida per tutta la durata della sua corsa d’ascolto.
Elena Capolongo e Claudio Papa – questo il nucleo dei Miavagadilania – sono al centro di un progetto psichedelico concettuale che miscela attitudini alla Born For Bliss con le “trasmissioni” sinottiche dei Bionic, pulsazioni a freddo e riverberi cosmici che si fanno largo in una forma canzone che ogni tanto riemerge dalle “disturbanze” e dagli anagramma sonori “Muoversi Muovere Muovermi” che immancabilmente accentuano i passaggi del registrato, un disco insomma che si fa approcciare dopo vari giri di prova ascolto, ma che poco dopo scioglie il muro gassoso che si trova tra l’ascolto nitido e “loro”.

È’ un design sonico che si prodiga a compattare suoni, effluvi e matrici distorte per poi coinvolgerle e convergerle in pads amniotici e senza peso specifico “Trascinami”, li raffina in velluti melodici “Fuochi” e li aspira nelle suggestioni cromatiche di stampo prog Canterburyane “Hvalur”, una materializzazione ombrosa che non faticherà molto per circuire il lato “sano” dell’ascoltatore ispirato; forti di un seguito conquistato sul campo, i Miavagadilania hanno uno spazio poetico inimmaginabile, un languore impregnato e stratificato che si eleva e romanticizza – a modo suo – un controaltare immaginario, come un viaggio moderno di Verne, su e giù verso i confini non confini di qualcosa che si muove ma non si avverte, poi se si ci si avventura nelle nebbie sciamaniche di “Il Sogno” il non ritorno è assicurato.
Amate in non eccessi e i viaggi amniotici in qualche dimensione in D? Benvenuti a bordo!

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3fingersguitar – Rough Brass BOPS

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Partiamo col dire che questo Rough Brass di 3fingersguitar è un ep (a bassa definizione) di passaggio, rilasciato in free download, che “spende” le ultime canzoni solitarie e anglofone di Simone Perna, già batterista dei Viclarsen, mente del progetto, di cui, al momento, rappresenta la metà (si è aggiunto da poco Simone Brunzu, batterista dei The Washing Machine).
Cinque tracce, tanto scarne quanto lunghe (una media di 5 minuti a pezzo), costruite da mattoncini di chitarre, poche percussioni, una loop station, effetti abbastanza grossolani sbattuti qua e là. È un lavoro notturno, “volutamente caratterizzato da un suono grezzo e imperfetto”, dove un cantautorato anglosassone sbracato e non troppo virtuoso si miscela a “rimuginazioni cerebrali”, a vortici di arpeggi, rumore, sussurri, fruscii di corde, ritmiche povere.

Le atmosfere convincono (“Lying Down In Your Perfection”, “Waiting For/Sister Midnight”), la voce un po’ meno (“Spies”). Aspettiamo con curiosità i prossimi lavori in italiano: potrebbero stupire.
Vedremo.

https://soundcloud.com/dreamingorillarecords/5-lying-down-in-your

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Droning Maud – Our Secret Code

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C’è voluto del tempo, c’è voluto il tempo necessario, i Droning Maud registrano ufficialmente il loro disco d’esordio Our Secret Code. Se ricordate le loro precedenti produzioni  Promo (2007) e The World of  Make Believe (2008) cercate di dimenticarle, non vi serviranno assolutamente da esca per l’ attuale lavoro in promozione, negli anni ci sono stati cambiamenti di line up, sperimentazioni sonore e fortunati incontri artistici che hanno dato vita ad una band completamente rigenerata nel sound e nella mente. Adesso è il tempo di Our Secret Code, è tempo di una nuova vita. Hanno conservato quella vena New Wave Post Rock di matrice nettamente britannica, i toni si abbassano e la produzione dei Dronig Maud prende strade Shoegaze con punte avvelenate di elettronica. Poi lo zampino dell’ormai sempre presente Amaury Cambuzat impreziosisce e di molto l’importanza del disco ( prima di questo vengo dall’ascolto di Oslo Tapes quindi le affinità riesco a sentirle tutte nonostante il risultato prenda strade diverse), le soluzioni sanno di freddi paesaggi incontaminati come la musica dei Sigur Ròs se proprio dobbiamo cercare un paragone (e che paragone) plausibilmente valido e preciso, senza dubbio dobbiamo lasciare da parte la musica italiana per entrare a stretto contatto con Our Secret Code. Le chitarre viaggiano incontrastate verso l’ignoto manipolando le menti di chi vorrebbe seguire l’esecuzione con attenzione, le ritmiche (senza basso) dettano tempi degni degli ultimi Radiohead, un continuo picchiare dritto e lineare con improvvise sterzate. La voce si amalgama al tutto giocando molto di squadra, intuizioni elettroniche non fanno mai sentire il vuoto sotto la struttura. Un disco pieno e deciso quello arrangiato dai Droning Maud, la volontà di avere tra le mani un prodotto esclusivo di cui andare fieri senza strani pensieri per la testa.

Un album pulito nei suoni con forti dosi di rock all’avanguardia, pezzi come “Nimbus” rendono molto bene l’idea di un lavoro comunque sia molto variegato nelle soluzioni sonore, uno studio valido e l’esperienza non fanno arrancare mai a fatica i Droning Maud lanciati a tutta velocità. Poi ci sono pezzi come “Ghost” che rendono leggera l’aria intorno, le chitarre girano e rigirano come fossero maledette da una profezia, l’intenzione surreale de Our Secret Code è subito chiara, non lasciare la ragione a chi si dedica all’ascolto del disco. Anche questa volta mi trovo a elogiare una band dai suoni nettamente nord europei, quasi come fossimo a corto di un identità italiana, come se non fossimo in grado di permetterci una propria e definita personalità al di fuori del cantautorato. I Droning Maud conoscono la ricetta della felicità artistica e registrano un album sopra le righe della decenza, maturo e completamente godibile in ogni sua sfumatura. Dieci pezzi che non mi metto qui a citare tutti sullo stesso livello compositivo, voglio invitare all’ascolto ripetuto de Our Secret Code per far cogliere le infinite scelte presenti, più si ascolta e più vengono fuori cose nuove e maledettamente belle. Una band che trova la propria maturità artistica non perdendo comunque l’entusiasmo della prima volta. Un disco che sinceramente ci voleva proprio.

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Threelakes And The Flatland Eagles – Uncle T BOPS

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Un brevissimo ep (3 pezzi per poco più di 10 minuti di durata complessiva), registrato in una sola giornata e per giunta all’aperto. Questo per dirvi quanto sia curioso il progetto Threelakes And The Flatland Eagles, che ho avuto il piacere di scoprire dal vivo al Magnolia di Milano in apertura a La Notte Dei Lunghi Coltelli (ma questa è un’altra storia).

Threelakes è un cantautore mantovano, Luca Righi, mentre The Flatland Eagles sono i suoi compagni di viaggio (Andrea Sologni, Raffaele Marchetti e Lorenzo Cattalani). Ciò che traspare vedendoli dal vivo (ma potrei sbagliarmi) è che tutto l’impulso creativo da songwriter venga dal frontman, mentre il vestito shoegaze sia cucito dalla band. In realtà, credo che, come spesso accade, la verità sia più indefinita, e i contributi al progetto più corali. Questo non toglie che queste due anime siano lo scheletro ultimo del progetto: un cantautorato (ma anglosassone, non solo perché la lingua scelta è l’inglese, ma anche perché lo stile richiama più gli States che casa nostra) che si rispecchia nell’uso particolare della voce, strascicata, sussurrata, mai piena, e nella chitarra acustica, linea su cui tutto s’appoggia; e una band fatta di ritmiche semplici ma ossessive, un basso che mi piace definire liquido, e chitarre prima alte e arpeggiate, poi distanti e bagnate. Insomma, un buonissimo punto di partenza, che lascia curiosi quanto basta per aspettarne un seguito.

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Operation Light/Universe – Operation Light/Universe

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Quando: un qualsiasi giorno invernale lavorativo (nota: fuori fa un freddo cane).
Dove: il bagno di casa mia, con la vasca piena.
Perché: è la fine di una giornata stressante (nota: di quelle che ti fanno incazzare).
La pratica del bagno serve a distendere i nervi e lavar via dal proprio corpo impurità e tossine varie e la eseguo con estrema dovizia, con acqua calda ma non bollente e con fare lento, ma non da bradipo. Mi immergo quindi con misurata soddisfazione, conscio che questa sarà la parte migliore della mia giornata.
Per completare il quadro serve solo un’adeguata colonna sonora, così metto su Operation Light/Universe dell’omonimo duo livornese, e subito penso che mai scelta fu più azzeccata. Quando partono le note di Signal sento i muscoli distendersi nell’acqua piena di bagnoschiuma, mentre assieme ai fumi del vapore l’arpeggio iniziale mi rapisce e mi solleva. Chiudendo gli occhi ho una sensazione di benessere che mi trasporta altrove, in alto, oltre la stratosfera, sono nell’Universe…
Ma dopo un po’ riapro gli occhi. La dose di benessere che mi faceva trasmigrare si è stemperata fino a sparire. Altrove ma a poca distanza le casse del mio stereo continuano a suonare la stessa melodia da parecchio. Ma è proprio la stessa? Esco dalla vasca. Sgocciolo. Fuori un freddo boia mi fa ritrarre tutto il retrattile, ma me ne frego. Voglio soltanto scoprire se ho mandato il disco in loop. Invece no. Il disco va come dovrebbe. Torno allora dubbioso in bagno e mi ripropongo di ascoltarlo accuratamente. L’acqua però ora è tiepida, i muscoli di nuovo in tensione: così mi asciugo rimirando la pozza  che ho creato uscendo, e sono conscio che dovrò asciugarla prima di scivolarci sù e spaccarmi qualcosa (nota: effettivamente ho rischiato di farlo, solo grazie ad un colpo di reni straordinario ed alla posizione felice del portasciugamani sono ancora qui fra voi). Ora non mi resta che ascoltare di nuovo.
Operation Light/Universe è un lavoro a quattro mani di Alessio Carli (guitar, bass, keyboards, programming, synth) e Alessandro Sebastian Morandi (guitar, soundscape, textures, loops) che esce per Inconsapevole Records, interessante etichetta livornese (anch’essa) di Ian MacKayeiana ispirazione. Il disco contiene otto brani strumentali dalle atmosfere rarefatte, dove la chitarra la fa da padrona e basi e tastiere seguono dimesse ma con stile. Il duo toscano si rifà esplicitamente a gruppi come Boards of Canada e Mogwai, reinterpretandone le direttive con sufficienti  gusto e personalità, attraverso una discreta scelta dei suoni e delle architetture, pronti talvolta anche a sorprendere con delle brusche ed inattese sterzate. Purtroppo gli Operation Light/Universe cadono nella per me troppo pretenziosa idea di trasmettere un’unica “immagine” attraverso il filo conduttore di una melodia che assomiglia troppo a se stessa in ogni brano. L’opera nella sua completezza ne risente al primo ascolto così come nei successivi, seppur l’impressione di ripetitività va progressivamente attenuandosi. Succede così che anche brani ben studiati, come il singolo Iridium Flare o la buona 88 Constellations, funzionano da soli ma non se accorpati nell’insieme dell’album che non trova la varietà in un’esposizione episodica, ma mostra per lo più la continua reinterpretazione dello stesso tema dalla prima all’ultima nota. Un peccato considerando che gli Operation Light/Universe avrebbero potuto dare ulteriore prova delle loro indiscutibili doti architettonico-sonore, ma siamo solo agli inizi (la band si è formata nel 2011) e, come si suol dire, le basi ci sono. Attendiamo speranzosi.
Ora mi tocca davvero asciugare quella pozza…

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