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Nails&Castles: il video del singolo “The House”

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“The House” è il primo estratto dall’Ep omonimo del duo milanese in uscita il 22 Marzo 2016: un originale mix di melodie indie pop, sonorità elettroniche, wave e shoegaze. Il primo EP s/t della band si compone di 7 tracce, tutte suonate con batteria, basso, contrabbasso. Caratteristica della band è l’assenza totale delle chitarre che vengono sporadicamente sostituite da un ukulele. Seppur composto da brani molto diversi tra loro il sound dell’EP risulta comunque compatto e omogeneo, un indie pop a tratti oscuro e con richiami alla new wave e all’emo anni 90.

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Recensioni | novembre 2015

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Max Richter – Sleep   (Modern Classical, Post Minimalist, 2015) 7,5/10

Capolavoro totale per il compositore britannico (lo trovate qui) che confeziona un’opera titanica la quale, anche per la durata che supera le otto ore, vuole essere realizzazione perfetta da assimilarsi durante il sonno. Disco dell’anno, se siete capaci di andare oltre le barriere del Rock e della forma canzone.

Ought – Sun Coming Down (Art Punk, 2015) 7/10

Secondo album eccelso per la band degna erede dei grandi Television. Tra le migliori e più originali formazioni Post Punk di ultima generazione, qui raggiungono il loro apice creativo.

Kathryn Williams – Hypoxia (Folk Pop, 2015) 7/10

Arrivata all’undicesimo album, la cantautrice britannica compone un concept ispirato al romanzo La Campana di Vetro della tormentata poetessa Sylvia Plath. Atmosfere soavi, minimaliste, ma di una notevole intensità. Da ascoltare in solitaria. Consiglio l’esilio su un’isola deserta.

Dhole – Oltre i Confini della Nostra Essenza (Post Hardcore, 2015) 6,5/10

Pregevole incastro di strutture sonore Post Rock e cantato Scream per questo quartetto lodigiano agli esordi, matasse di distorsioni da cui lasciarsi avvolgere mentre le liriche colpiscono violente. Un debutto meritevole di spazio nel consolidato panorama nostrano del genere.

Open Zoe – Pareti Nude (Pop Rock, Post Punk, 2015) 6,5/10

Carico di echi delle esperienze Alt Rock italiane anni 90 il primo disco di questa band veneta, armata di tradizionali basso-batteria-chitarra, a cui si aggiungono pochi tocchi di elettronica e un timbro vocale femminile che conferiscono un gusto catchy e contemporaneo al risultato finale.

Il Mare Verticale – Uno (Alternative Pop, 2015 ) 6,5/10

Non è semplice fare un bel demo. Bisogna essere esaustivi nel saper dar sfoggio di sé e delle proprie abilità compositive, senza strafare e risultare pesanti. E su questo Il Mare Verticale, con Uno, ha saputo davvero fare bene. Il disco apre con “Tokyo”, un brano Alternative Pop delicato, a cavallo tra Afterhours e sonorità Indie nordeuropee, che chiarificano subito timbri e accorgimenti che la faranno da padrone: arrangiamenti mai scontati per quanto perfettamente in stile, liriche (in italiano) trattate più come pretesto fonico che come significanti, atmosfera galleggiante e onirica, che sfocia naturalmente in “Non Luoghi”, con i suoi echi alla Radiohead. “Spuma” è forse la più italiana di tutto il lavoro della band romana, con richiami alla produzione di Benvegnù e Gazzè su tutti. Il disco chiude con “Elaborando”, che, quasi in maniera volutamente descrittiva, si connota in fretta come il brano più complesso tra i cinque, con i suoi ritmi marcati e il sound più cinematografico.

Prehistoric Pigs – Everything Is Good (Instrumental, Stoner, Psych Rock, 2015) 6,5/10

Distorsioni e spazi immensi, sabbiosi e oscuri. Un viaggio interminabile (otto brani per quasi un’ora di musica) tra i più desolati deserti  descritti da un trio non sempre impeccabile e fantasioso, ma che cerca perennemente il suo suono, incastrando la chitarra di Jimi Hendrix nel caldo torrido dell’Arizona. Peccato manchi la voce, avrebbe potuto dare maggior senso e maggiori vibrazioni a questo serpente sporco, vorace e velenosissimo.

La Casa al Mare – This Astro (Dream Pop,  Shoegaze, 2015) 6,5/10

Viene da Roma il terzetto che compone La Casa al Mare, con sonorità che non posso che richiamare subito una certa produzione Pop anni 80: voci indietro sullo sfondo, chiamate a far le veci di un vero e proprio strumento aggiunto, chitarre quasi prepotenti, seppure senza giri virtuosistici, effetti trasognani e riff ariosi e cantabili. This Astro apre con “I Dont’ Want To” che per i primissimi venti secondi sembra richiamare quasi gli Smashing Pumpkins e poi cede il passo allo Shoegaze in “Sunflower” e “M, particolarmente interessante per le aperture armoniche e il trattamento della dinamica. La mia preferita del disco risulta però essere “At All”, che suona come un brano degli Indiessimi Yuck. La costruzione dell’impianto sonoro cambia leggermente in “Tonight or Never”, in cui ogni elemento emerge con una brillantezza che sembrava mancare nelle tracce precedenti. L’EP chiude con “CD girl”, una traccia à la Raveonettes o My Bloody Valentine. Nulla di nuovo dunque, ma neppure qualcosa da cui rifuggire come la peste.

A Copy for Collapse – Waiting For (Electronic Synth Gaze, 2015) 6/10

Interessante duo barese che si muove agevolmente sulla via dei vari Telefon Tel Aviv, Mouse on Mars e The Postal Service. Qualche richiamo alla Dance Music poteva essere evitato. Sound anni 80 per chi non è fanatico degli anni 80.

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Recensioni | agosto 2015

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Ben Miller Band – AWSOF (Country, 2014) 8/10

Un secondo album spettacolare per il trio Ben Miller, Doug Dicharry, Scott Leeper che unisce in dodici tracce dal sapore Country tutta la propria esperienza e classe, miscelando Bluegrass, Americana e Southern Rock in un sound estremamente tradizionale ma che riesce a non emanare mai lo sgradevole odore di anacronismo.

Gab de la Vega – Never Look Back (Cantautorato, Punk, 2015) 7,5/10

Il cantautore Punk Folk bresciano Gab de la Vega torna e stupisce tutti con dieci nuovi pezzi e un’interpretazione di “Never Talking to YouAgain”, un grande classico degli Hüsker Dü. Un po’ ricorda quanto fatto recentemente da Tv Smith, ma c’è anche tanto di Bob Dylan e Neil Young. Da non lasciarselo sfuggire!

Stearica – Fertile (Post Rock, Math Rock, 2015) 7,5/10

Essere scaraventati al muro dalla potenza del suono non è cosa che succede troppo spesso. Gli Stearica ci riescono, in versione digitale quanto in versione live, a botta di drumming energici, bassi e chitarre distorti.

Lydia Lunch/Retrovirus – Urge to Kill (No Wave, Post Punk, 2015) 7/10

Lydia Lunch scrive il capitolo del progetto Retrovirus, riunendo sul palco Weasel Walter alla chitarra, Tim Dahl al basso e Bob Bert (Sonic Youth) alla batteria. Nove tracce per ripercorrere la carriera della “big sexy noise queen” e una ciliegina sulla torta: la cover di “Frankie Teardrop” dei Suicide.

OoopopoiooO – OoopopoiooO (Sperimentale, Ambient, 2015) 7/10

Due maestri del theremin creano un nome impronunciabile, sintomo di un universo distorto, onirico, pazzoide. Quella pazzia sana, che fa andare oltre le spesse barriere del Pop e mischia strumenti, giocattoli, elettronica, parole e voci che sembrano arrivare dalle zone più nascoste del nostro cervello. Tredici brani che sembrano difficili al primo ascolto ma che alla fine ci sembreranno vicini alle orecchie come ronzii di insetti.

All About Kane – Seasons (Pop Rock, 2015) 7/10

Gli All About Kane alla loro seconda prova discografica intitolata Seasons, confermano l’ottimo esordio con Citizens e aggiungono alla loro dna british un pizzico di sperimentazione che si spinge verso il Pop e l’Alternative. Seasons è un interessante insieme di melodie leggere e mood movimentati; canzoni come “Old Photograph” e “Hurricane” si fanno amare fin da subito per piacevolezza e orecchiabilità. Nonostante spesso la voce del cantante ci ricordi molto Brian Molko dei Placebo, gli All About Kane riescono a mantenere viva la propria identità per tutto l’album, offrendo all’ascoltatore qualcosa di interessante e ben realizzato. Anche se uscito da qualche mese lo consigliamo per tutti i viaggiatori estivi che hanno voglia di una sferzata di aria fresca.

My Own Prison – Sleepers (Hard Core, 2015) 7/10

Cagliaritani, i My Own Prison, dimostrano con questo loro lavoro di conoscere decisamente bene l’hard core e di possedere tutta la tecnica per poterlo personalizzare. Tutto il disco è fondato sull’infuenza grind e su un cantato growl che muove su ritmi serratissimi di basso e batteria (al limite dell’agilità), che non si concedono tregua neppure in “Sleepers Eve”, caratterizzata da un timbro chitarristico dal sapore Indie-Pop, o nella più intima “Temper Tantrum”. Dieci tracce per un full lenght davvero pieno di energia, decisamente per gli appassionati del genere.

Solkiry – Sad Boys Club (Post Rock, 2015) 6,5/10

A due anni di distanza dall’album d’esordio, torna il quartetto australiano con il suo dinamico Rock strumentale di chiarissima ispirazione mogwaiana. Un disco potente e variegato, che riesce a cullare tutto lo spettro di emozioni che si accavallano nei sogni ad occhi aperti e che ha l’unico difetto di mostrarsi troppo incapace di osare davvero, risultando troppo banale e ripetitivo nella scelta pura dei suoni.

A Minute to Insanity – Velvet (Grunge, Stoner, 2014) 6,5/10

Il Grunge non è morto. Gli A Minute to Insanity da Cosenza lo dimostrano con orgoglio in questo ep. La chitarra e la voce “consumata” di Francesco Clarizio, insieme al basso di Antonio Trotta e alla batteria di Francesco Lavorato, ti riportano lì, in quegli anni Novanta che non sono ancora messi in archivio del tutto.

Attribution – Whynot (Rock’n’Roll, 2015) 6,5/10

Potente e autorevole questo Whynot dei bergamaschi Attribution, album che mescola un’attitudine classicamente Rock and Roll ad una commistione di generi che invece di risultare indigesta esalta le qualità di ogni singolo componente (prezioso l’uso dei fiati). Da ascoltare soprattutto il divertente Funk di “Scofunk” e la bella rivisitazione di “Cold Turkey” di John Lennon.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Ep (Stoner, Noise, Hard Rock, 2013) 6,5/10

Un vero e proprio calderone: fondete Stoner, Noise e Hard Rock e otterrete la giusta ricetta sonora; un sound che appartiene più all’America che all’Italia e forse in questo la lingua non aiuta molto (sarebbe stato più giusto cantare in inglese!). Nonostante ciò un lavoro maturo negli arrangiamenti e perfetto nella registrazione

Snow in Damascus – Dylar (Elettronica, Shoegaze) 6/10

Atmosfere cupe e sonorità che spaziano tra Elettronica e Shoegaze, per un disco d’esordio che nel complesso suona come un buon lavoro di tecnica, ma che non colpisce per la sua originalità.

Moira Diesel Orchestra – Moira Diesel Orchestra (Alternative, Post Grunge, 2014) 6/10

Orfani degli anni Novanta, i MDO ricercano costantemente sonorità a metà tra il Seattle sound e dei seminali Litfiba. Tra qualche errore di gioventù e troppi eccessi di imitazione emergono alcuni momenti interessanti come “Nostema di Posizionamento Globale” o “Ardore” che per qualche minuto cancellano i molti reminder. Rimandati.

The Moon Train Stop – EP (Rock, Alt Pop) 6/10

Echi sixties per il trio piemontese all’esordio. Un Pop alternativo luccicante, divertito, ritmato, senza eccessiva originalità ma competente. Quattro brani suonati bene, cantati così così. L’inglese non rende benissimo. Non lasciano (ancora) il segno.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Di Blatta in Blatta (Stoner, Noise, Hard Rock, 2015) 5,5/10

Quando si incide un disco che ha il grave compito di succedere a quello d’esordio si pretende qualcosa di più; purtroppo in questo lavoro si mette in evidenza solo la bravura. Mancano i contenuti e le idee nuove. Un piccolo passo indietro quindi è stato fatto nonostante il gruppo si sia aperto ad un lato più “oscuro”.

Night Gaunt – Night Gaunt (Doom Metal, 2015) 5,5/10

I romani Night Gaunt fanno loro l’essenza dei Candlemass unendola alle cupe atmosfere dei Katatonia e alle accelerazioni di puro stampo Celtic Frost. Si resta sempre nell’ambito del Doom Metal, fedeli a un registro prestampato. Senza infamia né lode.

Marco Spiezia – Life in Flip-Flops (Cantautorato, Swing 2015) 5/10

Semplicità ed immediatezza sono le caratteristiche principali di questo disco che non fa ascoltare nulla di nuovo ma che diverte. Canzoni (quasi) sempre veloci ma dai ritmi abbastanza simili. Forse il cantautore sorrentino Marco Spiezia dovrebbe (e potrebbe) osare di più.

The Junction – Hardcore Summer Hits (Indie, Pop Punk) 5/10

Per i tre padovani, il secondo album è una nuova prova con pretese ridotte al minimo sindacale. Pezzi tirati quando basta per provare a non annoiare, qualche buona melodia, un inglese che si tradisce spesso e tantissime banalità, in una miscela di cliché Indie Rock e qualche incursione nei territori del Punk Rock (Pop meglio) da bermuda, occhiali da sole e infradito.

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Ottovolante – Re di Quadri in Trip

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A tre anni di distanza da La Battaglia delle Mille Lepri, i molisani Ottovolante si ripropongono con una formazione diversa, un’etichetta che crede profondamente in loro (la Diavoletto Netlabel) e soprattutto un nuovo disco: Re di Quadri in Trip, registrato interamente al Red Sound Studio di Petacciato (CB). Il singolo “R.i.p. Nichilismo” ci indirizza attraverso un caleidoscopio nero pece fatto di suoni elettronici e New Wave anni 80. Non risulta particolarmente assimilabile per chi non mastica bene questa mistura. La solenne “Sul Fronte di Guerra” ha un’articolazione che è un autentico passaggio tra generi che non hanno nulla l’uno con l’altro: una sorta di battaglia galattica tra il Rock, la Techno dei The Prodigy e i film western di Sergio Leone. L’Ispettore Bloch Va in Pensione” (chiaro omaggio al fumetto cult Dylan Dog) e “Edimburgo 31/12” sono le facce identiche di una medaglia diversa, rappresentano il principio e la fine di una festa, nata inizialmente come un rave party e chiusa come una funzione religiosa. Inizia a mancarmi l’aria mentre porgo l’orecchio a “Disagio del non Oltre”, claustrofobica e nebulosa fino al midollo. Apro la finestra e da fuori entra “Storie di Nessuno (Me Compreso)”, ma non capisco se provenga dallo stereo dell’auto di uno sbruffone maleducato o dal giradischi di un cultore della musica d’autore. Confuso, sono troppo disattento per apprezzare “Geometria dell’Incontra tra Due Cerchi”, che scambio per il proseguo del brano che l’aveva preceduto. Re di Quadri in Trip ha tante idee, poche verità e un’accentuata mancanza di compattezza. Nei tempi passati non gli resterebbe che abdicare, atteso alla forca dalla folla impazzita. L’ispettore Bloch chiederebbe un antiemetico a gran voce, Dylan Dog la sua Bodeo 1889. In entrambi i casi non sono affatto presagi positivi.

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Soul Racers – Kill All Hipsters

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Un muro di suono bello e buono, ritmi incalzanti, molta densità e il “vocione” di Vincenzo Morreale a completare il tutto. Vincenzo Morreale (voce e chitarra) insieme a Flavio “Ku” Pisani (basso e voce) e Francesco Reginella (batteria) dà corpo e anima ai Soul Racers, trio Stoner Rock di Varese, attivo dal 2012. Il gruppo arriva al suo primo disco, autoprodotto, a marzo del 2015. Sei i brani che compongono Kill All Hipsters, una provocazione voluta e cercata, rivolta, spiegano gli stessi Soul Racers, al “pubblico dell’indie rock nostrano più preoccupato dall’hype che alla musica e nei confronti dell’ambiente hard’n’heavy che talvolta tende a prendersi troppo sul serio”. Quello che ne viene fuori è lavoro compatto, appunto denso, e a suo modo originale. Duro, ma non monotono, come è facile intuire nella scelta dichiarata. Basta ascoltarlo per averne la conferma, a partire dal genere in cui la band lombarda si identifica, lo Stoner Rock appunto, per andare a incontrare il Garage e Shoegaze, con risultati apprezzabili. Un disco sicuramente da ascoltare con attenzione, possibilmente ad alto volume.

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Singapore Sling – The Tower of Foronicity

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Se al nome Singapore Sling la prima cosa che avete associato è l’omonimo cocktail a base di gin dal colore “frocissimo”, mi dispiace dirvelo ma avete un grosso problema che non vi aiuterà a immergervi e farvi seppellire vivi dal sound claustrofobico di questi cinque islandesi. All’attivo da inizio millennio e con cinque album alle spalle tra cui l’ultimo (Never Forever) datato 2011, la formazione capitanata da Henrik Baldvin Bjornsson torna a tuonare il proprio malessere esistenziale riuscendo a pareggiare, anzi superare, i livelli di Perversity, Desperation and Death e Must Be Destroyed. Meno legato all’Indie Rock degli esordi, pur mantenendo pura l’anima Neo Psych, The Tower of Foronicity gioca col Noise Pop e l’Alt Rock stile Pavement, gonfiandone la parte ritmica con le ossessioni Post Punk di Jesus and Mary Chain e le linee melodiche con shoegaziani echi di My Bloody Valentine.

A tutto questo, va ad aggiungersi una buona dose di folle spirito Psychobilly che riuscirà anche a richiamare lo spirito di un indimenticato Lux Interior (tranquilli, non è morto), nonché qualche venatura Folk/Country/Blues desertica e sabbiosa, ricolma di ritmiche e melodie mantriche che molti di voi avranno apprezzato nell’esordio capolavoro (Dead Magick) di un’altra band di Reykjavik, i Dead Skeletons. Il paragone non è per niente azzardato giacché proprio Henrik Baldvin Bjornsson è anche leader del suddetto progetto nel quale ha esasperato il lato lisergico e meditativo proprio dei Singapore Sling.

Dodici tracce surreali e cupe come un brutto sogno, in cui chitarre, tastiere, voce e sezione ritmica costruiscono un’oscura tela dalla quale vi sarà difficile tirarvi fuori e poi un sound inconfondibile, riverberato, effettato e lontano, proprio come quella parte della vostra anima dove risiedono gli incubi.

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Blonder – Radio

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Per ovviare alla frustrazione di una che è costretta a passare metà della giornata davanti a un PC con l’audio fuori uso faccio un piccolo esperimento, un primo approccio senza audio. L’EP di esordio dei Blonder è disponibile in vinile 7 pollici e in free download. Modaioli. È una scelta ormai frequente, in linea con il dilemma dei tempi moderni del dover decidere tra progresso e tradizione. Non sono mai stata una fanatica del supporto ma se continuo a prediligere quelli fisici è a causa di una certa forma di feticismo in fatto di artwork, biglietti da visita del suono. Il front di Radio è essenziale, duocolor. il titolo in nero campeggia su un fondo ocra. Sul retro, un satellite artificiale, sempre nero. I tre ragazzi romani fanno alcune premesse. Dichiarano una vocazione per un certo Punk, dai Radio Birdman agli imprescindibili Stooges, e dicono anche che questo EP è stato un parto naturale ma frettoloso, senza troppa cura nella qualità. Non mi scompongo, perché per ora il contenitore mi ha convinta nonostante sia sfacciatamente Lo-Fi.

Rientro a casa e premo play, ed il contenuto suona estremamente in linea con le impressioni del mio primo ascolto-non-ascolto. Il ritmo serrato di “More Drugs Blue Sky” è trascinante nonostante le sbavature. I quattro brani che compongono Radio sono costruiti su distorsioni e ronzii Shoegaze evocano le atmosfere dei Ride agli esordi, ma con un energia che sa di anni 70 e di Proto Punk. Chitarra, basso e batteria. Tracce brevi, sporche e penetranti. Un timbro vocale non particolarmente originale, che per lo più non riesce a farsi spazio tra i riff ma che a tratti esplode graffiante, come sul ritornello di “And Feathered Cloud”, acida e melliflua, con dentro tutto il background musicale che si è costruito chi ha superato da un po’ la soglia dei trenta.

C’è da dire che forse questo ultimo brano l’unico in cui si manifesta in maniera più compiuta uno stile proprio. Le tracce che lo precedono risultano un saggio di quelle che per loro stessa ammissione sono le loro passioni e ispirazioni e poco svelano su quello che c’è da aspettarsi dai Blonder quando torneranno in forma di album compiuto.  Non c’è alcuna smania sperimentale, né tantomeno la pretesa di essere sofisticati, ma a rimanere in bilico sulla sufficienza poi mi sento la prof stronza del liceo. Ammessi all’esame di stato del long play, ma prendetevi il tempo necessario per le levigature.

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Islands, il nuovo album dei Verily So

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Si chiama Islands il comeback dei toscani Verily So, band Shoegaze, Slowcore in uscita il 3 giugno per V4V-Records e W//M a distanza di tre anni dal loro esordio self titled che riscontrò un grandissimo successo di pubblico e critica.
Dalle sonorità più compatte e Shoegaze, Islands arriva al termine di un periodo che ha visto i singoli membri della band dedicarsi a progetti paralleli (Luca ha dato vita a Barrens, Simone a Small Giant e Marialaura ha scritto canzoni per un progetto di prossima pubblicazione) e l’ingresso nella formazione di Antonio Laudazi (Orhorho) alla batteria. Il concept, non cercato, è quello dell’incomunicabilità: da qui Islands, sinonimo lampante di lembi di terra alla deriva, ognuno per sè. Islands è il primo disco dei Verily So scritto ed arrangiato interamente dalla band al completo ed il suono è il frutto delle lunghe sessioni in sala prove: più distorto, Wave, Shoegaze, un panorama che sacrifica all’altare del feedback l’aspetto più Folk del progetto.

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Il Video della Settimana: Verily So – “To Behold”

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“To Behold” è il primo estratto da Islands nuovo disco dei Verily So in uscita il 3 Giugno sotto etichetta V4V Records e W//M. Dalle sonorità più compatte e Shoegaze, arriva al termine di un periodo che ha visto i singoli membri della band dedicarsi a progetti paralleli (Luca ha dato vita a Barrens, Simone a Small Giant e Marialaura ha scritto canzoni per un progetto di prossima pubblicazione) e l’ingresso nella formazione di Antonio Laudazi (Orhorho) alla batteria. Il concept, non cercato, è quello dell’incomunicabilità: da qui Islands, sinonimo lampante di lembi di terra alla deriva, ognuno per sè. Islands è il primo disco dei Verily So scritto ed arrangiato interamente dalla band al completo ed il suono è il frutto delle lunghe sessioni in sala prove: più distorto, Wave, Shoegaze, un panorama che sacrifica all’altare del feedback l’aspetto più Folk del progetto.

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Ecco il nuovo video e secondo singolo dei Gouton Rouge

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“Attratti” è il secondo singolo estratto da Carne, l’album d’esordio dei Gouton Rouge, quartetto lombardo Alt Rock, New Wave, Power Pop, Shoegaze. L’album è uscito il 17 marzo per V4V-Records in collaborazione con S3X Netlabel ed è disponibile in free download e streaming al seguente link: http://bit.ly/1qlGv1W

Il video è stato ideato e diretto da Andrea Losa e vede protagonisti Matia Campanoni e Gaia Galizia. Buona visione e buon ascolto.

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The Sorry Shop – Mnemonic Syncretism

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I brasiliani The Sorry Shop (provenienti da Rio Grande, una modesta cittadina situata nell’estremo lembo meridionale dello stato carioca), dopo la pubblicazione del full lenght Bloody, Fuzzy, Cozy (2012), tornano nuovamente in scena con Mnemonic Syncretism (2013), album interamente concepito e realizzato tra le mura domestiche del polistrumentista Régis Garcia, affiancato nelle recording sessions da Rafael Rechia, Kelvin Tomaz (chitarre: rispettivamente traccia 3/8), Marcos Alaniz e Mônica Reguffe (voci). Ponderata autarchia tecnico/produttiva, concettualmente in linea con la manifesta attitudine Lo-Fi del progetto: un sound rigorosamente nineties, influenzato dai più disparati (sotto)generi musicali quali Shoegaze, Noise, Ambient, Space/Post Rock.

Ogni qualvolta mi accinga ad analizzare, produrre o supervisionare un album di tal fattura, indugio puntualmente  nella stupefazione constatando quanto abbia influito su di esso il sempre attuale ed avanguardistico Wall Of Sound (1962/1963) di Harvey Philip “Phil” Spector (probabilmente uno dei più influenti record producer che il panorama discografico ricordi). Una muraglia sonora travolgente e complessa generata dalle imponenti chitarre di Régis, costantemente danzanti nel punto focale della scena, indubbia lezione di raffinata filosofia “spectoriana”, ed evidenziate con estrema accuratezza da un seguipersone in perenne staticità, a tal punto da relegare in periferiche zone d’ombra le differenti componenti contestuali (vedi, ad esempio, l’incisiva opening track “Star Rising” e brani di intensa peculiarità come “Rooftops of Any Town”, “A Place to Bury Strangers” e “Know Me Right”). Vera e propria disintegrazione armonica su cui si innestano (timidamente) partiture vocali eteree e sognanti, quasi sfuggenti ed indistinguibili, mai particolarmente enfatizzate rispetto alla poderosa riverberazione dell’impianto chitarristico, indiscusso e primigenio fulcro vitale di un progetto non esente da oggettive imperfezioni (un paio di Db su basso e batteria non avrebbero di certo guastato), ma pur sempre onesto, sincero e godibile. Da tener d’occhio.

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Be Forest – Earthbeat

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Luogo d’ascolto: davanti ad una puntata di Ballarò senza volume, il miglior modo per capire la politica, guardando solo le facce.

Umore: come di chi non si spiega perché ha voglia di pulire lo schermo con la carta igienica.

Secondo lavoro a distanza di tre anni (il primo Cold era del 2011) per i pesaresi Be Forest. Pesaro in musica, dove l’avevo già incontrata? Già, poco tempo fa avevo recensito il disco dei Soviet Soviet che condividono con i Be Forest la provenienza. Evidentemente non è un caso, seppur con mio sommo stupore considerato il clima e la vocazione estiva della città marchigiana, perché lì dove la cadenza abruzzese cede il passo a quella riminese deve esserci una scena molto devota a certo tipo di atmosfere musicali demodè e piuttosto 80’s. Non che i Be Forest siano simili ai Soviet Soviet, per carità, il punto di contatto è che entrambe le band sembrano attingere a quel lato più cupo e ipnotico di quegli anni Ottanta che furono di band come, la prima che mi viene in mente e senza nemmeno sforzarmi, i Cure. Operazione meritoria, troppo spesso e per troppo tempo quegli anni li abbiamo identificati con le spalline di Simon Le Bon e i colpi di sole di Nick Rhodes, invece in quegli anni si costruì quel movimento che avrebbe influenzato sotterranei di rock di almeno altri tre decenni, benché riconoscerlo non era facile e spesso lo si arguiva solo dai riferimenti che professavano band che risultavano molto diverse in termini di proposta musicale. In questa ventata di Alt Rock tutta italiana invece sembra di sentire proprio quell’odore di quegli anni, in maniera chiara ed inequivocabile, non solo per le armonie o le progressioni dei pezzi ma anche e forse soprattutto per i mixaggi. In Earthbeat i riverberi sembrano ricostruiti fedelmente ad immagine e somiglianza di quelli dei tempi che furono, tutto sembra esser stato scelto in funzione di un’idea onomatopeica della musica, di un disco che evochi i suoni della natura. L’uso insistito di timpano e di linee di basso ostinate sugli ottavi ricorda i addirittura i primi U2, i temi della chitarra sono così soffusi da integrarsi benissimo con la voce fredda di Costanza Delle Rose come due fari di una macchina nella neve al buio.

Il disco inizia con ben undici secondi di silenzio prima di “Totem”, il primo pezzo, ed è sicuramente una scelta rischiosa perché presta subito il fianco alla battutaccia del recensore stronzo “sono gli undici secondi migliori del disco”; non sarà il mio caso perché il disco l’ho ascoltato più volte e l’ho gradito dal primo ascolto. Inizia e segnalo un arpeggio molto simile ad una suoneria di iphone: mi ha messo diverse volte in difficoltà perché pensavo di ricevere una chiamata ogni qual volta mettevo su il disco. Tra i pezzi da segnalare in una tracklist che scorre via fluida ma anche fin troppo liquida c’è sicuramente “Ghost Dance” tutta imperniata con melodie pentatoniche dal vago sapore giapponese che sembrano scritte usando solo i tasti neri di un piano, impreziosita anche da un bel suono di synth analogico molto vintage; inoltre “Sparale”, onomatopeica e ipnotica con il suo tema costruito su una scala maggiore ripetuto fino allo sfinimento che riesce a riprodurre mirabilmente l’idea visiva di uno scintillio, che poi diventa un abbaglio e poi colpo di sole che alla fine ti stordisce per quanto è ossessiva. Complessivamente i Be Forest, rispetto al primo lavoro (lo dico senza mezzi termini, mi è piaciuto di più) cercano una normale e fisiologica evoluzione che solo in parte si è sostanziata in idee musicali valide. Sembra che vogliano andare verso una direzione ma ancora non hanno chiara la strada da percorrere. I pezzi sembrano non esplodere mai e rimangono sempre molto sospesi in un terreno emotivo in cui l’ascolto finisce per essere disorientato. In questo disco è altissimo il rischio di non ricordarsi un pezzo più di un altro, altissimo il rischio di non mettere il disco per ascoltare ma per accompagnare con il sottofondo un’altra attività, fortissimo la sensazione che utilizzare lo stesso chorus su ogni chitarra del disco finisca per azzopparne la versatilità.

Forse però il vero problema è un altro ed è il mio: forse il problema che ho recensito i Soviet Soviet prima di loro e forse, non so se succedeva anche negli anni Ottanta, al secondo disco in quindici giorni questa scena comincia a diventare moda, comincia già a risultare un po’ posticcia. In due parole mi ha rotto un po’ i coglioni.

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