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Dead Bouquet

Written by Interviste

Far si che la tua fonte d’ispirazione non solo ammiri il tuo lavoro ma addirittura lo produca, significa che qualcosa di speciale è stata creata. Sarà con il romanticismo, seppur “tragico”, insito nel loro nome, che i Dead Bouquet con il loro album di debutto As Far As I Know sono riusciti a conquistare le orecchie di chi li ascolta. Ma lasciamo a loro la parola per raccontarci come è andata…

Ciao ragazzi, benvenuti su Rockambula. Un disco d’esordio As Far As I Know dove a metterci mano sono state persone non proprio comuni per tutti gli artisti. Svelate voi ai nostri lettori di chi stiamo parlando e quali sono state le vostre sensazioni per questa collaborazione?
Stiamo parlando di Paul Kimble e di Joe Gastwirt; il primo bassista e produttore dei Grant Lee Buffalo, grande rock band degli anni ’90, noto anche per aver lavorato con Michael Stipe, Radiohead e Andy Mackay nella colonna sonora del film Velvet Goldmine. Joe invece, rinomato mastering engineer, ha contribuito a centinaia di dischi d’oro e platino per artisti del calibro di Bob Dylan, Neil Young, Pearl Jam, Jerry Garcia e Paul McCartney. Due grandi professionisti ma soprattutto due favolosi esseri umani che hanno contribuito senza riserva al nostro album offrendo la loro sensibilità musicale.

Parlateci di come sono nati i Dead Bouquet e la scelta di questo nome.
Il nome Dead Bouquet l’abbiamo preso dal testo di Fuzzy, una canzone dei Grant Lee Buffalo ci piaceva la visione ottocentesca di un bouquet di fiori appassito. Suoniamo insieme dal 2012 e dopo i primi live e la sintonia che subito si è creata, abbiamo deciso di registrare chiamando Paul… lui ha accettato ed eccoci qua!

Quello che proponete è Rock, è psichedelia, è Folk, quali sono gli artisti da cui vi fate ispirare maggiormente, per esempio: durante la scrittura di questo album stavate ascoltando qualcosa in particolare?
I Grant Lee Buffalo sono un ascolto primario per forza di cose, altri artisti di riferimento sono Neil Young, David Bowie, The Waterboys, Thin White Rope e Gordon Lightfoot. La sera, dopo le registrazioni, capitava di trovarci al nostro pub di fiducia ad ascoltare con Paul dischi di Scott Walker, Gordon Lightfoot, The Blasters…

Avete mai pensato di aggiungere componenti al vostro trio?
Il nostro sound è già molto pieno così, ma in futuro chissà, non poniamo un limite a questo… magari un polistrumentista…

Siamo in procinto del nuovo anno, quali sono i buoni propositi e gli obiettivi per questo 2015?
Stiamo organizzando un piccolo tour europeo che toccherà Svizzera e Francia… sarebbe bello girare tutta l’Europa… nel frattempo stiamo lavorando ai nuovi brani, abbiamo molto materiale!

Vi ringrazio per la chiacchierata, lascio a voi i saluti e le ultime news da lasciare ai nostri lettori.
Potete seguirci su Facebook alla pagina www.facebook/deadbouquet.net dove vi terremo aggiornati sulle nostre news. Il 14 gennaio torneremo sul palco del Contestaccio di Roma, dopodiché saremo a Milano il 6 febbraio. Vi aspettiamo! Un saluto a Rockambula dai Dead Bouquet

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Le Strisce – Hanno Paura di Guardarci Dentro

Written by Recensioni

Pubblicare ben quattordici tracce in un solo lavoro al giorno d’oggi appare una soluzione quasi demodé, ma Le Strisce hanno audacemente optato per tale scelta. Sempre più spesso, infatti anche i nuovi dischi di grandi autori del passato non arrivano oltre i dieci brani (vedi i recenti Storytone di Neil Young e Avonmore di Bryan Ferry). C’è poi persino la moda dei Talent Show di lanciare nuove proposte con ep intrisi di cover senza senso e spesso fuori luogo. Già per questo quindi un piccolo elogio la band partenopea lo merita senza alcun dubbio ma bisogna anche riconoscere il reale valore musicale di Le Strisce. “Nel Disagio” sembra molto influenzata da “Logico #1” di Cesare Cremonini con cui Davide Petrella, frontman della band, ha collaborato in occasione proprio di tale fortunata canzone e del suo ultimo disco in studio. Le Strisce escono da due album incisi per una major, la EMI Music, dopo aver cavalcato l’onda del successo di Myspace (oggi probabilmente sarebbe impossibile emergere grazie ad un social network) e si ritrovano catapultati quindi in una dimensione tutta loro intrisa di atmosfere tanto complesse quanto affascinanti, con arrangiamenti molto curati dal gruppo stesso in collaborazione con Massimo De Vita, Francesco Albano e Silvio Speranza (che figura anche come produttore esecutivo). Quattordici canzoni che cantano delle storie di ragazzi dai 18 ai 35 anni costretti a vivere in un’Italia ormai allo sbando, in “quel grande caos che questo paese ci sta lasciando dentro e che adesso comincia a fare paura”. Davide Petrella (voce e testi), Francesco Zoid Caruso (basso), Enrico Pizzuti (chitarre), Andrea Pasqualini (chitarre) e Dario Longobardi (batteria) sono maturati (e anche di parecchio) e portano una ventata di novità nella musica italiana, consci che a volte passare al lato indipendente (l’album esce per la Suonivisioni Records, label di Torre del Greco) può anche giovare, come se da una guerra alle major si potesse uscire addirittura rafforzati. Ed ecco quindiche l’ironia di tracce quali “Gli Artisti” e “Le Comete” dà anche un tono più piacevole all’ascolto, non nascondendosi mai dietro i “Fantasmi” che riecheggiano nella notte, come suggerisce la seconda traccia del disco. Il gruppo infatti si chiede anche cosa deve fare un giovane d’oggi per potere ridere trovando una serie di soluzioni volte alla sopravvivenza perché, come dicono in “Ci Pensi Mai”, solo il pensiero è reale tutto il resto mente. Il tutto condito da una colorita dedica attraverso un hashtag lanciato un po’ di tempo fa a Maurizio Cattelan. Come dire: non sempre arte e musica trovano un punto di contatto.

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March Division: ecco il video di “Dig It” estratto da Post Meridian Soul.

Written by Senza categoria

“Dig It” è il primo singolo estratto da Post Meridian Soul, il nuovo lavoro dei March Division. La band milanese è arrivata al secondo disco dopo l‘esordio del 2012 con Radio Daydream, primo passo di un percorso che è servito per mettere a fuoco quella miscela di Brit-Rock ed Elettronica da dancefloor che tutt‘oggi caratterizza il sound del quartetto. Il disco giunge al pubblico anticipato da due ep usciti nel 2014 (Post Meridian Soul EP e Metropolitan Fragments) ma soprattutto dopo l‘ottimo riscontro di critica del lavoro precedente e un‘intensa attività live culminata con la doppia apertura, rispettivamente a Neil Young nel 2013 e a Paolo Nutini nel 2014, per il festival Rock in Roma. Post Meridian Soul, in questo senso, è l‘ideale continuazione del primo disco, ma con una particolare attenzione volta ad ottenere un suono il più possibile suburbano, quale lente ideale per fotografare al meglio l‘impasse senza un futuro certo che caratterizza le giovani generazioni contemporanee.

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gianCarlo Onorato / Cristiano Godano – Ex Live

Written by Recensioni

In breve: gianCarlo Onorato, musicista, pittore e scrittore, scrive un libro, un saggio sui generis che è una sorta di autobiografia attraverso istantanee fatte di musica e canzoni: “Ex – Semi di Musica Vivifica”. Il passo dalla penna alla chitarra è brevissimo, e presto Onorato si trova in giro per l’Italia a portare sui palchi un concerto/reading ispirato al suo libro, in compagnia di Cristiano Godano, cantante dei Marlene Kuntz, che lo affianca come un doppelganger dialogante. Ed ecco poi che il concerto si trasforma in disco, tutto registrato dal vivo nella data alla Latteria Artigianale Molloy di Brescia, nel dicembre 2013. Il disco è un esperimento interessante, che unisce in scaletta brani di Onorato e dei Marlene Kuntz, oltre a cover di pezzi di Lou Reed, Velvet Underground, Beck, Neil Young, Nick Cave,  il tutto inframmezzato da brevi reading tratti dal libro. La grande vittoria del duo è quella di riuscire a miscelare tutto senza troppi scossoni, complice un organico ridotto all’osso (oltre ai due cantanti, troviamo solo tre musicisti ad accompagnare con mano leggera il percorso, tra chitarre umide, pianoforti, percussioni varie, organi, batteria…). Il mood del disco è sommesso, sussurrato, tra scariche sensuali e malinconie tiepide, in una pasta che la registrazione dal vivo aiuta a rendere “vera”, perfetta nelle sue imperfezioni infinitesimali (scusate l’ossimoro). Le canzoni prendono forma nel buio, scintillano nella mani di Onorato e del suo doppio, che le rigirano, le accarezzano, le mangiano e le risputano sottovoce, ma se è un bisbiglio, è comunque carico, appassionante, cosciente (“Perfect Day”). I reading scivolano, alternando al loro interno passaggi più riusciti (l’iniziale “Non Già il Suono Organizzato”) a brani meno coerenti, ma non per questo privi di fascino (“Chitarra Fender Telecaster”) – e la voce di Onorato si presta con dolcezza alla narrazione e alla sua atmosfera.

Un disco da provare, per farsi un piccolo viaggio organizzato nel mondo interiore di gianCarlo Onorato. E ammettendo pure che questo viaggio non abbia un valore universale (potremmo discuterne), è pur sempre vero che il racconto ne esce solido, compatto e piacevole. E magari, alla fine, scoprirete di esserne più conquistati di quanto avreste pensato prima di ascoltarlo. Non sarebbe una sensazione bellissima?

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Pearl Jam 20/06/2014 e 22/06/2014

Written by Live Report

I Pearl Jam si sono esibiti in un doppio live in stadio lo scorso weekend: il 20 giugno a San Siro, Milano, il 22 giugno al Nereo Rocco di Trieste. Per la precisione il mio concerto numero 6 e numero 7 della band di Seattle. E io sono una dei membri del Ten Club (il fan club ufficiale) che probabilmente li ha visti dal vivo meno volte.

Andare a un loro concerto è un rito: si fanno scommesse sulle canzoni di apertura, sulle cover che suoneranno, si incrociano le dita sperando di sentire qualche rarità che al massimo negli ultimi venti anni hanno suonato live negli Stati Uniti, a casa loro. I più sfegatati si piazzano in coda la notte prima, si scrivono sulla mano un numero che indica la loro posizione in transenna. Il premio di questa giornata sotto il sole è un plettro, una scaletta, la possibilità di essere sputati da Vedder. Io sono fuori ma non così tanto fuori, mi accontento di un angolino ben dietro rispetto alle posizioni di questi temerari, ma pur sempre nell’inner circle, l’anello che raccoglie i fan dei Pearl Jam, una famiglia, dove non importa quanto sei alto o basso, quanto puzzi di sudore, quanto fai schifo a cantare, quanto urli coprendomi lo show, quante volte fermi il cingalese per comprarti l’ennesima birra a sette euro. Ti piacciono i Pearl Jam, quindi per forza sei come me, almeno un po’.

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Noi, da bravi invasati, avevamo studiato per bene le scalette delle due date di Amsterdam che hanno aperto il tour europeo: attaccano con due ballate e una veloce. E sapevamo cosa aspettarci. Niente di strano quindi nell’apertura con “Release”, a parte il brano da brividi in sé e con la sua prosecuzione con “Nothingman”, ma certo “Sirens” proprio non pensavamo di sentirla in quella posizione. E meno che mai “Black”, La canzone d’amore per eccellenza, urlata e straziante come probabilmente solo “Best of You” dei Foo Fighters e “Please Bleed” di Ben Harper riescono ad essere, il preludio di ogni chiusura o quasi dei loro concerti, il commiato triste a cui i Pearl Jam ci hanno abituato. Quattro ballate in fila e sappiamo tutti cosa vuol dire: che per la prossima ora e mezza non faremo altro che saltare. E così è stato: “Don’t Go”, “Do the Evolution” e la magnifica “Courduroy” con quel primo verso “the waiting drove me mad, you’re finally here and I’m a mess” che praticamente è quello che penso di me, così impreparata, così trepidante, così sudata dinanzi a queste mie divinità. E si continua: “Lightning Bolt”, la title track dell’ultimo album, “Mind Your Manners”, il primo singolo dello stesso disco, la vecchissima “Pilate” e “MFC”. Sulla velocissima “Given to Fly” Vedder sbaglia l’attacco, sbaglia le parole, fa un bordello assurdo e si dà dello stronzo in italiano, mentre noi gli perdoniamo tutto e cantiamo per lui, ridendo del lato umano del vate della nostra religione. E via con “Who You Are”, “Sad”, “Even Flow”, la recente “Swallowed Whole”, “Not For You”, “Why Go” e una delle mie preferite di sempre, “Rearview Mirror”. Ormai sono certa che perderò l’utero a forza di saltare. O che mi collasserà un polmone. Tanto per darmi il colpo di grazia approfitto dell’uscita di scena per girarmi una sigaretta. Neanche il tempo di finire e i nostri sono già di nuovo sul palco, in set acustico: contrabbasso per Ament, chitarra acustica e sgabello per Vedder e Gossard. Attaccano con “Yellow Moon”, uno dei brani più controversi dell’ultimo album, troppo in stile Vedder solista per alcuni, tematiche già sentite per altri. Pochi cazzi, un brano da brividi sentito dal vivo. Segue l’intramontabile “Elderly Woman Behind a Counter in a Small Town” e non c’è una sola persona di fianco a me che non sappia le parole (Hearts and thoughts they fade, fade away). Direttamente da Binaural arriva “Thin Air” che prepara a un discorsetto super romantico di Vedder a quella giga sventola di sua moglie, presente nelle quinte con le due adorabili figlie: “Qualche anno fa ero sotto un treno. Ho suonato qui a Milano e ho conosciuto la donna della mia vita. Lei è la mia Eva Kent”. Stacco. Inquadratura dai maxi schermi su di lei in lacrime (chi non lo sarebbe con una dichiarazione d’amore del genere di fronte a 60mila persone?) e si intona “Just Breathe”. “Daughter”, così fresca, e poi “Jeremy”, all’opposto, emblema del disagio degli anni 90, “Betterman”. Tre icone della produzione dei Pearl Jam che uniscono così tanto involontariamente noi microscopici esserini laggiù nel parterre. Cose che solo se ci sei puoi davvero capire. E allora, adesso che siamo ancora più uniti, rompiamoci le rotule con “Spin the Black Circle”, “Lukin” e “Porch” che tra l’altro mi dicono Vedder abbia intonato prima del calcio di inizio della partita dei mondiali trasmessa preconcerto (io non c’ero, seguono bestemmie). La band esce di nuovo. C’è ancora un encore, lo sappiamo. Speriamo facciano “Baba” (“Baba O’ Riley”, una delle due cover degli Who che i Pearl Jam fanno divinamente; l’altra è “Love Reign O’er Me” che forse è fin più bella dell’originale), speriamo facciano “Alive”, e fanno “Alive”. E “Rockin’ in a Free World” di Neil Young, con il figlio di Matt Cameron alla chitarra solista al posto di McCready, un terrorizzato adolescente buttato sul palco di San Siro che scuote a mala pena la testa con dissenso quando Vedder gli propone di attaccare l’assolo, prontamente salvato dall’intervento di Gossard, che come al solito è composto in un angolo a fare pochissime note piene di groove e di gusto. E poi “Yellow Ledbetter”. Tripletta a luci accese. A saltare e a urlare. Sono tre inni più che tre canzoni. Un inno alla vita la prima, un cogito ergo sum urlato nel dichiarare di essere ancora vivi, nonostante tutto. Vivi e felici. Un inno al Rock, la seconda, in un mondo libero, liberato dalla musica, liberato da spiriti consapevoli della loro natura, del potenziale della vita stessa. Un inno a noi, la terza. Perché “Yellow Ledbetter” è forse la più ermetica delle canzoni dei Pearl Jam già solo perché non c’è una frase di senso compiuto con un soggetto verbo e complemento che abbiano un senso. Ma tutti la conoscono, tutti la urlano e le note finali del tema reiterato da McCready, solo sul palco, sono una goduria immensa.

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E questo era Milano.

Su Trieste vi risparmio il viaggio della speranza, la traversata longitudinale della pianura Padana che mi sono fatta in pullman per un totale di 16 ore di mezzo per assistere a tre ore di concerto. In realtà molte canzoni del live di Trieste sono in comune alla scaletta di Milano, in un ordine diverso. Fatte meglio, incredibilmente meglio. Persino Vedder sembra esserne consapevole quando inizia a raccontarci, in italiano (è solito farsi scrivere e insegnare la pronuncia di alcune cose che vuole dire ai fan in modo che tutti capiscano), che a Milano aveva bevuto troppo. E ce lo conferma il fatto che questa volta, per esempio, “Given to Fly” venga intonata con una perfezione accademica. “Black” e “Sirens” restano in cima, stavolta dopo “Elderly Woman” e la splendida “Unthought Known” presa da Backspacer. è una scaletta che parte romantica e triste. Chissà perché. Il succo resta, si salta per la prossima ora e mezza abbondante, con punte eccezionali con “Animal”, potentissima, tiratissima e la tamarrissima “Getaway”. Sono in brodo di giuggiole. E all’apice della mia gasatura, a tradimento, parte “Come Back”. Me la sentivo, l’avevo detto ai miei compagni di viaggio. Qualcuno aveva addirittura ipotizzato che sarebbe stata la prima canzone eseguita. Pecora nera tra le tiratissime “Deep” e “Even Flow”, “Come Back” commuove tutto lo stadio. Uno splendido gioco di emozioni condivise per pura empatia che porta tutte le gradinate ad accendere i cellulari, offrendo a noi, brulicanti nel pit, uno spettacolo meraviglioso. Una notte stellata, un cespuglio pieno di lucciole. Mi si riempiono gli occhi di lacrime. Non è il testo, che basterebbe di per sé, ma il momento commovente, quella compresenza di persone tanto diverse eppure tanto simili. Lo dice il brano stesso: “And the strangest thing today, so far away and yet feel so close”. Mi rifanno “Rearview Mirror”, mi rifanno “Betterman”, mettono il carico da undici con “Let Me Sleep” e “Chloe Dancer / Crown of Thorns” in tributo ai Mother Love Bone. “State of Love and Trust” è sempre una botta. Ci sono brani dei Pearl Jam come questo che ti riportano direttamente agli anni 90, che poi per me erano quasi i 2000 perché in fondo sono giovane. Ma ero disagiata tanto quanto i miei coetanei di una decade prima del Grunge di prima mano. Il concerto chiude allo stesso modo di Milano, lo stesso trittico, ma senza l’ospitata di Cameron Junior. L’assolo di “Rockin’ in a Free World” torna tra le sapienti braccione tatuate di McCready, che sarà pure invecchiato e avrà la pancia, ma sticazzi come se la sente. Briciolo di amarezza: scoprire a fine concerto, quando le prime linee del Ten Club postano su Instagram la foto della scaletta autografata, che in realtà in previsione c’era “Baba O’ Riley”. Chissà perché non hanno voluto regalarci un finale leggermente diverso.

Fa niente, motivo in più per andarli a sentire ancora una prossima volta, in questa riunione di famiglia a cadenza regolare.

Due curiosità, tanto per: i Pearl Jam hanno scoperto l’importanza di luci e scenografia. Roba di gusto ed essenziale, niente a che fare con i loro colleghi inglesi: una struttura ritorta di materiali riciclati, semovente, piena di luci, a cui vanno ad aggiungersi delle sfere che cambiano colore, scendono dalle americane, ondeggiano fra le teste dei musicisti che interagiscono con questi oggetti. A Trieste addirittura su una era montata una telecamera che proiettava in diretta sui maxi schermi le immagini psichedeliche che catturava. Su queste sfere Vedder è stato solito arrampicarsi per le prime date del tour americano. Questo potrebbe spiegare il tutore che aveva al ginocchio destro e la zoppia che comunque non gli ha impedito di saltare portandosi dietro l’asta del microfono da schiantare contro le assi del palco all’occorrenza, in occasione degli stacchi finali d batteria. Ultima chicca: a Trieste Cameron e McCready avevano su delle t-shirt dei Soundgarden. Sarà che Cameron, che nel 2012 si divise senza battere ciglio i tour europei delle due band, quest’anno ha paccato Cornell e compagnia per suonare coi Pearl Jam lasciando le bacchette a Matt Chamberlain? Bella pippa mentale potreste rispondermi. Fiera della mia nerditudine da Pearl Jam, vi dico io.

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Adolfo De Cecco – Metromoralità

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Se non fosse per l’anagrafe che lo lega fermamente alla terra abruzzese, sarebbe fin troppo facile scambiare Adolfo De Cecco per un cantautore uscito dai Folk Studios di Roma negli anni settanta.
Metromoralità è un disco che , prodotto artisticamente dal maestro Vince Tempera, noto ai più per essere stato l’autore o il coautore delle sigle di diversi cartoni animati degli anni settanta e ottanta (uno tra tutti Ufo Robot Goldrake) e da Guido Guglielminetti, da anni fido bassista di Francesco De Gregori, trasuda però influenze dal grande Bob Dylan e dai nostrani Claudio Lolli e Luigi Tenco. La title track ha tuttavia il sapore della protesta degli anni sessanta sostenuta da versi polemici quali “L’Italia è il paese della memoria di una generazione che non farà storia” contrapponendosi nettamente a “Tempo Tecnico” in cui si citano Beatles, Rolling Stones, Iphone, Facebook, Kerouac e Hemingway. Del resto essere al passo coi tempi musicalmente oggi significa anche raggiungere le generazioni moderne con testi semplici ed essenziali ma mai banali quali delle due canzoni appena citate. In “Chiara che Pensi?” c’è tutto l’amore di un cantautore che appare già abbastanza maturo con il suo secondo disco ufficiale. I versi di “Metromoralità” che mi hanno colpito maggiormente sono “Touchscreen il mondo è uno schermo che se lo sfiori lo muovi ma se non ci finisci dentro oggi magari non vivi”; ritratto perfetto di una società informatica che ci ha fagocitato nel giro di appena un ventennio? Non so sinceramente se le intenzioni di Adolfo De Cecco fossero quelle da me percepite, ma sarei pronto a giurare che sia così…

“Il Tempo dell’Amore” è invece una ballad che non avrebbe sfigurato se uscita dalla penna di Neil Young o di Jackson Browne (di certo di tutte e dieci le tracce dell’album è quella che si discosta di più dallo stile italico). “L’amore Paziente” e “Canzone Semplice” ci rimembrano il già citato Francesco De Gregori mentre “Come si Coltivano i Fiori” ci fa ritornare nel giro di pochi secondi alla scuola americana. Poco meno di dieci minuti e sole due tracce, “Dietro le Nuvole” e “A Cena da Soli”, ci separano dalla fine di questo disco, che ha saputo con la sua semplicità ed eleganza stupire in ogni singola nota. Merito anche delle prestigiose presenze? (Vince Tempera, Guido Guglielminetti, Elio Rivagli, Alessandro Arianti per citare i più importanti). Io credo che forse questi grandi nomi avranno certamente avuto il loro peso nella qualità di quanto ascoltato, ma di certo Adolfo De Cecco ci ha messo tanto talento, passione ed entusiasmo.

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Beck – Morning Phase

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Immaginate per un attimo questa situazione. Un’afosa mattinata estiva, una come tante. Un risveglio tranquillo e rilassato, senza impegni di sorta, senz’alcuna fretta. Caffé bollente, nero, intenso, dall’aroma avvolgente, rigenerante. Una sigaretta d’ordinanza, magari consumata in balcone, ancora in pigiama. Avete focalizzato? Bene, a questo punto partiamo dall’assunto che il dodicesimo studio album di Beck David Campbell, Morning Phase, si configura senz’alcun dubbio come la perfetta soundtrack della circostanza sopracitata. Quarantasette minuti scanditi da serafica rilassatezza, una grandiosa opera Folk mirabilmente descritta da un ritmo interiore che fluisce lento, particolarmente rarefatto, quasi immobile ed indistinto. Un lavoro essenzialmente asciutto e minimale, privo di arzigogoli e complicazioni, frutto di una scrittura apparentemente semplice e naïf, ma che trova nell’istintiva naturalezza dell’artista californiano la sua anima vibrante, il suo fulcro primigenio e vitale. Insomma, tredici brani nudi e crudi, dal sapore squisitamente “analogico”: batteria, basso, chitarra acustica e voce, accarezzati da languidi e misurati arrangiamenti orchestrali che, inevitabilmente, sottraggono spazio vitale ai rarissimi inserti elettronici (Odelay sembra lontano anni luce ormai).

Le influenze di Morning Phase (considerato, per analogia stilistica, quasi un sequel di Sea Change) affondano le proprie radici nell’immortale percorso artistico di Neil Young (esplicitamente citato come fonte privilegiata in diverse interviste), ed a tratti nella “fase acustica” dei Pink Floyd post-Barrett. Pare che il mood dell’album sia stato dettato da una fantomatico avvicinamento a Scientology, da fastidiosi malanni fisici, delusioni amorose e chissà cos’altro. Ma, in fondo, si tratta solo di rumors. Per quanto concerne la tracklist, meritano particolar menzione brani come “Heart Is a Drum” che, invitando l’ascoltatore ad assaporare pigramente la calura estiva, si configura essenzialmente come un vero e proprio inno al perder tempo, “Say Goodbye”, il cui canto sofferto é magistralmente interpretato dal banjo di Fats Kaplin, la languida “Blue Moon” (indubbiamente uno dei migliori teaser dell’album) e la commovente closing track “Waking Light”, con la quale si torna a porre l’accento sul tema ricorrente del risveglio, come a voler concludere un ciclo, una sorta di struttura ad anello. Sembra che non dovremo attendere molto per degustare il nuovo capitolo della saga Beck. Prestando fiducia alle parole dell’artista, si tratterà di un progetto ben diverso da Morning Phase, “eclettico e vibrante di energia live”. Attendiamo quindi con ansia.

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Rockambula vi racconta il Primavera Sound in diretta. Noi ci saremo!

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Da giovedì 29 a sabato 31 maggio torna l’appuntamento ormai consueto al Parc del Forum con quello che è uno dei festival più importanti d’Europa, il Primavera Sound Festival di Barcellona. Dalla prima edizione del 2001 al PobleEspanyol di una sola giornata e una line-up che contava una decina di artisti si è passati negli anni alla formula della tre giorni, che propone in totale oltre 200 live show, e ad una seconda edizione in Portogallo, nella cornice della città di Porto. Il Primavera Sound si è contraddistinto negli anni per una proposta musicale eclettica che lascia spazio agli amanti di ogni genere, con un occhio di riguardo per le novità degne di attenzione, che in ogni edizione hanno affiancato grandi nomi quali Patti Smith, Wilco, Nick Cave, Neil Young, My Bloody Valentine, PJ Harvey, Pet Shop Boys, solo per citarne alcuni.

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Quest’anno, per quanto riguarda i soli headliner, si esibiranno Arcade Fire, Pixies, Nine Inch Nails, Mogwai, Queens of The Stone Age, The National, Slowdive, Caetano Veloso, Kendrik Lamar. Anche per quanto riguarda gli eventi musicali Barcellona si conferma un contesto mediterraneo atipico, per la capacità di gestire un evento paragonabile a Glastonbury o a festival d’oltreoceano del calibro di Lollapalooza e Coachella, ma soprattutto per la volontà di investire in eventi culturali come questo, imprescindibili per poter comprendere l’evoluzione del panorama musicale mondiale. Quest’anno Rockambula presenzierà all’evento, a partire da mercoledì 28, giornata in cui il palco ATP sarà già attivo e tra gli altri si esibiranno i Temples, una bella rivelazione del 2014. Gli eventi collaterali al festival inizieranno infatti da oggi e dureranno fino a mercoledì 4 giugno, nei club della città catalana e al Forum stesso. Nei giorni del festival cercheremo di districarci tra gli undici spazi in cui si susseguiranno le performances, nel tentativo di raccontarvi il più possibile di ciò che l’edizione 2014 del Primavera Sound offrirà. In attesa di un intenso live report, seguiteci sulla pagina facebook di Rockambula per aggiornamenti in tempo reale e testimonianze fotografiche dei live show!

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Peter Piek – Cut Out the Dying Stuff

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Il poliedrico artista teutonico, polistrumentista, cantautore e pittore oltre che fondatore della comunità artistica del PPZK, nato Peter Piechaczyk a Karl Marx Stadt, oggi Chemnitz, trentatré anni orsono, ricompare con un nuovo prodotto disegnato sapientemente per elevare la sua sfavillante voce oltre la banale beatitudine. Una voce fantasticamente imperfetta, almeno al primo ascolto e solo nella timbrica un po’ aspra ma che non impiega troppo a palesarsi in tutta la sua bellezza data anche da un’ampiezza vocale non comune. La sua veste di artista a tutto tondo prende forma in fase compositiva e anche durante le esibizioni live miscela musica e arte, facendo vedere foto scattate ascoltando brani e fornendo cuffie per udire i brani che hanno suggestionato i suoi quadri. Musica e pittura e arte in generale che si compenetrano, vicendevolmente e senza soluzione di continuità, lasciando emergere l’unica differenza tra le diverse espressioni artistiche rappresentata dal tempo. Questa sua triplice (non disdegna neanche il ruolo di scrittore) veste lo porta spesso a girovagare per la Germania e il mondo intero, dagli Stati Uniti alla Cina e proprio la promozione di Cut Out the Dying Stuff lo ha condotto anche a toccare i lidi della nostra penisola.

L’album è il terzo capitolo della saga personale di Peter Piechaczyk, dopo Say Hello to Peter Piek del 2006 e I Paint It on a Wall di circa quattro anni fa e rispecchia alla perfezione quell’aura d’internazionalità acquisita con le circa cinquecento esibizioni internazionali. La stessa opening altri non è che un’innamorata dedica alla città spagnola (“Girona”) ma non mancano intromissioni in terra inglese, cinese addirittura e ovviamente tedesca. Nonostante l’astrattismo possa essere definito come uno dei punti cardine per orientarsi nell’oceano pittorico di Piek non si può dire lo stesso della marea di note che danzano dentro i dodici brani di Cut Out the Dying Stuff. Al contrario, le liriche presentano strutture Pop melodiose e orecchiabili e raramente fuori dal comune e una forma canzone tutto sommato canonica e anche troppo lineare, con una miscela tra strumentazione sostanziale e arrangiamenti e voce che ricalca le più consone strade del Pop moderno che si affaccia presso i lidi del Contemporary R&B, del Pop Soul, del Cantautorato alternativo e dell’Indie.

Le canzoni di Piek nascono dentro dialoghi spirituali tra la parte più intima del sé e quella che è l’esteriorizzazione artistica della propria anima, sulle orme dei grandi artisti del passato, da Neil Young a Dylan, da Nick Drake a Van Morrison, sempre però con una carica tipica piuttosto di un certo Britpop in stile Oasis o Blur. L’opera di Peter Piek non è, dunque, destinata a cambiare le sorti del mondo, neanche di quel piccolo universo chiamato Musica eppure trasuda amore e libertà, indipendenza che solo certi artisti possono veramente sventolare come un drappo di vittoria al cielo, autonomia da etichette, mercato, autogestione espressiva totale e che non necessariamente deve collimare con concetti legati all’estremizzazione di avanguardie e sperimentazione. Un disco per chi ama, fatto da un innamorato.

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Furious Georgie – You Know It

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E’ difficile catalogare il progetto solista di Giorgio Trombino, musicista palermitano che si propone in veste solista sebbene sia già conosciuto per militare in numerosissimi gruppi underground siculi. Il ragazzo spazia molto e lo racconta già la sua biografia. Tra le sue “corde” c’è il Death Metal degli Haemophagus, lo Stoner dei Sergeant Hamster e degli Elevators to the Grateful Sky, fino ai suonatori di colonne sonore Funky-Jazz: The Smuggler Brothers. Un bel minestrone mi verrebbe da dire, ma più che altro nulla a che vedere con questo suo primo album.
Giorgio parte in quarta con il blusaccio di “Giggrind”, voce graffiante, armonica impazzita,  battiti di mani e chitarra acustica sparata a macinare groove. Muddy Waters con un tocco di bianco, sembra quasi che Palermo abbia il suo Jack White. Con “Screaming Parrot” le sonorità si placano e George Harrison benedice uno dei brani tra i più riusciti del progetto, spostando improvvisamente la rotta da una simpatica cavalcata verso gli inferi ad una onirica traversata di nuvole e arcobaleni. Il Blues torna un po’ più ammorbidito con “Day of the Dead” e “Lost and Found”, arrivano anche echi a giovani e vecchi cantautori americani con le loro infinite praterie ed il vento tra i capelli (due nomi? Ryan Adams e Neil Young su tutti). C’è anche spazio per un brano in italiano dalle vedute Progressive, che da ancora più colore al suono. Il pennello però rischia di uscire dalla tela, imbrattando tutto ciò che sta intorno. Le idee di “NGC 6543” sono comunque ottime con echi alla Ziggy Sturdust riuscitissimi, peccato che la canzone sia veramente fuori dal seminato. Sicuramente un pezzo spiazzante e non consono alle sonorità del disco, messo a metà scaletta e di durata nettamente superiore rispetto al resto. Scelta coraggiosa, ma priva di gran senso logico.
Le distanze sono dilatatissime nella cantilena di “Years Gone by” e nella struggente ninna nanna di “Watch the Drift as it Goes”, Furious Georgie dimostra che la musica del diavolo è nelle sua anima e la scarna produzione aiuta semplici canzoni come queste ad elevarsi nell’atmosfera. Nel finale del disco c’è spazio per altre sfumature: la divertente e spensierata “Kiwi Roll”, la furente (sebbene acustica) “Armed Peace” e per concludere la ballata “Young Lard” che strizza l’occhio alle lunghe cavalcate di Jagger e Richards.
Questo è un disco che non annoia. Eterogeneo, variopinto e estroverso. Geogie non ha di certo paura ad esporre la sua immensa e rara creatività, aiutato da una versatilità che è dimostrata non solo da questo album, ma già anche dalle miriadi di diverse collaborazioni a cui partecipa. Il palermitano esprime bene il Blues, gli ampi spazi di un Cantautorato distante, le note lunghe del Progressive e gli episodi più svarionanti del Rock inglese anni 60. Qui però la sensazione è che le grandi idee (che è inutile nasconderlo, ci sono!) siano offuscate dalla foga di mettere troppa carne al fuoco. Peccato perché con qualche pezzo in meno e con qualche melodia in più questo sarebbe stato davvero un disco grandioso. Sperando in meno impulso e più riflessioni, aspetto con ansia il secondo episodio.

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Hola La Poyana! – A Tiny Collection of Songs About Problems Relating to the Opposite Sex

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Raffaele Badas meglio noto come Hola La Poyana! torna dopo l’esordio di sole cinque tracce dello scorso anno che ottenne un buon successo di pubblico e di critica. Le note per la stampa indicano invece per questo disco: “Hola la Poyana è la ricerca dell’intensità attraverso pochi ed essenziali strumenti: chitarra, voce e stomp box, come nella tradizione Blues americana. Vibrazioni acustich epregne di metallico ardore”. Mai parole furono più giuste essendo noi di fronte a una sorta di one man band che non fa mai rimpiangere la quasi totale assenza di altri strumenti.

A parte l’accoppiata chitarra e voce, infatti, si possono sentire soltanto una cassa, delle piccole percussioni ed un violoncello. A volte un po’ Nick Drake, a volte un po’ Beck e talvolta persino un po’ sua maestà “slow hand” Eric Clapton, qui ci troviamo di fronte a un esempio netto di musica nuda e spoglia che sa sempre emozionare agendo in maniera un po’ timida ma convincente. Tra le influenze principali si trovano però anche tracce del blues di Skip James e di Mississippi Fred McDowell, delle ballate Country di Neil Young, del Folk strumentale di John Fahey e persino alcune divagazioni più spiccatamente Indie Rock, il tutto accompagnato da testi in parte ironici e in parte malinconici.

Musica genuina e spontanea quindi che viene dal cuore, come lo era il Grunge degli Alice in Chains (ma qui non troverete però nulla di loro), per questo lavoro registrato egregiamente da Piergiorgio Boi e prodotto in uno stile lo-fi ma molto gradevole da Simone Sedda. Di grande impatto anche la capacità vocale di mr. Badas, impeccabile nella sua pronuncia inglese tanto da sembrare un ibrido fra un Dave Grohl (Nirvana, Foo Fighters) e un Bon Iver. Da pochi giorni è partito il tour dell’artista che lo porterà in giro per tutta la penisola italiana per tre mesi. Se dovesse passare dalle vostre parti occhio quindi a non lasciarvelo sfuggire! Vi potreste pentire della vostra eventuale assenza!

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His Clancyness – Vicious

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Jonathan Clancy, canadese trapiantato a Bologna, è un girovago. Nel suo peregrinare ha visto tanti luoghi diversi, assorbendone le influenze culturali e musicali. Già in tour con Settlefish e A Classic Education, ha uno stile riconoscibile e allo stesso tempo riconducibile a centomila altri artisti. C’è un cantautorato alla Neil Young, tanto per cominciare, incupito da un costante rimando al Glam Punk e alla New Wave e reso moderno nel senso indie del termine. Quindi chitarrine plin plin e voci spesso e volentieri sullo sfondo del pezzo. Al primo ascolto sembra un’irritante accozzaglia di roba registrata alla perfezione. Al secondo giro del disco, piace. Vicious si apre con “Safe Around the Edge”, uno scanzonato brano Post Punk dal sapore più americano che inglese. “Miss Out These Days” è sinteticissima, a causa delle tastiere in apertura. Ha un tono molto più meditativo e riflessivo della precedente e si trasforma presto in una canzoncina super Indie tenuta in piedi solo da voce e chitarra. “Gold Diggers” è vintage: gradevole nella resa, sembra un rivisitazione della musica leggera anni 50, confluendo quasi per direttissima in “Hunting Men”, più quadrata e dritta delle precedenti, banale, se vogliamo, ma caratterizzata da un bel dialogo intessuto tra la componente ritmica e quella melodica. Il disco cambia di nuovo tono con “Slash the Night”, in cui Clancy strizza l’occhio ai Radiohead. Come un cerchio, si torna alle sonorità Glam dell’inizio in “Run Wild”, a cavallo tra la scanzonatura Punk e le atmosfere decadenti della New Wave. “Machines” è costruita in modo volutamente artefatto, con un’introduzione eterea che dà l’impressione che il brano evolverà in una certa direzione quasi Trip Hop: la sensazione iniziale viene subito disattesa però e la canzone si trasforma in una ballata veloce di stampo cantautorale, ma su un tappeto elettronico. Vicious prosegue piacevolmente, ma senza lasciare particolare traccia dietro di sé. “Avenue” si rivela da subito per essere la canzone depressa del disco: voce e chitarra creano un’atmosfera parecchio buia e malinconia su cui si muove un testo essenziale e ripetitivo, come conducesse a una sorta di trance. “Crystal Clear” è un vero e proprio tributo agli anni ’80, mentre “Zenith Diamond” è puro Punk. “Castle Sand Ambient” è la traccia che più mi ha colpito: qui le sperimentazioni si esasperano e le iniziali sonorità acustiche si espandono a macchia d’olio tra riverbero e noise, elegantemente dosati, come se si applicasse alla lettera la lezione dei Sonic Youth. Il disco poteva finire qui, ma Clancy si gioca un’ultima traccia (a mio avviso sbagliando): è la debolissima “Progress”, caratterizzata da un ritornello ben poco incisivo e pregevole forse per la sonorità Garage inglese che appare per la prima volta in questo lavoro discografico. Nel complesso è un disco che si sente, ma molto probabilmente non si compra. Si scarica, ma si ascolta una volta e si cestina per non occupare spazio nell’hard disk. Ben fatto, indubbiamente, ma incapace di aggiungere nulla di particolare a quanto è già stato detto in musica. Almeno negli ultimi quarant’anni.

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