Bob Dylan – Tempest

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Ogni volta che Dylan esce con un nuovo disco, un altro pezzo di storia si va a congiungere con le nostre memorie, di ieri, vicine e lontane, punti di riferimento che possono soggiogarci oppure lasciarci indifferenti ma che comunque non possiamo ignorare nemmeno se ci mettiamo di punta ad ignorarle; con Tempest non siamo al fianco di un capolavoro, ma di un nuovo cambiamento del Sommo Poeta, un disco dalle tinte fosche, magari non chiare come cromatismo ma che prende distanze dal rock’n’roll e dalle sue forme consuete, ora è il jazz e la memoria, il folk ed il blues nel pensiero per amici scomparsi, vita e morte tra timbri rochi e rabbiosi.

L’eterno menestrello di Duluth nel Minnesota si guarda intorno e nella storia, toglie dal sottovetro appannato la storia del TitanicTempest” con i suoi eroi ed i suoi angeli, e la traduce in tredici minuti dove non esiste un ritornello, tredici minuti filati di racconto amaro e descrittivo o come la bella pray “Roll on” interamente dedicata al suo migliore amico di sempre John Lennon, assassinato negli anni Ottanta; con questo lavoro in studio, precisamente il trentacinquesimo di una carriera infinita, Dylan mette a nudo una parte di sé mai data alla musica, quell’amore spassionato per la profondità di una umanità semplice e vecchia maniera, e la musica di questo album rispecchia questa facciata, ne mette alla luce tutti i pregi e i difetti, curiosità e grazie, sussurri e cuori aperti tanto che l’ascolto viene agganciato da un vero stupore.

Se da un lato viene mostrato il sentimento oscurato per via di certe rimembranze, dall’altro un bagliore di solarità (ricordiamo sempre rara nel Dylan che conosciamo da sempre) viene diffusa e mantenuta, come “Soon after midnight” piena di amori per donne dai lati enigmatici, nel blues dilatato che passa in rassegna usanze e modi degli antichi romani “Early roman kings”, un ritaglio customerizzato per una donna prosperosa di seni che occupa la tramatura del country-blues “Narrow way” o un piccolo rientro nelle visoni vintage con il fischio di un treno a vapore, si proprio quello dei primi pionieri, che appunto fischia e sbuffa nella bella “Duquesne whistle”;  non vi sono i suoni sporchi e farinosi di certe ricercatezze old mood, ma una sostanziale ripulita e stirata come non mai, e con l’ingresso nella tracklist della fisarmonica e violino di David Hidalgo dei Los Lobos, tutto assume, in plus valore, un’altra inquadratura dettagliata.

Ma poi possiamo fare, disfare, dire, contraddire o farci le seghe mentali, un poeta come Bob Dylan potrà sempre pisciarci in testa, come e quando vuole.

Last modified: 12 Settembre 2012

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