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The Rolling Stones – Roma – Circo Massimo 22/06/2014 Sul Palco con gli Stones

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The Rolling Stones – Roma – Circo Massimo 22/06/2014 La Photo Gallery

The Rolling Stones – Roma – Circo Massimo 22/06/2014 Il Reportage

The Rolling Stones – Roma – Circo Massimo 22/06/2014 Le (Video) Scalette

Mick Taylor (per sole tre canzoni) – Nato nel 1949, entra a far parte della band di John Mayall a soli 17 anni. Viene notato da Mick Jagger e compagni e si unisce ai Rolling Stones nel 1969 incidendo gli album Let It Bleed (su cui compare però in soli due brani), “Sticky Fingers”, “Exile on Main St.”, “Goats Head Soup”, “It’s Only Rock ‘n’ Roll” e “Tattoo You”. Rimarrà con loro fino al 1974. Ha pubblicato quattro album solisti, Mick Taylor (1979), Stranger in This Town (1990), A Stone’s Throw (2002) e Little Red Rooster (2007). Ha collaborato con la Guido Toffoletti’s Blues Society (apparendo nel disco del 1982 No Compromise) e con Ligabue col quale ha registrato dal vivo la canzone “Hai un momento Dio?”, compresa nel disco Su e giù da un Palco (1997).

Darryl Jones – Nato nel 1961 è soprannominato “The Munch” è noto ai più per essere stato un discepolo del grande jazzista Miles Davis, col quale incide “Decoy” e “You’re Under Arrest”. Col tempo si è fatto apprezzare per le sue collaborazioni al fianco di artisti quali gli Headhunters di Herbie Hancock, Mike Stern, John Scofield, Steps Ahead, Sting, Peter Gabriel, Madonna, Cher, Eric Clapton e Joan Armatrading. Da quando Bill Wyman lasciò il gruppo nel lontano 1992, il bassista è diventato fido collaboratore de The Rolling Stones.

Chuck Leavell– Nato nel 1952 Chuck Leavell, ha fatto parte della Allmann Brothers Band e dei Sea Leel, gruppo di cui fu anche fondatore. Ha girato il mondo e registrato con artisti quali Eric Clapton, Aretha Franklin, George Harrison, John Hiatt, Gov’t Mule, The Black Crowes, Train, Indigo Girls e John Mayer. Collabora coi The Rolling Stones da oltre trent’anni.

Bobby Keys –Nato nel 1943, si avvicina alla musica da giovanissimo. Durante la sua lunghissima carriera ha avuto modo di suonare per John Lennon, Ringo Starr, B. B. King, Warren Zevon, Humble Pie, Lynyrd Skynyrd, Donovan, Graham Nash e tanti altri. Ha inciso  due dischi solisti, Bobby Keys, un omonimo disco strumentale pubblicato dalla Warner Bros Records nel 1970 e  Gimme the Key per la label personale di Ringo Starr, la Ring O’Records, nel 1975. Ha inoltre scritto un libro dal titolo “Every Night’s a Saturday Night: The Rock ‘n’ Roll Life of Legendary Sax Man Bobby Keys”, la cui introduzione è di un certo Keith Richards. Con I Rolling Stones ha suonato in tuttigli album dal 1969 al 1974 e dal 1980 ad oggi, facendo parte della band di tutti i tour dal 1970 in poi. Memorabili i suoi assoli in brani quali “Brown Sugar”.

Tim Ries– Nato nel 1959, ha lavorato per diverse scuole, la University of Bridgeport (1994), la Mannes School of Music (1994–1996), la The New School (1995–1998), la City College of New York (1995–2000), la New Jersey City University (2003) e la RutgersUniversity (2003–2005). Dal 2007 è professore di studi Jazz alla University of Toronto. La sua produzione conta più di 100 lavori.

Bernard Fowler– Nato nel 1959, è un poliedrico artista americano (è musicista, autore, attore e produttore). Ha collaborato con alcuni dei nomi più grandi della musica mondiale quali il premio Oscar Ryuichi Sakamoto, i Duran Duran, Yoko Ono, Philip Glass, Steve Lukather (chitarrista dei Toto), Alice Cooper e Michael Hutchence, compianto cantante degli Inxs. Ha pubblicato il suo unico album solista Friends with Privileges nel 2006 per la Peregrine Records. Con i Rolling Stones collabora da oltre 25 anni comparendo anche in molti dei dischi solisti dei membri del gruppo.

Lisa Fischer – Nata nel 1958, inizia la sua carriera celandosi sotto il monicker Xēna, sotto il quale pubblica un singolo “On the Upside” e partecipa alla colonna sonora del film “Beat Street” con la canzone “Only Love (Shadows)”. Trova però la fama mondiale come vocalist per artisti quali Billy Ocean, Chaka Khan, Teddy Pendergrass, Roberta Flack, Tina Turner e Nine Inch Nails. Nel 1991 ha pubblicato il suo unico album solista “So Intense” con la Elektra Records sotto gli occhi e le orecchie attente di diversi produttori tra cui spicca il nome di Luther Vandross  e il disco riuscirà ad entrare persino nelle Billboard Charts. Con i Rolling Stones collabora sin dal 1989.

Matt Clifford –Forse lo avrete visto nel documentario “Being Mick” o nel “Goddess in the Doorway” di Mick Jagger, ma in realtà Matt Clifford è un collaboratore di lunga data dei Rolling Stones coi quali ha anche inciso gli album Steel Wheels (1989), Bridges to Babylon (1997) e A Bigger Bang (2005). Nel 1989 insieme a Chuck Leavell ebbe pure l’onore di comparire sulla copertina della prestigiosa rivista “Keaboard”. Ha lavorato anche con Anderson, Bruford, Wakeman and Howe coi quali incise il loro (tuttora) unico lavoro in studio che portava il nome degli stessi quattro musicisti.

La società organizzatrice dell’evento

Nel 1987 Mimmo D’Alessandro e Adolfo Galli iniziano la loro collaborazione in occasione del tour italiano di Joe Cocker facendolo esibire insieme a Zucchero, in tre concerti “sold out”. Inizia, così, una proficua collaborazione che li porterà a formare una società,oggi leader nel settore del music business. Adesso la D’Alessandro e Galli organizza tournée’e di successo in tutta Italia ed Europa, toccando le maggiori città fino ai centri più piccoli. Come promotori italiani hanno sempre cercato di cambiare l’opinione che gli agenti ed i manager stranieri avevano in Italia, conquistando la loro fiducia. Fattore di distinzione della D’Alessandro e Galli, rispetto alle altre Agenzie Italiane, è la posizione geografica dei suoi uffici: Viareggio e Brescia.Queste due città sono lontane dai centri principali come Roma e Milano e , come risultato, i due soci hanno un modus operandi completamente diverso rispetto ad altri promoters, focalizzando il loro interesse sugli artisti e sugli spettatori. “Questi sono i nostri clienti e sono per noi importanti. Dobbiamo, quindi, prendercene cura. Loro si fidano di noi, rispettiamo gli accordi. Abbiamo fatto concerti che sapevamo fin dall’inizio essere una rimessa ma li abbiamo fatti perche’ pensavamo che, a lungo termine, ci avrebbero compensato. Naturalmente a tutti fa piacere fare i grossi nomi ma noi vogliamo promuovere e sviluppare anche gli artisti agli inizi o che devono rilanciare la loro carriera: e questo e’ eccitante ed appagante“.

Agli inizi degli anni ottanta, Mimmo D’Alessandro, si occupa della direzione artistica del locale più importante della Versilia -LA BUSSOLA- rafforzando poi la sua reputazione quale promoter locale grazie a concerti come quelli di David Bowie, Eric Clapton, Spandau Ballet, Diana Ross e Iron Maiden organizzati a Firenze. Nello stesso periodo a Brescia, Adolfo Galli,si occupa della direzione artistica del Teatro Comunale ingaggiando piccoli gruppi jazz. Nel giro di pochi anni aumenta la fama e l’importanza del Teatro e di Adolfo Galli all’interno del circuito concertistico nazionale e comincia la promozione di artisti più importanti.

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THE PRETTY THING (50 DI TOUR) A TORINO

Written by Live Report

RUGHE SPORCHE
THE PRETTY THING (50 DI TOUR) A TORINO

Una domenica come molte altre, forse addirittura più anonima di tante altre. Con un cielo diviso a metà tra il blu della spensieratezza pre-estiva e orrende nuvole nere incombenti. Per sconfiggere l’apatia di questa modesta giornata cerco come molte altre volte rifugio nel Rock’N’Roll, antica medicina che per fortuna su di me continua a fare un certo effetto benefico. A questo giro di antico non c’è solo l’antidoto. Scorgo infatti con piacere che a Spazio 211 – Torino celebrano i loro 50 anni The Pretty Things, storico gruppo inglese capitanato da Dick Taylor, membro fondatore dei The Rolling Stones. Si parla del 1963, l’anagrafe non può mentire. C’è da dire che ultimamente sono parecchio avverso ai gruppi di ultra sessantenni. Penso che la pensione serva anche nel Rock, a volte la passione non basta ad attenuare gli acciacchi del tempo. E molte band di dinosauri si sono palesate ai miei occhi come lente macchine arrugginite, ancora appese agli esagerati fasti del passato. Esagerati per essere comodamente gestiti col tempo.
Alle ore 22 arrivo al locale e, nonostante delle vere e proprie leggende (negli anni ‘70 Mister David Bowie suonava le loro cover!) siano in città, il locale è semi deserto. Un po’ me lo aspettavo, un po’ forse Torino, che tanti pregi ha musicalmente parlando ma non ha mai avuto lo strato ruvido del Blues marcio sull’asfalto dei suoi viali. Ci si potrebbe aspettare per questo uno show un po’ anemico, apatico come questa domenica. Immagino che arrivare con 50 anni di band alle spalle e trovarsi un locale con sessanta persone dentro, per giunta a 2000 km di distanza da casa tua, potrebbe portarti all’apatia, alla freddezza, all’odio verso la passione che ti ha spaccato la schiena in decenni di furgone. E questo credo capiterebbe qualsiasi sia il tuo passato, figuriamoci cosa capita a chi ha militato in gruppo con Mick Jagger e Keith Richards.
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Alle 22.30 però The Pretty Things attaccano e tutte le cazzate che mi ronzavano per la testa vengono spazzate via dal muro del suono. Chitarre marce suonate da Dick, occhialuto e ricurvo su se stesso, e da Frank Holland, un altro attempato volpone, ricciolone e dallo stile Proto Punk. Basso e batteria da manuale del rock anni ’60, sebbene siano gestite da due pischelli. E poi la voce di Phil May, direttamente presa in prestito dagli inferi. Il diavolo invecchia ma mantiene charm inglese. Stile incredibile, viscerale. La macchina del tempo funziona alla grande, si sente lo sporco, le budella che si agitano, si sentono i tempi in cui la musica era una ragione di vita.
La magia scatta con il viaggio di “S.F. Sorrow is Born” (il disco S.F. Sorrow pare sia la prima opera rock che ispirò The Who a scrivere “Tommy”), psichedelia e aridi deserti, con quella sezione ritmica giovane che rende tutto così attuale e tangibile. L’incantesimo non si interrompe neanche quando sul palco rimangono solo Phil e Dick, come due vecchi amici (lo sono e si vede) jammano su vari standard Blues in duo acustico. Dick Taylor pare muovere goffamente le dita ingiallite e scheletriche ma in realtà con il suo slide riempie la sala di pathos e ci riporta davanti Robert Johson e tutte le sue diavolerie. Questa band è incredibilmente viva nonostante suoni musica vetusta. Ha la passione, la forza e la voglia ancora di stupire. Niente da dire, mi sono convinto. Questo gruppo è molto più gruppo di quanto siano The Rolling Stones degli ultimi 30 anni. Ma la chiudo qua perché il paragone è banale e forse pure fuori luogo.
Il finale dello show, che personalmente è anche una lezione di musica (ma oserei dire pure di vita), è affidato ad un omaggio a Bo Diddley, oltre che a loro classici come “Midnight to Six Man” e la conclusiva “L.S.D.” con tanto di citazione a “Lucy in The Sky With Diamonds”. Concerto corto, un’ora e mezza di pura energia e di sogni. Un’amalgama perfetta e un sorriso stampato sui loro stanchi volti che non si arrendono.
Nel finale esco a fumare una sigaretta con alcuni amici, passa proprio Phil May con una crostata alle ciliege in mano mentre i più giovani caricano lo scassato furgone che pare essere pure lui sudato marcio sebbene sia parcheggiato in una Torino non troppo caliente. Noi ci guardiamo e vediamo li a un metro da noi questo anziano, dall’aspetto rude, con capelli semilunghi ma mezzo calvo, che nonostante il sudore e i segni del tempo tenuti alla luce del sole, conserva la sua estrema eleganza. Guarda fuori, con una crostata in mano. Mi avvicino e gli dico solo: “great”. E’ l’unica parola che mi sento di dire. Lui mi guarda e mi da una pacca sulla spalla, gli scappa un “thanks a lot” e dopo un sorriso vero, umano. Mannaggia mi aspettavo dal Rock’N’Roll solo un po’ di brio per sotterrare questa triste domenica, invece questo infame si è dimostrato di nuovo più grande di quello che potessi immaginare.

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G-Fast – Go to M.A.R.S.

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Dietro il moniker di G-Fast si nasconde il One Man Band milanese Gianluca Fastini, un amante delle sonorità vintage, di quel maledetto Rock di una volta che puzzava di whiskey e suonava di Blues. Il suo nuovo disco preceduto da svariati live esce per La Fabbrica e si chiama Go to M.A.R.S., niente di elegante, niente di particolarmente eccitante. Perché questo Go to M.A.R.S. vorrebbe suonare esattamente come un disco di una volta, prendiamo tutta l’attuale scena Indie italiana e buttiamola senza timore nel cesso tirando lo sciacquone infinite volte. Tanto non ci sarebbe poi così tanto da salvare secondo alcune arroganti presunzioni. “Go to M.A.R.S.” prima traccia (e pezzo che titola l’album) parte subito massiccia e senza paura, piedone a spingere sulla cassa, chitarre Folk Rock e tanta voglia di arrivare su Marte. Ma questo dal titolo si era capito benissimo, dopo Bowie arriva G-Fast. Tanta spocchiosità nell’animo indipendente di “I Like It”, qualcosa diventa subito muro tra concetto e risonanza. Non arrivo a cogliere il senso e disordinato come un bambino eccitato dai regali di Natale vado avanti nell’aprire canzoni come fossero pacchi.

Nel brano successivo “Mystical Man” G-Fast usa chitarroni pesanti ma quella insistente sensazione di “vecchio polveroso” proprio non vuole lasciarmi stare. Capisco benissimo l’intenzionale ricerca di suoni del passato ma in questo caso il prodotto finale è stancante, è come mettere volontariamente la testa dentro una ghigliottina francese. Tralascio volentieri “On My Own”, non riesco a contemplare certe cose in nessun momento della mia giornata. Tengo a precisare che questo disco sono riuscito a metabolizzarlo (diciamo pure così) almeno dopo dieci ascolti durante i quali mi promettevo di trovare il lato positivo che puntualmente non arrivava mai. E nessuno mai potrebbe capire quanto aspettavo che ciò accadesse. “Morning Star” prosegue senza provocare troppo scompenso, alta orecchiabilità e sound arrugginito come non ci fosse un domani. In questo caso apprezzo molto la tecnica Old School. Andando avanti troviamo “Like an Angel” e “Toy Soldier”ma entrambe vivono di luce riflessa, un qualcosa già speculato negli anni novanta quando tutto era più facile e non ci giravano i coglioni a causa della crisi economica, quando potevi sentirti il padrone del mondo non sapendo che la fine era alle porte.

Ci vuole un fegato marcio per suonare Rock Blues senza contaminazioni. “Crazy” è finalmente un pezzo diverso dal resto, poco omologabile con quello ascoltato in precedenza, un mix di atmosfere tarantiniane e sole bollente sulla nuca. Ma possibile? Ho già ascoltato da qualche altra parte? Sento delle familiarità impressionanti. I diritti umani mangiati voracemente da un corvo nero in “The Crow Is Back”, ancora non riesco ad afferrare niente di buono, sconsolato cerco riparo nell’ultima traccia “What I Think of You”. E’ una ballata ma a me non piace affatto. G-Fast non rientra nella schiera di musicisti che salveranno la musica, almeno da quello espresso in Go to M.A.R.S. non riesco a vedere neanche uno spiraglio di positività. Inutile nascondersi dietro musicalità testate migliaia di volte e tecnica audace, la musica è soprattutto sentimento e questo disco purtroppo non trasmette niente. Consideriamola una brutta esperienza.

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Analisi di un disatro annunciato! La classifica dei dischi più venduti nel 2013.

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Censored

Quello che trovate subito sotto è il risultato di una piccola analisi che ho voluto fare dopo aver letto le classifiche di vendita degli album in Italia nel 2013. Andiamo per ordine e cerchiamo di capire di che cosa si tratta. Qualche giorno fa sono stati resi pubblici i dati concernenti la vendita dei dischi nell’anno solare appena passato sul territorio italiano e in testa troviamo Ligabue con Mondovisione seguito da Modà e Jovanotti. A fine articolo trovate la lista delle prime cinquanta posizioni. Senza troppi giri di parole, la domanda è una sola: dove sta la nostra bella musica indipendente? Dove si sono ficcati quei nomi “giganteschi”, almeno per noi e probabilmente per chi ci legge, come Arcade Fire, Placebo, Low e via dicendo? Scorrendo la classifica, il primo nominativo sul quale vale la pena soffermarci è quello dei Daft Punk al diciassettesimo posto, tallonati dai Depeche Mode; poi abbiamo i Pearl Jam al trentesimo e più staccati David Bowie e i Muse. Andando oltre la posizione numero cinquanta, scopriamo il primo e unico nome tutto italiano del panorama Indie (passatemi il termine che mi permette di sintetizzare) e cioè quello dei Baustelle. La cosa che pare chiara, dunque, è che c’è una spaccatura netta tra il pubblico musicalmente “colto” o meglio quello che si pone con più attenzione alle uscite underground (in linea di massima le stesse proposte da webzine come Rockambula ma anche dai giganti Ondarock, SentireAscoltare o Rockit o le riviste cartacee come Rumore, Il Mucchio e via dicendo) e chi effettivamente i dischi li compra.

O quantomeno, il pubblico che ascolta e apprezza le band che questi magazine o webzine come la nostra promuovono, non è evidentemente abbastanza numeroso da far sì che i loro artisti preferiti possano entrare nelle classifiche riguardanti gli album più venduti, al fianco dei sopracitati re (con la minuscola) del pop/rock (con la minuscola) tricolore. In quest’ottica poco stupisce che gli Arcade Fire vendano circa seimila copie e i Marlene Kuntz appena settemila e comunque mille in più dei canadesi, che invece, nei nostri discorsi da musicofili, collezionisti di vinili, talent scout dell’Indie Rock, insomma, nelle chiacchierate tra noi Indie Snob che al concerto degli U2 se ne vanno dopo aver ascoltato il gruppo spalla, sembrano il non plus ultra del panorama mondiale. Partendo da questo presupposto e visto che il mio ruolo mi permette di affermare la scarsissima qualità delle classifiche di vendita nostrane, una domanda sorge spontanea ed è una questione che in molti hanno sollevato in questi giorni. Quando esattamente ci siamo ridotti cosi e cosa ci ha portato a questo? L’avvento dei reality show, l’affermarsi della Tv come principale strumento d’informazione, l’arrivo degli mp3, il download illegale, il generale impoverimento culturale? In quale anno, in quale preciso istante l’Italia è caduta nel baratro? Per cercare di dare una risposta a queste domande ho deciso di realizzare questo piccolo studio da cui scaturisce il grafico che trovate di seguito.

Grafico

Semplicemente ho considerato tutte le classifiche di vendita degli album, anno per anno, dal 2009 al 1964 (dati www.hitparadeitalia.it) e ho analizzato i dischi che si trovano nelle prime posizioni. Poi ho esaminato il gradimento di quei dischi, attraverso un portale che avesse un pubblico quanto più variegato possibile (www.rateyourmusic.com), usandolo come strumento quanto più oggettivo possibile per valutare la qualità (o meglio la percezione qualitativa di un dato pubblico) degli album analizzati. Ovviamente, parlando di giudizi su album, ci sarà una miriade di variabili da considerare (dal tipo di pubblico del sito, alla preparazione dei votanti e cosi via) tanto che una qualsiasi valutazione oggettiva è pressoché impossibile, ma ho cercato di usare gli strumenti più adatti allo scopo, tentando di non influenzare il risultato. Quello che ho cercato di capire è quanto la qualità media dei dischi più venduti è variata nel tempo e se c’è un momento storico in cui la spaccatura si è fatta più evidente.

Nel grafico dunque trovate tutti gli anni sull’asse orizzontale mentre in verticale è presente la valutazione qualitativa che, attraverso il mio sistema, va da un minimo di zero a un massimo di quindici. Tanto per capirci, i tre album con il voto più alto presenti nel sito arrivano a 12,84. Quello che emerge chiaramente è che (sempre considerando la presenza d’infinite variabili che rendono l’analisi interessante più come curiosità) pare esserci effettivamente un peggioramento nel pregio dei dischi che si trovano nella parte alta della classifica, ma, nello stesso tempo, non c’è apparentemente un momento preciso cui sembra corrispondere questo calo. La cosa lascerebbe supporre che nessun motivo unico scatenante debba riscontrarsi in questa spregevole inclinazione ma che anzi, inevitabilmente, una serie di concause, ci stia portando ad allargare il divario tra album di qualità e album più venduti. Allo stesso modo, sembra anche esserci una sorta d’inversione di tendenza dagli anni 2000/2001 ma si tratta di un periodo troppo breve perché si parli di vera ripresa in tal senso, anche perché, spostando tali considerazioni oltre il 2006 e analizzando proprio i dati 2013, potremo notare come l’anno appena passato, si piazzerebbe nel grafico sugli stessi bassissimi livelli d’inizio millennio.

Che cosa dire dunque. Noi continuiamo per la nostra strada, proseguiamo a promuovere e ascoltare quella musica che riteniamo essere veramente di qualità con la consapevolezza che sarà solo una minoranza a seguirci, quella stessa minoranza che però ci piace incontrare ai concerti dei Massimo Volume o, tra qualche mese, dei Neutral Milk Hotel. Probabilmente non ha senso cercare un solo e unico colpevole e probabilmente, quest’analisi andrebbe raffrontata con altre che rivelino la situazione culturale generale del paese e la sua involuzione. Allo stesso modo non possiamo che ridere di chi ancora è riuscito a stupirsi di questi dati, che trovate di seguito. Cosa vi aspettavate di vedere? I These New Puritans in vetta?

 

 Pos. Att. TITOLO ARTISTA
1 MONDOVISIONE LIGABUE
2 GIOIA … NON E’ MAI ABBASTANZA! MODÀ
3 BACKUP 1987-2012 IL BEST JOVANOTTI
4 STECCA MORENO
5 SCHIENA VS SCHIENA EMMA
6 SIG. BRAINWASH – L’ARTE DI ACCONTENTARE FEDEZ
7 #PRONTOACORREREILVIAGGIO MARCO MENGONI
8 MIDNIGHT MEMORIES ONE DIRECTION
9 20 THE GREATEST HITS LAURA PAUSINI
10 MAX 20 MAX PEZZALI
11 AMO RENATO ZERO
12 NOI DUE EROS RAMAZZOTTI
13 SONG BOOK VOL.1 MIKA
14 MARIO CHRISTMAS MARIO BIONDI
15 L’ANIMA VOLA ELISA
16 AMORE PURO ALESSANDRA AMOROSO
17 RANDOM ACCESS MEMORIES DAFT PUNK
18 DELTA MACHINE DEPECHE MODE
19 LA SESION CUBANA ZUCCHERO
20 INNO GIANNA NANNINI
21 UNA STORIA SEMPLICE NEGRAMARO
22 SENZA PAURA GIORGIA
23 BRAVO RAGAZZO GUE PEQUENO
24 GUERRA E PACE FABRI FIBRA
25 SUN MARIO BIONDI
26 CONVOI CLAUDIO BAGLIONI
27 TAKE ME HOME ONE DIRECTION
28 MERCURIO EMIS KILLA
29 AMO – CAPITOLO II RENATO ZERO
30 LIGHTNING BOLT PEARL JAM
31 PASSIONE ANDREA BOCELLI
32 CHRISTMAS SONG BOOK MINA
33 L’AMORE È UNA COSA SEMPLICE TIZIANO FERRO
34 A TE FIORELLA MANNOIA
35 THE TRUTH ABOUT LOVE PINK
36 MIDNITE SALMO
37 TO BE LOVED MICHAEL BUBLE’
38 THE NEXT DAY DAVID BOWIE
39 BELIEVE JUSTIN BIEBER
40 UN POSTO NEL MONDO CHIARA
41 LORENZO NEGLI STADI – BACKUP TOUR 2013 JOVANOTTI
42 LIVE KOM 011: THE COMPLETE EDITION VASCO ROSSI
43 SOTTO CASA MAX GAZZÉ
44 ORA GIGI D’ALESSIO
45 SWINGS BOTH WAYS ROBBIE WILLIAMS
46 THE 2ND LAW MUSE
47 LA TEORIA DEI COLORI CESARE CREMONINI
48 IN A TIME LAPSE EINAUDI
49 UNORTHODOX JUKEBOX BRUNO MARS
50 ARTPOP LADY GAGA

NON HO TROVATO UNA CANZONE PIU’ ADATTA!!!

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Top Ten 2013. La classifica generale della redazione di Rockambula

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TRIPWIRES

Come I nostri lettori più affezionati avranno capito, il 2013 è stato per Rockambula l’anno della svolta. Abbiamo ampliato il numero e la tipologia di recensioni, cercando di tenere sempre altissimo il livello qualitativo. Soprattutto, però, Rockambula si è aperta sempre più alle proposte internazionali, dedicando buona parte della vetrina al meglio che il Rock mondiale ci propone col passare dei mesi. Logica conseguenza di questa apertura dei confini è la prima classifica di redazione, la Top Ten Internazionale, che anticipa le classifiche del nostro caporedattore e le consuete Top 3 italiane dei singoli redattori.

La Top 10 proposta dalla nostra redazione sarà per voi una sorpresa, perché in fondo lo è stato anche per noi. Nessuno si sarebbe aspettato probabilmente di vedere in testa l’esordio dei Tripwires, band britannica a metà tra Shoegaze e Britpop e in pochi avrebbero scommesso sul podio del musicista, regista e compositore francese Yoann Lemoine, in arte Woodkid, anche lui all’esordio con The Golden Age. Cosi come è assolutamente inaspettato il terzo posto del duo tutto femminile, Lilies on Mars, italiane ma londinesi di adozione. Una classifica variegata e bellissima, che propone dunque ottimi esordi (da non tralasciare quello dei Daughter) ma anche conferme eccelse come quelle dei Vampire Weekend e degli Arcade Fire, senza dimenticare vecchie glorie che dimostrano di avere ancora tanto da dire e di sapere ancora come dirlo. Dai Pearl Jam, al sensazionale ritorno dei My Bloody Valentine, dal clamore meritato per i Daft Punk fino all’immortale Paul McCartney. Fuori di pochissimo These New Puritans e David Bowie.

1.    Tripwires – Spacehopper (Uk / Shoegaze, Britpop)

2.    Woodkid – The Golden Age (Francia / Chamber Pop, Art Pop)

3.    Lilies on Mars – Dot to Dot (Uk, Italia /Alt Rock)

4.    Pearl Jam –  Lightning Bolt (Usa / Alt Rock, Grunge)

5.    Vampire Weekend – Modern Vampires of the City (Usa / Indietronica)

6.    Daughter – If You Leave (Uk / Art Pop, Dream Pop)

7.    My Bloody Valentine – M B V (Irlanda / Shoegaze)

8.    Arcade Fire – Reflektor (Canada / Art Pop, Pop Wave)

9.    Daft Punk – Random Access Memories (Francia / French House)

10.  Paul McCartney – New (Uk / Pop Rock)

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Soviet Soviet – Fate

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Ascolto: in una latitudine del mondo comunque sbagliata

Umore: come di chi si presenta in montagna con la muta da sub

Ci sono lavori come questo che un recensore fatica a recensire. Perché è immensamente più facile spiegare le motivazioni per cui una cosa non ti piace o ti sta sul cazzo che scovare nel dizionario le parole all’altezza di spiegare una cosa che ti piace. Se non ti piace un disco, non dosi le parole, non le scegli accuratamente; ti vengono spontanee, sarà anche per un umanissimo desiderio di lasciar fluire i giudizi negativi che non puoi dare vis à vis nella tua giornata al cliente o al vigile urbano che ti ha appioppato la solita 40 euro di multa per divieto di sosta per trenta centimetri sulle strisce pedonali. Ecco perché sul secondo lavoro dei Soviet Soviet non voglio soffermarmi molto di più di quello che può essere spiegato in poche parole dall’espressione “ Gran bel disco” oppure “Destinati al riscontro pieno e deciso anche fuori dai confini italiani”. Il voto è un bel sette e mezzo come nell’italianissimo gioco delle carte.

Fate è ipnotico, avvolgente, straniante, di quei dischi in cui perfino le imprecisioni ti sembrano messe ad arte. I Soviet Soviet dimostrano appieno di aver digerito la lezione New Wave e Punk, dimostrano di aver pasteggiato con il Post Rock e aver accompagnato il tutto con bicchierate di Dark con abbondante ghiaccio. Il basso suonato sempre con il plettro e costantemente effettato caratterizza non solo le ritmiche ma anche il colore complessivo del disco, finalmente. È piuttosto raro infatti che a livelli underground ci sia un apporto così deciso e caratterizzante del basso. Le linee melodiche sono riproducibili ma mai paracele con un timbro di voce a volte nasale  e a volte slabbrata; si appoggia (o a me dà quell’impressione) nell’interpretazione a qualcosa che ricorda i Placebo ma senza che risulti un’imitazione. Probabilmente ed in maniera in fondo fisiologica e salutare si tratta solo di aver respirato nella stessa aria musicale e di aver mangiato allo stesso piatto. Chitarre dal riverbero talmente figo che non ha solo il potere di valorizzare i temi o le ritmiche, ha anche il potere di teletrasportarti in un altro posto fisico del mondo e in un’altra era, come in “Gone Fast” , pezzo già pronto per uno spot di macchine e di paesaggi ripresi dall’alto. Stop, la mia recensione finisce qui, non c’è bisogno di altre inutili parole per descrivere un bel disco se non “ è un bel disco”. Ad una donna che le devi dire di più di “Ti amo” per spiegarle l’amore?

Anzi no, ci ho ripensato: scendo a capo e riapro il file word per affrontare una considerazione pensata in extremis forse più interessante che mi ha suggerito l’ascolto di questo disco: lo straniamento geografico. Ci sono dei dischi o delle band che ti fanno immaginare anche un intorno fisico e  temporale oppure, al contrario, intorni fisici e temporali che se non li incroci non capisci perché quella musica può venire solo da quella latitudine e da quei paesaggi. I Soviet Soviet hanno questo dono: li ascolti e pensi alla pioggia di Berlino raccolta in pozzanghere che sbuffano tremolanti l’immagine riflessa  del cielo di piombo; ti immagini a camminare, mani in tasca, con una bella tipetta bionda tinta con il chiodo, piercing vistosi sul naso e faccia pallida per Mühlenstrasse, la strada che corre di fianco il muro. Ti immagini di andare a trovare David Bowie nel suo studio mentre sta registrando un nuovo disco Glam Rock. Ti immagini di calciare lattine vuote di birra abbandonate dagli sbandati che si trascinano in zona. Ti immagini il freddo che ti sega le orecchie  e i tuoi guanti di lana tagliati sulle dita e le bottigliette di vodka dentro le tasche del cappotto scuro comprato in un mercatino a Kreuzberg. Ti immagini diverso e trasandato; e più figo, magari anche più alto e con più capelli. Poi mentre continui ad immaginarti, distrattamente leggi la biografia dei Soviet Soviet e vedi che arrivano da Pesaro. Ti ricordi che l’unica volta che hai visto Pesaro era in un’estate torrida mentre sgambettavi sul sedile di un risciò  sul lungo mare con una palma ogni venti metri; le signorone dell’est con i costumi variopinti e i loro visi resi paonazzi dal primo sole. Non arrivavi nemmeno ai pedali. Eri un bimbetto di undici anni occhialuto, un po’ paffuto e con i calzoni corti. Per niente scafato.

Ho sempre pensato che le biografie non servano ad un cazzo.

Cazzo.

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Bowie, il nuovo video e remix per Halloween

Written by Senza categoria

In attesa della notte di Halloween David Bowie lancia il nuovo video. “Love is Lost”, estratto dal suo ultimo lavoro The Next Day.

Bowie, re del travestimento, mette la maschera e partecipa, da un bagno, a questo remix di James Murphy.

 

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Rivoluzioni musicali in mostra alle OGR di Torino

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Quando si parla di musica, ognuno ha senza dubbio i propri riferimenti, i propri miti, le stelle polari che lo guideranno lungo il corso della propria esistenza ,in lungo e in largo, a destra e manca, forever and ever, “finché morte non vi separi”. Alcuni di questi miti, però, non fanno solo parte del nostro universo musicale, ma sono delle vere e proprie pietre miliari della storia della musica, simbolo di un’ epoca, esempio per le generazioni future ed esponenti di rivoluzioni che hanno deviato il corso della storia stesso.  Ed è proprio a questi Dei dell’Olimpo musicale che fa riferimento Alberto Campo, curatore della mostra fotografica Transformers – Ritratti di Musicisti Rivoluzionari, allestita presso i Cantieri OGR di Torino e visitabile dal 28 settembre al 3 novembre 2013. Il filo conduttore che la caratterizza è quello della “Trasformazione”, tema tanto caro alle ex Officine Grandi Riparazioni Ferroviarie (una delle ultime testimonianze della storia industriale della città), oggetto di un recente restauro che le ha restituite alla popolazione torinese sottoforma di “Cantieri Culturali”, sede di eventi musicali, teatrali, mostre, fiere ecc.

Ed eccoli allora sfilare uno per uno i Grandi della musica, in una serie di scatti che li ritrae durante la loro vita di artisti (con una predilezione per quelli realizzati durante gli eventi live) e di comuni mortali; un richiamo all’idea della “Trasformazione” come trapasso dalla dimensione pubblica a quella privata. Le fotografie sono attinte dal vasto bacino messo a disposizione da Getty Images, ed abbracciano sessant’anni di musica (dall’avvento del Pop negli anni ’50 all’era del web e delle tecnologie digitali odierne); il sottofondo musicale è una lunga colonna sonora composta da canzoni-simbolo degli artisti considerati. Campo fa cominciare tutto con Elvis (e come dargli torto!), opportunamente inserito nella sezione “Origini della Specie” e fotografato durante una delle sue celebri mosse di bacino. La seconda tappa porta il titolo de “l’Invasione Britannica” ed i protagonisti non potevano che essere Beatles e Rolling Stones, considerati perennemente in antitesi. Gli anni ‘60 si tingono anche di Folk e dei ritratti di un giovanissimo Bob Dylan, che con la sua “Blowin’ in the Wind”, cantata come inno di chiusura dei comizi di Martin Luther King, diviene il rappresentante della “Canzoni di protesta”, mentre Miles Davis e James Brown lo sono del Jazz e del Soul-Funky nella sezione “Black Power”. Si conclude un decennio e ne comincia uno nuovo, segnato dall’ “Utopia Hippie” che vede i suoi massimi esponenti nei Doors e in Jimi Hendrix (immortalato mentre dà fuoco alla chitarra elettrica durante il festival di Monterey), mentre il Transformer per eccellenza, David Bowie (nelle vesti di Ziggy Stardust) trova posto nella sezione “Rock a Teatro” insieme alla primissima formazione dei  Velvet Underground (fotografati con l’immancabile Andy Warhol ), quella di cui faceva parte anche la splendida Femme Fatale Nico, immortalata in un primo piano stupendo, mentre indossa una maglietta riportante la scritta Fragile. Nella sezione “gli Outsider” si piazzano Tom Waits e Frank Zappa, mentre l’unico artista italiano preso in considerazione, Ennio Morricone, non poteva che collocarsi nella sezione “la Musica Come in un Film”. Passano gli anni, cambia il modo di far musica, che diventa “definitivamente prodotto dal vivo su larga scala”: Led Zeppelin e Pink Floyd sono esempio dell’ avvento dei grandi concerti che riempiono gli stadi. Dall’altro capo del mondo, sempre in quegli anni, “One Love”, Bob Marley si faceva portavoce di un nuovo genere musicale: il  Reggae. Altra rivoluzione musicale degna di nota in quegli anni è il Punk, rappresentato nella sua forma più grezza dai Sex Pistols (lo scatto che ritrae Johnny Rotten nel tentativo di armeggiare un paio di forbici enorme parla da sé) e nella sua forma più colta da Patti Smith, la sacerdotessa del Rock che sembra non aver alterato con gli anni l’espressione che ha in volto mentre canta. Gli anni ‘80 sono quelli dell’ Hip Hop dei Beastie Boys, del re e della regina del Pop: Michael Jackson e Madonna. Gli anni ’90 segnano una frattura col decennio precedente grazie all’avvento del Grunge e dei Nirvana: il primo piano di Kurt Kobain troneggia in sala (forse è una delle immagini più belle della mostra), mentre ha in mano la chitarra che riporta la scritta “Vandalism: beautiful as a rock in a cop’s face”. La mostra arriva fino ai giorni nostri, e si conclude con l’ “Evoluzione della Rockstar” verso una musica sperimentale e ricercata, i cui esponenti sono rappresentati da Björk e Radiohead (riconoscere una foto scattata durante il loro ultimo tour del 2012 ti fa sentire fiero di esserci stato) per chiudersi definitivamente con l’avvento della musica elettronica dei Kraftwerk e dei Daft Punk nella sezione “Technologia”.

I grandi assenti? Tanti, ognuno sicuramente troverà qualche suo “mito” mancante all’appello. In ogni caso, non è un buon motivo per privarsi di questa mostra, che non è una semplice esposizione fotografica, ma un viaggio visivo e sonoro indietro nel tempo, verso tappe della storia e rivoluzioni musicali compiute dai musicisti che tanto amiamo. Allacciate le cinture, si parte.

Fonti: http://www.ogr-crt.it/events/transformers-ritratti-musicisti-rivoluzionari/

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InSonar/Nichelodeon – L’Enfant et le Ménure / Bath Salts

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L’ultima cosa che avrei voluto fare è pronunciami su un prodigio di tale portata. Avrei preferito solo godermelo ma inevitabilmente è questo il modo migliore per farvi sapere che, in Italia, (già proprio nell’Italia de I Cani, Lo Stato Sociale, Vasco e Liga), qualcuno è capace di tirare fuori opere d’arte di pregevole fattura e totalmente slegate dalle logiche di mercato anche minime. Dietro tutto ciò c’è Claudio Milano nelle vesti della neonata creatura chiamata InSonar e di una vecchia conoscenza dell’Avant Prog, i Nicheloden.

Andiamo per ordine cercando di racchiudere in meno parole possibile tale progetto che in realtà avrebbe necessità di un tomo di oltre mille pagine per essere raccontato in modo esaustivo.  Lo split è composto di quattro cd per due parti. La prima è intitolata L’Enfant et le Ménure (il bambino e l’uccello lira) ed è realizzata dagli InSonar. il potere dell’immaginazione infantile che trasforma l’orrore in meraviglia. Sono i bambini a raccontarci delle fiabe per aiutarci a non avere paura del buio, dentro e fuori. Questo il tema. I due cd sono avvolti in un booklet per la prima metà in bianco e nero contenente alcune opere di Marcello Bellina (in arte Berlikete) e quindi mosaici di Arend Wanderlust. Il progetto di Claudio Milano e Marco Tuppo vede la partecipazione di sessantadue musicisti da tutti i continenti tra cui Elliott Sharp, Trey Gunn & Pat Mastellotto, Walter Calloni, Paolo Tofani, Ivan Cattaneo, Nik Turner, Dieter Moebius, Thomas Bloch, Ralph Carney, Dana Colley, Graham Clark, Richard A Ingram, Albert Kuvezin, Othon Mataragas & Ernesto Tomasini, Nate Wooley, Burkhard Stangl, Mattias Gustafsson, Werner Durand & Victor Meertens, Erica Scherl, Michael Thieke, Viviane Houle, Jonathan Mayer, Stephen Flinn, Angelo Manzotti, Roberto Laneri, Vincenzo Zitello, Elio Martusciello, Thomas Grillo, Pekkanini, Víctor Estrada Mañas, Eric Ross, Takeuchi Masami, Gordon Charlton, Francesco Chapperini, Luca Pissavini, Fabrizio Carriero, Andrea Murada, Andrea Illuminati, Max Pierini, Lorenzo Sempio, Andrea Tumicelli, Nicola De Bortoli, Francesco Zago, Michele Bertoni, Alex Stangoni, Michele Nicoli, Stefano Ferrian, Alfonso Santimone, Luca Boldrin, Andrea Quattrini, Beppe Cacciola, Simone Zanchini, Paola Tagliaferro & Max Marchini, Raoul Moretti, Pierangelo Pandiscia & Gino Ape.

Il primo disco intitolato appunto L’Enfant è un tripudio di sperimentazioni Progressive e vocali che partono da atmosfere giocose e fanciullesche per svilupparsi in arie più languide, tenebrose e inquietanti. Si passa da cantati in latino, alla lingua italiana, dall’inglese al francese, dal Progressive più classico, alle digressioni psichedeliche e cosmiche, passando per motivi fiabeschi e lisergici o melodie più Pop, sempre alla maniera di Milano. Tutta la prima parte è dedicata ai membri familiari, per poi rivolgersi a Dio o agli amici e la resa musicale è rifinita da una strumentazione variegata e, a volte, inusuale. Pensiamo al marimba (una specie di xilofono di legno), al theremin, la fisarmonica, la tabla, l’arpa, il didgeridoo (una specie di lungo e grande flauto), il glockenspiel, altri strumenti fatti in casa, altre bizzarrie etniche, oltre ovviamente a cose più consuete, per modo di dire. Si passa dai testi del compositore francese Charles Gounod, a brani totalmente originali targati Claudio Milano e/o Marco Tuppo; da citazioni del compositore Umberto Giordano a collaborazioni importanti; da prestiti illustri da autori celebri come Agatha Christie, Federico Garcia Lorca o la Bibbia fino a una cover assolutamente degna di “Venus in Furs”, dei Velvet Underground.

Il secondo cd, intitolato Ashima, si apre subito nella più totale inquietudine, rafforzando ancor più quel legame tra improvvisazione jazzistica, canto sperimentale ed elettronica. La citazione tratta dai sottotitoli italiani del capolavoro di David Lynch, Twin Peaks, sarà il presagio dell’atmosfera che ci accompagnerà in questo secondo tempo dell’opera mastodontica che stiamo ascoltando. Altro indizio importante sarà la cover di “Song to The Siren”, probabilmente il brano più noto del genio Tim Buckley che è anche tra i suoi componimenti più struggenti. Oltre a sviluppare leggermente il discorso di sperimentazione musicale, evolvendo in suoni più moderni ed etnici, il secondo disco regala l’aggiunta della lingua spagnola, d’idiomi infarciti di babelica confusione (in questo senso, perfetta la scelta di realizzare una cover di “Warszawa”, brano scritto da David Bowie e Brian Eno, dal linguaggio immaginario e prettamente musicale) di nuova strumentazione, kargyraa, buste di plastica opportunamente tagliate, eccetera, eccetera, eccetera. Il disco si chiude con la versione number  two di “Gallia”, questa volta con testo in italiano (nel disco uno era in francese) e poi un pezzo strumentale volto ad allentare l’atmosfera. La prima parte cessa cosi. Vi ho detto tanto e invece non vi ho detto quasi niente di quello che c’è dietro ai due dischi che formano L’Enfant et le Ménure ed è già ora di mettere sul piatto un altro cd. Da questo primo tempo quasi giocoso e bambinesco si passa alla seconda parte, targata Nichelodeon e quindi su un terreno più battuto, vista la vecchia conoscenza con il supergruppo di Milano (anche geograficamente parlando) ormai in circolazione da circa sei anni e all’attivo piccoli gioielli di Avant Prog e Free Improvisation (come No o Il Gioco Del Silenzio), che narra motivi come il cannibalismo nei rapporti interpersonali nell’epoca contemporanea, non dimenticando gli orrori che guerre passate, come fantasmi, hanno lasciato sedimentare nelle nostre coscienze. Il booklet in questo caso contiene i dipinti e le poesie visive di Effe Luciani e le foto di Andrea Corbellini. Claudio Milano è affiancato da Raoul Moretti, Pierangelo Pandiscia e Vincenzo Zitello, Michel Delville, Walter Calloni, Paolo Tofani, Valerio Cosi, Fabrizio Modonese Palumbo, Alfonso Santimone, Stefano Delle Monache, Elio Martusciello, Paolo Carelli, Lorenzo Sempio, Max Pierini, Andrea Breviglieri, Andrea Murada, Massimo Falascone, Sebastiano De Gennaro, Giorgio Tiboni, Laura Catrani, Valentina Illuminati, Ivano La Rosa, Luca Pissavini, Alessandro Parilli, Francesco Chiapperini, Andrea Quattrini, Fabrizio Carriero, Anna Caniglia, Marco Confalonieri, Simone Pirovano, Simone Beretta. I dischi che compongono Bath Salts sono due capitoli della stessa pellicola. Il primo, sottotitolato D’Amore e di Vuoto e il secondo Di Guerre e Rinascite. Si tratta di una miscela spettacolare d’improvvisazione jazzy, sperimentazioni vocali, testi criptici ed evocativi, atmosfere incantate ed inquietanti che sembrano spaziare tra le pieghe della fantasia umana. Anche in questo caso non mancano pezzi presi a prestito da Bertold Brecht, cover di Peter Hammil e tanto altro. Le sonorità Progressive sono ora dilatate, ora liquefatte, ora attorcigliate e deformate, ora ricomposte in forme più consone lasciando alla voce gran parte del palcoscenico e della luce. Il canto di Milano si avventura verso i suoi limiti invalicabili ma non disdegna le tenui passeggiate nelle nuvole della melodia più popolare figlia della tradizione cantautorale tricolore. Nel secondo disco la voce si attesta su tonalità più gravi e le situazioni si fanno più crude, feroci. I temi essenziali, quali l’amore, la spiritualità, la vita lasciano il posto a freddi riecheggiamenti bellici, a temi come la morte, la guerra, la sofferenza fino alla rinascita, anche musicale, alla quale si assiste a partire da “L’Urlo Ritrovato”, forse il punto più alto dell’opera.

Il capolavoro è una beatificazione sonica delle arti che vengono nei quattro cd rievocate e mescolate, elevate e sporcate le une dalle altre; l’arte visiva è messa egregiamente in mostra all’interno dei booklet, con foto di pregiatissima fattura ritraenti le opere di diversi, già nominati, artisti. La poesia è sia raffigurata dai testi dello stesso Milano ma si sposa anche con le arti visive e con la musica e le rievocazioni delle opere di altri grandi autori del passato, più o meno recente. Il teatro è parte integrante del cantato di Milano e diventa uno dei tanti protagonisti di tutta l’opera. Pittura, scultura, poesia, teatro, cinema, musica, fotografia. Musica Rock Sperimentale, Jazz, Progressive, Pop, Cantautorato, Ambient, Psychedelia e poi una moltitudine di autori, strumenti, ricordi ed evocazioni.

Per chiudere il cerchio sarebbe opportuno gustarsi anche dal vivo le performance di Claudio Milano e di tutti i diversi pezzi da novanta che lo accompagnano nelle sue svariate avventure, ma non ho la possibilità fisica di farlo nell’immediato e quindi non mi resta che sigillare questo mio scritto, più un consiglio per appassionati che una vera recensione. Dovrei ora aggiungere la classica frase a effetto, che riassuma l’opera tutta, le emozioni suscitate e vi lasci la voglia di ascoltare i quattro dischi. Non ci riesco perché letteralmente mi ritrovo ancora bocca aperta, con un sorriso ebete, a bearmi di quanto ascoltato e di quello che L’Enfant et le Ménure / Bath Salts rappresenta anche ben oltre i significati artistici e le chiavi di lettura fornite dai sensi e dall’intelletto. Vi lascio allora alle parole di Claudio Milano, tratte da una sua vecchia intervista. Forse vi aiuterà a capire cosa c’è dietro tutto questo:

Nell’attuale idea di arte, sostanza e forma collimano così come creatività, professionismo e peso economico. Non è possibile intendere l’artista come qualcuno che non appare ripetendo alcune dinamiche ed essendo immediatamente riconoscibile. Arte oggi coincide con specchio, è manifestazione di una società che ci dicono, si “autocrea”, ma che in realtà è sottilmente “facilitata” da abili venditori. Per me, arte rimane invenzione di nuovi linguaggi di contenuto e forma significante, capaci di spostare, anche solo di un passo più in là, la nostra capacità di visione e percezione. Esistono tanti musicisti che lo fanno tutt’oggi, che trovano tristemente pochi mezzi per arrivare a un pubblico più vasto. Sarebbe bello che la critica musicale avesse percezione della sua storia, così come fa la critica che si occupa delle arti visive”.

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Le Superclassifiche di Rockambula: Top Ten anni Settanta

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Nella mente di ogni buon italiano medio, poveretto, gli anni 70 sono stati quelli che per i paesi occidentali anglosassoni erano i sessanta. Si sa che da noi le mode, le tendenze e gli stili musicali sono inclini ad attecchire con un certo ritardo e figuriamoci cosa poteva essere avere vent’anni nel decennio di cui stiamo parlando. Poca la stampa italiana che chiacchierava decentemente di musica estera. Non c’erano certo canali televisivi come Mtv (quella degli esordi, intendo) e, ovviamente, non c’era Internet. C’era solo da sperare in qualche perla regalata dal cinema e dalle sue colonne sonore, dalla radio, oppure aspettare che il fratello maggiore emigrato qualche anno prima facesse ritorno con un disco sconvolgente.

Gran parte delle cose straordinarie accadute in musica nei 70 finirono quindi per entrare nell’immaginario collettivo degli italiani solo qualche anno dopo. Pensate ai Beatles, ai Led Zeppelin oppure a Hendrix o Janis Joplin (entrambi morti nel 1970, mentre Jim Morrison morirà l’anno seguente).

Sarà il tempo a restituirci una straordinaria foto dei seventies, gli anni delle sit-com, del Pop e del Rhythm & Blues, della Disco-Music e delle discoteche, dell’Elettronica e del Punk. Dei polizziotteschi e della commedia sexy; de Lo Squalo, Rocky e Il Padrino. Anni fantastici, pur nelle sue ambiguità,per chi li ha vissuti e malinconici per chi ne ha solo subito il colpo di coda, come me del resto.

Di seguito la classifica stilata dalla redazione di Rockambula dei migliori album dal 1970 al 1979. Grande assente la Disco Music e l’Elettronica, presente con i Kraftwerk ma ben oltre la decima posizione e un primo posto che conferma una certa ruvidezza di gusti da parte nostra, già mostrata nella classifica dei sixties.

1) The Clash – London Calling

2) Pink Floyd – The Dark Side of the Moon

3) David Bowie – The Rise And Fall of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars

4) Black Sabbath – Paranoid

5) Sex Pistols – Never Mind The Bollocks Here’s The Sex Pistols

6) Joy Division – Unknown Pleasures

7) Bob Marley – Exodus

8) The Rolling Stones – Sticky Fingers

9) Queen – A Night at The Opera

10) Television – Marquee Moon

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Valentine’s Day: ecco il video

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Valentine’s Day è il nuovo singolo di David Bowie tratto dall’ultimo album, The Next Day. Per il brano è stato realizzato un video da Indrani & Markus Klinko, una coppia di fotografi che già aveva collaborato con Bowie in occasione di Heaten, curando in quell’occasione l’artwork del disco. Nella clip il Duca Bianco è solo, fascinoso ed energico, su uno sfondo decadente. Godetevelo!

 

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Nuovo singolo per David Bowie

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Annunciata per il 19 agosto l’uscita britannica del nuovo singolo di David Bowie, tratto dall’album The Next Day. Il singolo, che verrà distribuito negli USA dal 20 di agosto, si intitola Valentine’s Day e avrà un packaging particolare. L’immagine della copertina è ancora da rivelare, ma per ora si sa che l’involucro sarà di plastica bianca con il lettering trasparente che lascerà intravedere la figura rappresentata.

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