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Bud Spencer Blues Explosion – BSB3

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Tornano i Bud Spencer Blues Explosion, sono sempre in due ma suonano come dieci. Il duo romano formato da Adriano Viterbini (voce e chitarra) e Cesare Petulicchio (batteria) giunge al terzo lavoro discografico con energia da vendere, energia che è poi il fulcro del percorso di questa band, insieme alla passione per il virtuosismo mai fine a sé stesso. Registrato in presa diretta con rare sovraincisioni, BSB3 è un disco dove si tenta di fissare l’impatto live del duo, con risultati notevoli. Certo, vederli dal vivo rimane la dimensione ideale per apprezzare il lavoro dei BSBE, ma su disco si ha il tempo e la concentrazione per seguirne le evoluzioni, che procedono per scarti ridotti tra la semplicità della linea, affusolata e asciutta, degli arrangiamenti e della parsimonia di elementi, fino ai ghirigori di chitarre e distorsioni, tra Blues (vero nume tutelare) e Grunge, tra spazi Garage e sporcizia Punk. Un disco da ascoltare senza dubbio a volume altissimo, che magari non regalerà la mappa per trovare il futuro della musica, ma che certo sa spingere sull’acceleratore quanto basta per lanciarci a tutta velocità in un’avventura sonora che sa divertire ed esaltare (l’apripista “Duel”), senza per questo lasciarci galleggiare nello stagno del prevedibile (“Croce”), sapendo anche rallentare all’occorrenza (“Troppo Tardi”). Da godersi senza intellettualismi inutili.

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Jack White – Lazaretto

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Jack White è un tipo particolare, si sa, visibilmente eccentrico almeno nelle apparizioni ufficiali. Il suo look ultimamente è l’incrocio perfetto tra il surrogato Rock di Johnny Deep e un vampiro. Tanto eloquente è la cover di questo secondo e necessario album da solista; lui bianco pallido seduto su un trono di angeli, nel centro esatto della copertina, con la faccia imbruttita e una tinta blu glaciale che fa da sfondo. Diciamocelo, White, che ci piaccia o no, è uno che non lascia nulla al caso. Una chicca, se così può essere considerata, per i collezionisti, è il vinile: la testina del giradischi va posizionata alla fine del disco, verso il centro, l’album gira al contrario; sulle scanalature ci sono dei piccoli ologrammi raffiguranti gli angeli di copertina che risaltano alla luce e tengono i nostri occhi inchiodati sul disco che gira; la prima canzone sul lato B, “Just One Drink”, ha una doppia scanalatura che si traduce in una doppia intro, acustica/elettrica, in base a dove finisce l’ago della testina. Fissazioni?!

Ma arriviamo all’album, anzi, alla musica. Lazaretto è un’altalena in cui fluiscono sfumature di vari generi nella prosa Blues, oscura e psichedelica, di White. Una gestazione durata più di un anno al contrario dei precedenti album registrati in una manciata di giorni. White si chiude a Nashville nella sua Third Man Records, il suo Lazzaretto, luogo di confine per appestati e lebbrosi, catalizzando i suoni del suo passato e mettendo una distanza netta dagli White Stripes e trovando un mood più pieno, meno minimal. Tanta la strumentazione utilizzata ma permangono su tutto l’album soprattutto il magnifico suono del pedal steel di accompagnamento, i vari synth moog suonati alla barrelhouse come si faceva nei vecchi saloon western, mandolino Folk e ovviamente l’immancabile frastuono della sua chitarra elettrica; “High Ball Stepper” ne è un esempio perfetto. L’album si apre con “Three Women”, organo hammond in stile big band, propulsione R’n’B e disturbi di chitarra elettrificata. Si parte da qui, anche se la riconoscerete forse solo per il testo, questa è una cover del cieco (blind) Willie McTell (1928), alle radici del Blues quindi, alle radici della musica moderna. Tutto il disco risulta avvolgente, modulato a tal punto che si ascolta senza problemi, dal Blues più ritmico di “Lazaretto”, seconda traccia, a quello Country di “Temporary Ground”. Dalla malinconia desolante di “Whould You Fight for my Love?”, con i suoi cori tetri, alla più Punk “Just One Drink”, molto President of U.S.A..

Con questo lavoro White, dopo essere diventato una star con gli White Stripes, cerca la consacrazione nella Rock and Roll Hall of Fame. Undici pezzi impeccabili stilisticamente che ne fanno un lavoro da non perdere assolutamente. Godetevelo!

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Al via il River Sound

Written by Senza categoria

Dall’idea di accompagnare con la buona musica il ritmo naturalmente offerto della corrente del fiume Foro, nasce il River Sound Festival, che si terrà proprio sulle rive del corso d’acqua nei pressi della Calcara di San Camillo a Bucchianico sabato 13 settembre 2014 a partire dalle ore 17.00. “Il nostro intento è quello di accordare le melodie dell’arte con quelle della natura, nel luogo speciale e meraviglioso dove abbiamo trascorso gran parte del nostro tempo, e con l’idea di creare un collettivo culturale abbiamo invitato diverse band abruzzesi, ognuna con il proprio stile e con le proprie peculiarità.” affermano gli organizzatori Daniele D’Orazio, Fabio Di Tullio e Luigi Max Di Paolo. Con questo spirito si esibiranno i gruppi che hanno aderito con entusiasmo al progetto: Claudette & The Farmer con il loro cabaret comico-musicale, gli Essenza con il loro Jazz ricercato, i SangueMosto!, abili esponenti della scena Rap/Hip Hop nostrana, i Why Not? che proporranno un repertorio Blues, Pop e Rock in versione acustica, i Brigata Savoia, che sottolineeranno il legame con il territorio con il proprio tributo alla musica popolare, le She Rocks, formazione femminile dalla dirompente carica energetica, Filters, Louibox e x2jeep, incantevole beatboxing e Rap freestyle, e infine La Sete di Tè, armonie elettroniche su base Pop. A seguire, in collaborazione con Elettropark di Guardiagrele dalle ore 22,30 alle ore 2,00 i djset di Boris, Luca Cola e Christian Crash. L’ingresso è gratuito.

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Inside the Hole – Impressions

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Dopo i Four Seasons One Day torno ad occuparmi di un’altra band siciliana, localizzata, per la precisione, a Montemaggiore Belsito, nell’hinterland palermitano, interprete di un genere completamente differente dai loro conterranei: gli Inside the Hole, difatti, sciorinano un Hard Rock molto curato negli arrangiamenti che mostra un’accentuata passione per il Blues, ardente nel cuore dei tre ragazzi. Superata la consueta gavetta, fecero uscire il loro primo album Beer! Sex!…and Fuckin’ Roll nel Novembre 2011 e apparvero in ben tre compilation nel solo 2012: Riot On Sunset Vol. 29, Mondo Metal Compilation e Demo Invasion, le quali, vista l’ampia distribuzione, attirarono l’attenzione della logic(il)logic. Impressions è un lavoro più maturo rispetto all’esordio, ci sono tutti gli stilemi che il genere richiede: assoli intensi, una sezione ritmica impeccabile e una voce sporca ma al contempo poderosa e profonda. I testi, neanche a dirlo, toccano qualsiasi cliché facilmente associabile all’Hard ‘n’ Blues: bevute, ragazze sexy e spiriti liberi. Niente di originale all’orizzonte, almeno su questo versante. Non che musicalmente si arrivi all’apice dell’originalità in quattro e quattr’otto: responsabilità attribuibile a un genere saturo, per lo più rivolto ai suoi numerosi aficionados. L’episodio meglio riuscito è a mio avviso “Beer! Sex!…And Fuckin’Roll” dove finalmente si rompono gli schemi, rasentando l’Hard venato dal Metal dei Motörhead. Subito dopo, però, si conclude il disco con la canzone più Blues del lotto, “Begins The Blues”, che ha l’amaro sapore del riempitivo e anche un po’ del ripensamento. Viste le doti tecniche messe in evidenza dal trio siciliano mi aspettavo di certo una capacità maggiore di coinvolgere l’ascoltatore. Il desiderio di strafare assume i connotati di un’occasione sprecata. Peccato.

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THE PRETTY THING (50 DI TOUR) A TORINO

Written by Live Report

RUGHE SPORCHE
THE PRETTY THING (50 DI TOUR) A TORINO

Una domenica come molte altre, forse addirittura più anonima di tante altre. Con un cielo diviso a metà tra il blu della spensieratezza pre-estiva e orrende nuvole nere incombenti. Per sconfiggere l’apatia di questa modesta giornata cerco come molte altre volte rifugio nel Rock’N’Roll, antica medicina che per fortuna su di me continua a fare un certo effetto benefico. A questo giro di antico non c’è solo l’antidoto. Scorgo infatti con piacere che a Spazio 211 – Torino celebrano i loro 50 anni The Pretty Things, storico gruppo inglese capitanato da Dick Taylor, membro fondatore dei The Rolling Stones. Si parla del 1963, l’anagrafe non può mentire. C’è da dire che ultimamente sono parecchio avverso ai gruppi di ultra sessantenni. Penso che la pensione serva anche nel Rock, a volte la passione non basta ad attenuare gli acciacchi del tempo. E molte band di dinosauri si sono palesate ai miei occhi come lente macchine arrugginite, ancora appese agli esagerati fasti del passato. Esagerati per essere comodamente gestiti col tempo.
Alle ore 22 arrivo al locale e, nonostante delle vere e proprie leggende (negli anni ‘70 Mister David Bowie suonava le loro cover!) siano in città, il locale è semi deserto. Un po’ me lo aspettavo, un po’ forse Torino, che tanti pregi ha musicalmente parlando ma non ha mai avuto lo strato ruvido del Blues marcio sull’asfalto dei suoi viali. Ci si potrebbe aspettare per questo uno show un po’ anemico, apatico come questa domenica. Immagino che arrivare con 50 anni di band alle spalle e trovarsi un locale con sessanta persone dentro, per giunta a 2000 km di distanza da casa tua, potrebbe portarti all’apatia, alla freddezza, all’odio verso la passione che ti ha spaccato la schiena in decenni di furgone. E questo credo capiterebbe qualsiasi sia il tuo passato, figuriamoci cosa capita a chi ha militato in gruppo con Mick Jagger e Keith Richards.
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Alle 22.30 però The Pretty Things attaccano e tutte le cazzate che mi ronzavano per la testa vengono spazzate via dal muro del suono. Chitarre marce suonate da Dick, occhialuto e ricurvo su se stesso, e da Frank Holland, un altro attempato volpone, ricciolone e dallo stile Proto Punk. Basso e batteria da manuale del rock anni ’60, sebbene siano gestite da due pischelli. E poi la voce di Phil May, direttamente presa in prestito dagli inferi. Il diavolo invecchia ma mantiene charm inglese. Stile incredibile, viscerale. La macchina del tempo funziona alla grande, si sente lo sporco, le budella che si agitano, si sentono i tempi in cui la musica era una ragione di vita.
La magia scatta con il viaggio di “S.F. Sorrow is Born” (il disco S.F. Sorrow pare sia la prima opera rock che ispirò The Who a scrivere “Tommy”), psichedelia e aridi deserti, con quella sezione ritmica giovane che rende tutto così attuale e tangibile. L’incantesimo non si interrompe neanche quando sul palco rimangono solo Phil e Dick, come due vecchi amici (lo sono e si vede) jammano su vari standard Blues in duo acustico. Dick Taylor pare muovere goffamente le dita ingiallite e scheletriche ma in realtà con il suo slide riempie la sala di pathos e ci riporta davanti Robert Johson e tutte le sue diavolerie. Questa band è incredibilmente viva nonostante suoni musica vetusta. Ha la passione, la forza e la voglia ancora di stupire. Niente da dire, mi sono convinto. Questo gruppo è molto più gruppo di quanto siano The Rolling Stones degli ultimi 30 anni. Ma la chiudo qua perché il paragone è banale e forse pure fuori luogo.
Il finale dello show, che personalmente è anche una lezione di musica (ma oserei dire pure di vita), è affidato ad un omaggio a Bo Diddley, oltre che a loro classici come “Midnight to Six Man” e la conclusiva “L.S.D.” con tanto di citazione a “Lucy in The Sky With Diamonds”. Concerto corto, un’ora e mezza di pura energia e di sogni. Un’amalgama perfetta e un sorriso stampato sui loro stanchi volti che non si arrendono.
Nel finale esco a fumare una sigaretta con alcuni amici, passa proprio Phil May con una crostata alle ciliege in mano mentre i più giovani caricano lo scassato furgone che pare essere pure lui sudato marcio sebbene sia parcheggiato in una Torino non troppo caliente. Noi ci guardiamo e vediamo li a un metro da noi questo anziano, dall’aspetto rude, con capelli semilunghi ma mezzo calvo, che nonostante il sudore e i segni del tempo tenuti alla luce del sole, conserva la sua estrema eleganza. Guarda fuori, con una crostata in mano. Mi avvicino e gli dico solo: “great”. E’ l’unica parola che mi sento di dire. Lui mi guarda e mi da una pacca sulla spalla, gli scappa un “thanks a lot” e dopo un sorriso vero, umano. Mannaggia mi aspettavo dal Rock’N’Roll solo un po’ di brio per sotterrare questa triste domenica, invece questo infame si è dimostrato di nuovo più grande di quello che potessi immaginare.

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Amanda Rogers – Wild

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Nono album per la cantante dalla voce da usignolo che viene dall’Upstate NY, Wild è un doppio (ma neanche troppo lungo) album, che vede Amanda Rogers alle prese con un ritorno a casa (Syracuse) e allo stesso tempo un ritorno parallelo alle radici della musica che ama, una connection che mescola la ruvidezza e la spontaneità dei 70 con la sfrontatezza senza paura dei migliori 90.  La storia del disco (l’ideazione, la composizione, la registrazione) è la storia della musica che nel disco è contenuta (non è sempre così). In questo caso, l’essere inciampata in Jon Lessels, proprietario del Subcat Studio, di base proprio a Syracuse, e l’aver trovato in lui una metà musicale perfetta, ha reso la produzione del disco qualcosa di inaspettato e di liberatorio (in questo senso, “wild”). Registrato per la maggior parte live, con Amanda al piano e Jon alla batteria, Wild ha subito pochi rimaneggiamenti posteriori, e la musica da cameretta di Amanda ne ha giovato.

Le canzoni (20!) sono immediate, facili ma non banali: arrivano dritte alla testa e al cuore. Leggere, come leggera è la voce di Amanda, bellissima e adamantina, mobile e intensa, lieve e suadente (e non so che altri aggettivi inventarmi). Un disco doppio che non stufa, che potrebbe girare per ore, e noi con lui a seguire le evoluzioni Folk, Blues, Pop di questo spirito libero alle prese con temi universali e particolari in rapida sequenza – il vero amore, il ritorno a casa, la critica al consumismo imperante e l’ironia sul maledettissimo sogno americano. Ciò che soddisfa di Wild è l’approccio: un ritorno alle origini, una registrazione scarna, sincera, una composizione organica, che è un tutt’uno con la produzione e, poi, con l’ascolto. Amanda Rogers ci ha donato una piccola perla, una bolla spazio-temporale affacciata sugli anni in cui la musica era un po’ meno plastica e un po’ più legno, terra, fango (“Calendar of Yesterdays” mi ha spedito lontano sul bagnasciuga del mare del tempo…). Non so se ne abbiamo bisogno: ad ogni tempo la sua musica. A me, però, Wild fa stare molto, molto bene… e non basta questo, in fondo?

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Edoardo Borghini – Fumare per Noia

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“Ci riproviamo, ci ricaschiamo”: così comincia Fumare per Noia secondo (capo)lavoro di Edoardo Borghini, giovane cantautore livornese, che vuol dare un seguito al suo primo omonimo disco. Forse questo titolo perché l’artista vuol subito chiarire che, per una sorta di consecutio temporum, “Fumare Per Noia” è il logico risultato di una maturazione artistica avvenuta in un periodo, neanche troppo grande, che passa attraverso arrangiamenti molto più complessi e persino per imitazioni canine in “Canzone di Quel che mi Viene in Mente” (proprio come fece John Lennon quando impersonificò un tricheco in “I am The Walrus”, sesta traccia dello storico Magical Mystery Tour, spesso coverizzata ed eseguita live anche da artisti del calibro di Frank Zappa, Oasis, Styx e dai nostri conterranei A Toys Orchestra). In “Perso l’Occasione di te” si ha la sensazione di imbattersi in un gioco musicale che prende spunto a quella “Eleanor Rigby” tanto cara agli stessi The Beatles e all’estro geniale del già citato Frank Zappa. Di quei riferimenti a Neil Young e a Francesco De Gregori che si erano riscontrati nel precedente compact disc invece è rimasto poco, proprio come se si volesse far capire l’ampiezza artistica di Edoardo Borghini che stavolta ha optato per un repertorio tendente più a Lucio Battisti (quello del periodo Mogol) e agli americani Byrds.

La conclusione è affidata a una “Ho Preteso” che è cantata in maniera piuttosto originale ed eseguita strizzando l’occhio al Jazz e allo Swing degli anni cinquanta. Peccato che il nostro viaggio sonoro con Edoardo Borghini duri solo otto canzoni (una mezz’oretta di tempo circa). Ci stavamo prendendo gusto. E come dice lo stesso Borghini in “Canzone di Quel che mi Viene in Mente”: “No, io non sono quel che si dice un cantautore matto, un canzoniere, un paroliere, ma so solo che a te piaccio così come sono”. E per una volta tanto l’autostima è davvero meritatissima.

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Antonio Allegro – Black Tuff

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“Panta Rei”. Tutto scorre. È questa la traccia iniziale, l’incipit di Black Tuff, il primo album del musicista e compositore Antonio Allegro; un concept che narra i primi trent’anni di vita dell’artista. “Panta Rei”. Tutto scorre. È impossibile non tornare con la mente ai tempi del Liceo, quando la teoria del Divenire di Eraclito mi faceva riflettere sul continuo e perpetuo mutamento delle cose, del loro perenne nascere e morire. Sarà questo moto perpetuo a condurmi verso la scoperta della vita di un uomo, del quale non so nulla, e del quale dovrei sapere molte cose arrivata alla fine dell’ascolto? Racchiudere trent’anni di vita in un disco, lo ammetto, mi sembra un progetto alquanto ambizioso, ma intrigante allo stesso tempo. Lascio il freno della ragione, accelero con l’immaginazione e premo play.

Una chitarra sinuosa che pizzica a tratti le note del Blues, mentre scrosci d’acqua e percussioni le fanno da sottofondo: è questa “Panta Rei”, il vagito iniziale del disco, un’introduzione strumentale che dice già molto sulla qualità di ciò che sto per ascoltare. È da qui che ha origine tutto. Il vagito si trasforma subito in voce possente con “Madness of Metropolis”, pazza come il titolo che si porta dietro, come la metropoli che descrive; è qui che si alternano momenti di lentezza e malinconia Blues a lunghi assoli estremi e deliranti.  Le tonalità Blues si perdono nella violenza emotiva di  “Violence is Cold” che si apre ad un Rock più duro al quale però non riesce a stare dietro con la voce, decisamente più adatta per altre sonorità, come quella di “Like a Jewel”, perfetta negli arrangiamenti e nella melodia malinconica, estremizzata da assoli di chitarra struggenti. “Goodbye” è leggera, come l’ arrivederci di chi parte in punta di piedi per non fare rumore e sente già la mancanza di ciò che ha lasciato dopo il primo passo; è il sassofono che stavolta  entra in campo a dar voce a questa tristezza. Sembra esser questo il sentimento prevalente nel disco (e nella vita di Allegro) a partire da questo momento; in “Come Down” si arrivano a sfiorare sonorità Jazz, mentre un senso di confusione e frustrazione sono accentuati in “I’m Not Here”, dove il suono si frammenta in irregolarità deliranti. “In or Out”, strumentale, è invece di passaggio tra l’inquietudine dei pezzi precedenti e la serenità di “She Saved Me”, ballata d’amore per chitarra e voce, segno di una ritrovata felicità. “Punchinello’s Moonlight”, il chiaro di luna di Pulcinella, è il pezzo strumentale che chiude l’album, o che comincia una nuova storia, in virtù di quella famosa teoria del Divenire, del nascere e morire, per poi magari rinascere ancora.

È stato interessante viaggiare nella musica e nella vita di Antonio Allegro. A volte è stato semplice entrare nei suoi stati d’animo, a volte un po’ meno; sempre e comunque ho trovato una chitarra come valida compagna durante questo percorso. Credo sia la stessa che abbia accompagnato lui durante il suo.

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Le Formiche – Figli di Nessuno

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Un disco Rock è sempre un disco Rock. Poi se una band si chiama Le Formiche il misticismo della parola Rock assume significati indefiniti. O meglio, Le Formiche suona come un nome indiscutibilmente anti trendy per una band attuale, a qualcuno potrebbe anche fare schifo ma per me è amore a prima vista. Poi leggo il comunicato stampa e scopro il segreto di questo nome, il cantante e presumo leader della band si chiama Giuseppe LaFormica. Noooo!!!!! Non è una (re)invenzione “originale” come pensavo! Sai quei gruppi italiani anni sessanta tipo I Camaleonti, I Corvi, I Dik Dik, I Delfini etc. Ok Le Formiche mi facevano pensare a questo. Il loro primo disco ufficiale esce sotto etichetta 800A Records e prende il nome di Figli di Nessuno. Le Formiche mettono da subito in evidenza l’abilità nel raccontare in musica i fatti e le storie dei quartieri difficili della loro città d’origine Palermo, dalle rapine alla vita in prigione passando per storie d’amore e voglia di riscatto. Un disco impegnato. Il vero Rock deve essere impegnato o quantomeno dovrebbe aprire gli occhi.

Figli di Nessuno si apre con “Non ho un Lavoro”, titolo perfettamente legato all’attuale situazione lavorativa nel Bel Paese. Rock classico dalle influenze Blues, niente di italiano a parte la voce da cantautore tipico tricolore. Infatti leggo che il mastering è stato affidato a JD Foster dei Montrose Studio di Richmond. Dicevo io, quindi non c’entrano niente con i Dik Dik, il sound è tutto american old style. Molto Country la succesiva “Storie da Prigione” pezzo simbolo della loro attività live nelle carceri, molto cantautorato alla Edoardo Bennato. Viene voglia di ballare sebbene il testo non lo consentirebbe. Figli di Nessuno scorre liscio senza intoppi nelle successive canzoni “Fortuna” e “Le Bombe”, sentori USA sempre in prima linea. Stranamente sento poco il contagio di Springsteen e questo per qualche anomala ragione mi rende sereno, un disco di Rock americano che non subisce le attitudini del Boss è roba da non credere. Però a pensarci bene qualcosina springsteeniana si sente in “Sam Cardinella”, testo scritto sopra una vera storia di un condannato a morte. Le Formiche capiscono bene la loro condizione di rockers fuori sede proponendo musica leggera e orecchiabile, consapevoli della semplicità del loro prodotto buttano nel disco pezzi satellite come “Mio Fratello”, “Occhio per Occhio” e “La Tristizza” (in dialetto). “Figli di Nessuno” il brano che chiude l’omonimo disco appare come una ballata intramontabile dalle atmosfere cupe, una chiusura poco allegra ma molto intima. Le Formiche dopo due precedenti demo arrivano alla maturità artistica con il petto pieno d’orgoglio, la passione per la musica non conosce generi, il loro album sicuramente fuori dal tempo è il manifesto di una generazione legata al passato che non accetta il futuro. Figli di Nessuno accontenterà quella fetta di persone nostalgiche amanti del Rock Made in USA. Chi dice che il Rock è morto?

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Elli De Mon – Elli De Mon

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Elli de Mon, già “anima Folk” dei Le-Li, con cui ha girato Italia e Europa e pubblicato due dischi e un EP su Garrincha Dischi, arriva a questo primo lavoro solista con l’intenzione di esorcizzare il proprio demone interiore scatenando, libera e cupa, la voglia di Blues che il gruppo contribuiva a tenere in stand-by. L’omonimo album è quindi un concentrato di Folk scuro, Blues ossessivo, sporco, dai suoni ruvidi e dall’andamento ondeggiante, con versi ripetuti come “mantra autoreferenziali attraverso i quali liberare la mente”. Mettere in scena l’anima solitaria e oscura attraverso il Blues (soprattutto questo Blues, dall’impianto Garage, con uno spirito quasi Punk e una rappresentazione a bassa fedeltà che ci dà l’idea di un racconto attorno ad un fuoco, sì, ma di rifiuti urbani) è un gioco che riesce sempre bene, e, complice la semplicità (relativa) di realizzazione, un gioco che viene tentato sempre più spesso.

Non che sia un male: il bello del Blues è di saper essere intrigante anche nella ripetizione. Sempre uguale a sé stesso, ma sempre diverso; la stessa maschera, le stesse movenze, ma labbra (e anime) diverse che possono dire cose diverse. Il disco di Elli de Mon non è da meno: un impianto che più classico non si può, che però racconta un mondo personale, con qualche guizzo caratteristico (“Devil”, “Devote”, “Spell”), attraverso pochi (e ovvi) ingredienti (slide guitars, banjo, sonagli). Niente di nuovo sotto il sole, quindi, ma solo vecchi demoni nell’ombra.

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G-Fast – Go to M.A.R.S.

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Dietro il moniker di G-Fast si nasconde il One Man Band milanese Gianluca Fastini, un amante delle sonorità vintage, di quel maledetto Rock di una volta che puzzava di whiskey e suonava di Blues. Il suo nuovo disco preceduto da svariati live esce per La Fabbrica e si chiama Go to M.A.R.S., niente di elegante, niente di particolarmente eccitante. Perché questo Go to M.A.R.S. vorrebbe suonare esattamente come un disco di una volta, prendiamo tutta l’attuale scena Indie italiana e buttiamola senza timore nel cesso tirando lo sciacquone infinite volte. Tanto non ci sarebbe poi così tanto da salvare secondo alcune arroganti presunzioni. “Go to M.A.R.S.” prima traccia (e pezzo che titola l’album) parte subito massiccia e senza paura, piedone a spingere sulla cassa, chitarre Folk Rock e tanta voglia di arrivare su Marte. Ma questo dal titolo si era capito benissimo, dopo Bowie arriva G-Fast. Tanta spocchiosità nell’animo indipendente di “I Like It”, qualcosa diventa subito muro tra concetto e risonanza. Non arrivo a cogliere il senso e disordinato come un bambino eccitato dai regali di Natale vado avanti nell’aprire canzoni come fossero pacchi.

Nel brano successivo “Mystical Man” G-Fast usa chitarroni pesanti ma quella insistente sensazione di “vecchio polveroso” proprio non vuole lasciarmi stare. Capisco benissimo l’intenzionale ricerca di suoni del passato ma in questo caso il prodotto finale è stancante, è come mettere volontariamente la testa dentro una ghigliottina francese. Tralascio volentieri “On My Own”, non riesco a contemplare certe cose in nessun momento della mia giornata. Tengo a precisare che questo disco sono riuscito a metabolizzarlo (diciamo pure così) almeno dopo dieci ascolti durante i quali mi promettevo di trovare il lato positivo che puntualmente non arrivava mai. E nessuno mai potrebbe capire quanto aspettavo che ciò accadesse. “Morning Star” prosegue senza provocare troppo scompenso, alta orecchiabilità e sound arrugginito come non ci fosse un domani. In questo caso apprezzo molto la tecnica Old School. Andando avanti troviamo “Like an Angel” e “Toy Soldier”ma entrambe vivono di luce riflessa, un qualcosa già speculato negli anni novanta quando tutto era più facile e non ci giravano i coglioni a causa della crisi economica, quando potevi sentirti il padrone del mondo non sapendo che la fine era alle porte.

Ci vuole un fegato marcio per suonare Rock Blues senza contaminazioni. “Crazy” è finalmente un pezzo diverso dal resto, poco omologabile con quello ascoltato in precedenza, un mix di atmosfere tarantiniane e sole bollente sulla nuca. Ma possibile? Ho già ascoltato da qualche altra parte? Sento delle familiarità impressionanti. I diritti umani mangiati voracemente da un corvo nero in “The Crow Is Back”, ancora non riesco ad afferrare niente di buono, sconsolato cerco riparo nell’ultima traccia “What I Think of You”. E’ una ballata ma a me non piace affatto. G-Fast non rientra nella schiera di musicisti che salveranno la musica, almeno da quello espresso in Go to M.A.R.S. non riesco a vedere neanche uno spiraglio di positività. Inutile nascondersi dietro musicalità testate migliaia di volte e tecnica audace, la musica è soprattutto sentimento e questo disco purtroppo non trasmette niente. Consideriamola una brutta esperienza.

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Dead Shrimp – Dead Shrimp

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Pensando al Blues credo che ognuno di noi abbia un suo particolare ricordo. Infatti c’è chi lo scopre attraverso la passione dei propri genitori, chi attraverso la lettura di riviste di musica e chi come me grazie alla curiosità di andare a spulciare le vecchie collezioni di vinili del nonno. Ma ogni scoperta porta a un comune denominatore che è la nascita di questo genere e il grido liberatorio degli schiavi afro-americani. Passando alla struttura potremmo citare le blue note (intervallo dissonante di quinta diminuita) e della sostanziale ripetizione dibattute o interi fraseggi. La struttura del Blues dunque ha dato vita a un’infinità di generi, dallo Spiritual, al Jazz, al Rock & Roll, al Rhythm and Blues, al Nu Bluez, genere minore che celebra il blues più autentico e classico con suggestioni che appartengono ad altri linguaggi e stili.

Il Nu Bluez in particolare è lo stile dei Dead Shrimp band romana formata da Alessio Magliocchetti Lombi (chitarra slide), Sergio De Felice (voce) e da Gianluca Gianasso (batteria, washboard, voce) che nel Novembre dell’anno appena passato esce con l’omonimo album di debutto formato da dieci brani, tra cui tre cover di classici e sette brani originali. Il gruppo si forma nel 2010 come duo, tra Alessio Magliocchetti Lombi e Sergio De Felice, che subito ama le performance live in numerosi club della capitale. Il genere è chiarissimo, nato dall’amore per il Blues, infatti il duo spazia dal Delta Blues al Gospel, dal Ragtime ai canti di lavoro, interpretando gli stessi in modo strettamente personale, moderno, eppure fedele alla tradizione. Nel 2012 si unisce a loro Gianluca Giannasso consolidando e arricchendo il patrimonio sonoro del gruppo.

Nel 2013 arriva il loro primo importante lavoro discografico Dead Shrimp uscito per Ali BumaYe! Records e distribuito da Audioglobe. Dal primo secondo quando si clicca play è tutto potenzialmente chiaro: stile, suoni, volumi e soprattutto intenzioni. La tradizione c’è tutta assieme alla special guest Roberto Luti presente in tre brani del disco ovvero in “Compulsive Shag”, e nelle due cover “Shake’Em on Down” e “Kokomo Blues”. “Keep Your Lamp Trimmed and Burning” completa la triade delle cover eseguite  in maniera piacevole e pulita soprattutto nella voce di Sergio De Felice che non cerca nemmeno lontanamente di imitare un colore vocale che non gli appartiene affatto. Quindi il Blues cantato da un bianco con elementi certamente nuovi e moderni contenuti nei sette brani originali che racchiudono un ottimo lavoro di slide di Alessio Magliocchetti Lombi, un buonissimo ritmo di batteria e di washboard (strumento musicale usato dalla metà del XX secolo dopo che cadde in disuso come strumento di lavanderia dopo l’invenzione delle lavatrici) e una buona capacità di scrittura musicate attraverso uno stile molto particolare forse in alcuni contesti ancora di nicchia. Insomma un ottimo lavoro con molta storia e molto da ascoltare sia per gli appassionati che per tutti.

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