alternative rock Tag Archive

Lume – Lume

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L’esordio della band di Franz Valente (Il Teatro degli Orrori), Anna Carazzai (Love in Elevator) e Andrea Abbrescia è un frullato epilettico e nervoso di Rock graffiante e melodie giocose (“Bad Daughter”), distorsioni rumorose, batterie psicotiche e pianoforti infestanti (“Domino”), con il topping di voci agitate, esaltate, tensive, che qua e là si trasformano in filastrocche inquietanti (l’episodio breve “Sunlight”) o che altrove mescolano maschile e femminile in litanie che affogano nella polvere di un Noise ipertrofico (“Charge”).
Stupisce la libertà totale, incasinata, disordinata, dove si percepisce il divertimento truccato di inquietudine e nervosismo, l’esaltazione per l’afflato distruttivo e confusionario, il gusto per il dettaglio, che sia linea melodica o ritmica. Lume è potente e catartico, divertente, in alcuni anfratti anche ironico, da ascoltare ad alto volume con la faccia incazzata ma così, per ridere. Ed è anche cupo, oscuro, pesante nel pestare a testa bassa, nella follia umbratile, schizofrenica.
Mi fa immaginare un manicomio polveroso, abbandonato, dove ambientare un film horror di serie B, quei film che spaventano e fanno sorridere insieme. Ci danzano figure sfocate che si muovono in modo innaturale, che gridano e cantano e ballano e spaventano da lontano. Le ombre sporche degli angoli e la bianchezza dei denti, sfoderati in un sorriso tagliente oltre una finestra rotta.

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Gli Uffici di Oberdan – La Velocità degli Anni

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Power trio trevigiano che mastica Rock duro e residui Punk e risputa chitarre vibranti, bassi cordosi e batterie lineari e pestate, Gli Uffici di Oberdan condensano il loro esordio nelle cinque tracce di un EP sul tempo che scorre e sulle distanze che ci dividono, sull’indifferenza e sull’isolamento. La Velocità degli Anni ci presenta una band intensa, potente, che declama versi taglienti e semplici su un tappeto di distorsioni e ritmi quadrati e ossessivi, con una voce dalla pasta solida, graffiante. Un plauso dunque per la produzione, mentre le canzoni in sé, seppure non malvagie, non riescono a convincere del tutto. Sarà la mancanza di un’identità forte, l’appoggiarsi a stilemi già troppo consolidati, ma il disco nel suo complesso non sorprende, non “muove”. Colpa anche dei testi, che vorrebbero essere poetici e pungenti ma non ci riescono fino in fondo. Si osa poco, si rischia poco, si riesce a metà.

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À L’Aube Fluorescente – Taking My Youth

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Esordio liscio per À L’Aube Fluorescente, band abruzzese che parte in quarta con le nove tracce di questo Taking My Youth: batteria che spinge in zona Rock duro, tempi terzinati che sanno leggermente di metallo, chitarre suadenti e precise, oniriche, magiche, effettate con sapienza, che non sbagliano mai o quasi ( forse vero punto di forza di tutto il lavoro) e una voce limpida che sa trovare la strada giusta per rimanere incollata all’orecchio senza sembrare eccessivamente paracula. Tira un’aria buona nei dintorni, aria fresca e leggera che spesso manca al Rock italiano (si legga “fatto in Italia”, i nostri cantano in inglese). Taking My Youth è eseguito e prodotto con tutti i crismi, suona pulito e preciso ma non finto, non assemblato in una catena di montaggio, anzi: si sente che è un prodotto artigianale di ottima qualità, il che è di certo un bene (avercene). Anche la composizione è solida, matura: le strutture non annoiano, le scelte melodiche sono d’alto livello e alcuni accorgimenti (i suoni e gli arrangiamenti delle chitarre, come già si diceva, o i cori, ottimi) si meritano tutto il plauso possibile. C’è coraggio, competenza e ispirazione: proprio per questo mi manca, per stendergli definitivamente davanti un bel tappeto rosso verso le mie personali stanze degli innamoramenti musicali, quel pizzico in più di novità, di ricerca, di concetto, anche, se vogliamo, che me li distingua nettamente da una galassia di suoni, suggestioni, andamenti simili. Mi acchiappano le orecchie, e il piede mentre tengo il tempo ma a fine ascolto mi lasciano con meno di quello che mi sarei aspettato. L’esordio è liscio, si diceva, ma c’è ancora qualcosa da dimostrare.

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Verdena – Endkadenz Vol.1

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Endkadenz Vol.1 è il sesto album dei Verdena, band italiana che, nel tempo, ha saputo sorprendere per la sua capacità di rinnovarsi e sperimentare senza però venire meno alla propria identità. Il titolo, stando a quanto dichiarato in un’intervista per Rockit, è un termine coniato dal compositore tedesco Kagel che coniugava musica e teatro nell’esibizione, e rappresenta “un movimento ben preciso che determina la cadenza finale di un concerto”; Endkadenz è l’ultimo colpo di timpano durante il quale il timpanista aveva il “compito di rompere la pelle, di buttarsi dentro al tamburo e di rimanere lì immobile”. L’album, che viaggia in coppia con Endkadenz Vol.2 (in uscita nei prossimi mesi), è composto da 13 tracce (stesso numero del Vol. 1 di Wow). L’utilizzo del piano (“Nevischio”, “Vivere di Conseguenza”) riconduce al precedente album Wow, sebbene il piano a muro di Endkadenz suoni in maniera più calda, molto diversa dal suono elettronico del sopracitato album. La presenza di distorsioni rimanda invece ancora più indietro, a Requiem e al suo sound più duro dal sapore Grunge, ma anche a sonorità vagamente Shoegaze (“Inno del Perdersi”); scordatevi dunque le chitarre spagnoleggianti di “Razzi, Arpia, Inferno e Fiamme”, siamo ben lontani da quelle sonorità. Effetti di distorsione sono applicati anche alla voce, accompagnata a volte da cori finti percepiti come voci lontane (“Puzzle”, “Contro la Ragione”). Insieme alle chitarre distorte, grande protagonista resta sempre la sezione ritmica, che a tratti picchia in maniera compulsiva e autonoma, quasi a staccarsi completamente dalla linea melodica della voce (“Derek”), e che trova meno possibilità di esprimersi in termini di potenza rispetto al passato per via di pezzi dal ritmo più lento. Elemento del tutto nuovo è la presenza delle trombe (“Diluvio”, “Contro la Ragione”, “Sci Desertico”), anche se si tratta di suoni digitali e non di veri e propri fiati. Per quanto riguarda i testi, l’ ermetismo in stile Verdena viene quasi del tutto abbandonato per fare spazio a componimenti più strutturati, che a tratti perdono quelle caratteristiche di spigliatezza ed immediatezza per via della continua ricerca di rime e assonanze. Endkadenz segue la linea di Wow e rappresenta un altro passo in avanti verso nuove forme sonore, pur restando con lo sguardo rivolto verso Requiem ed album anteriori. Parafrasando le parole di un’amica, la vera chiave dell’evoluzione sta nel non accettarsi mai; è questo il motore che permette di rinnovare e superare sé stessi. Il rischio è quello di renderci irriconoscibili agli occhi di chi ci conosce o, in questo caso, ad un pubblico fedele ma a volte anche abitudinario. Non è il caso dei Verdena, che con un abile gioco di equilibri sono riusciti ancora una volta rinnovare la loro musica, pur rimanendo fedeli alla propria linea espressiva.

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Il Video della Settimana: I Giardini di Chernobyl – “Un Infinito Inverno”

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I Giardini di Chernobyl è una band Alternative Rock italiana che nasce nel Febbraio del 2014. La band è composta da Emanuele Caporaletti, voce e chitarra, Stefano Cascella al basso e Simone Raggetti alla batteria. Già dalle loro prime registrazioni suscitano un certo interesse nei professionisti del settore e decidono quindi di realizzare il loro primo album. Nel Luglio 2014 la band inizia le registrazioni con Giulio Ragno Favero (bassista e produttore de Il Teatro degli Orrori) preso il Lignum Studio, lo stesso dove Il Teatro degli Orrori e gli Afterhours hanno prodotto il brano “Dea” per il remake dell‘album Hai Paura del Buio. Nel Dicembre 2014, esce il loro primo singolo “Un Infinito Inverno”. Il debutto è accompagnato da un video realizzato da Stefano Bertelli (Seenfilm), regista di clip musicali per Marlene Kuntz, Caparezza e L’invasione degli Omini Verdi. A Marzo 2015 uscirà il loro primo album Cella Zero per Zeta Factory, etichetta già nota per avere al suo interno artisti come Klogr, Alteria, Kismet, Rezophonic, Disclose e tanti altri.

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Soldiers of a Wrong War – Slow

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Bassi incisivi, chitarre graffianti, drumming preciso più di un orologio svizzero e una voce con una pronuncia inglese invidiabile: queste in sintesi le qualità dei Soldiers of a Wrong War. Del resto è lo stesso quartetto (tutto made in Italy!) a dichiarare: “Viviamo, sanguiniamo e respiriamo per la musica: è qualcosa che va oltre le parole, le melodiee le note mescolate insieme, la musica è la nostra linfa vitale, la musica è dove noi prosperiamo!”. E come dar loro torto dopo aver ascoltato decine di volte in loop continuo l’ep Slow composto da (purtroppo) soli tre pezzi. Tre minuti circa per brano, appena dieci in totale di puro Rock alternativo. Tuttavia la qualità è davvero evidente ed il disco è la logica conseguenza di quel Lights & Karma che quasi quattro anni fa seppe entusiasmare i loro fans. La titletrack ha un sound determinato, tagliente, ma allo stesso tempo facilmente assimilabile da ogni vero amante dell’Alternative Rock con venature che talvolta ricordano i migliori U2 recenti e un po’ più spesso i Linkin Park. “Walls” è invece una ballad descritta dal gruppo come “una tempesta che ritrova l’abbraccio della luce per poi tramutarsi in un uragano”. Un vero e proprio uragano sonoro che ricorda i Lost Prophets e che fa da spartiacque con “Inside my Bones” che chiude con dignità questo Ep. Se qualche fan si era distaccato negli anni dal gruppo, ascoltando Slow sicuramente si riavvicinerà, ma di certo l’obiettivo dei Soldiers of a Wrong War sarà quello di conquistare anche nuovi adepti per la loro musica. E se ci sono riusciti con me che normalmente ascolto generi molto diversi, sono sicuro che potranno convincere facilmente anche voi. Del resto anche l’Ammonia Records ha già scommesso su di loro pubblicando questo Ep che certamente è una piccola gemma sonora di quest’anno che si sta per chiudere e che troverà il suo giusto mercato spingendosi anche oltre la nostra penisola.
Consigliatissimo a tutti i sostenitori di Afi e My Chemical Romance!

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Hot Complotto – Hot Complotto

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Gli Hot Complotto sono un power trio di Varese, che folgorati e fortemente ispirati dal movimento musicale e artistico chiamato Great Complotto, sviluppatosi a Pordenone sul finire degli anni 70, ha messo in piedi la propria particolare idea di musica. A Novembre hanno pubblicato, con l’obiettivo di unire in undici tracce le tante anime gruppo e i diversi caratteri dei suoi componenti, il loro omonimo album d’esordio Hot Complotto . La base di partenza è senza dubbio il Punk inglese, delle belle e salde radici, che si fanno sentire nelle ritmiche veloci e aggressive di brani come “Pezzi di Te” e “Non Voglio Niente” e che aleggiano con qualche leggera deriva Ska per quasi tutto l’album. Le incursioni di altri generi, però, sono sempre dietro l’angolo e come funghi dopo la pioggia spuntano qua e là, dal groove Funk e danzereccio di “Brutte Abitudini” al basso pieno di “Se”, fino alla romantica e intimistica ballad acustica “Neve”. C’è spazio anche per delle belle casse dritte e ben pestate alla maniera del più classico Alternative Rock di stampo inglese, che donano sempre la giusta dose di energia e carica. Gli Hot Complotto, al loro primo lavoro, non si sono di certo risparmiati e hanno messo tanta carne al fuoco, condita di altrettanta originalità. I mix tra ritmi e generi diversi , come tutti gli esperimenti a volte riescono bene e mostrano spunti molto interessanti, e a volte non convincono del tutto come in “Tecnofavole” in cui l’elettronica sminuisce anziché arricchire le potenzialità del brano. Detto questo, ai ragazzi sicuramente non mancano energia e passione che ben si sentono nei suoni carichi di forza e nell’impatto generale del disco, purtroppo però l’eccessivo mix tende a creare un po’ di smarrimento e rende molto frammentata la percezione e l’identità del gruppo. Considerato che stiamo parlando e ascoltando un disco d’esordio, bisogna premiare la volontà di proporre un progetto personale, nuovo, che ricerca soluzioni originali, e si spinge verso sperimentazioni giocose, anche se non sempre convincenti al 100%. Come si dice non tutte le ciambelle riesconocol buco, noi nel frattempo li aspetteremo, fiduciosi, al prossimo lavoro.

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The Fire – Bittersweet

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Cosa succede quando un musicista, preso da un irrefrenabile istinto creativo, esce dall’universo in cui si trova per entrare in un’altra dimensione che lo porta a comporre un pezzo, interpretare una cover, sperimentare nuove sonorità? E cosa succede quando il suo operato, figlio dell’istinto primordiale di fare musica, non si colloca apparentemente in un progetto preciso? I The Fire si sono posti l’interrogativo, e si sono dati una risposta con Bittersweet, un EP uscito per Ammonia Records, che raccoglie appunto tutti quei pezzi che rappresentano degli esperimenti sonori, non inseribili in nessun LP in quanto non attinenti al percorso sonoro in esso contenuto e che addietro sarebbero andate a costituire la B-side di un vinile. Il dubbio che subito mi assale è: non avrebbe forse senso dare anche ad un EP un’organizzazione più organica, secondo un percorso sonoro ben definito? Ma i The Fire sembrano essere consapevoli e responsabili del modo in cui stanno gestendo la faccenda, e così Bittersweet raccoglie volutamente cover nate per altri progetti, pezzi nati a seguito dell’evoluzione di riff adottati per il soundcheck, canzoni che provengono da situazioni diverse e momenti della vita distinti, tutte racchiuse in un unico lavoro che ne consente l’ascolto ed evita che possano perdersi nell’oblio. E così troviamo “Bittersweet” dal sound duro accentuato dalla voce piena di carattere di Olly Riva, seguito da una cover di “Roxanne” dei Police in chiave decisamente più rockeggiante dell’originale; a seguire “She’s The One” e la ballata “Lonely Hearts”. Per finire le due cover “Dr Rock” dei Motörhead e “Train In Vain” dei The Clash, quest’ultima interpretata per sola voce e chitarra con percussioni minimaliste. Nel complesso si tratta di un buon lavoro, buona produzione e arrangiamenti, anche se il tutto è privo di quel guizzo artistico capace di renderlo particolare.

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Nadàr Solo – Fame

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I Nadàr Solo sono tre giovani musicisti di Torino, città caratterizzata da un underground musicale vivace e fervido, sostenuto da un discreto numero di locali e realtà pubbliche e private, oltre che da un pubblico di giovani curiosi, studenti, appassionati. Una bella scena. E il terzetto non è di certo di primo pelo. Han ormai anni di carriera alle spalle, costellate di esibizioni, recensioni e collaborazioni di un certo pregio nel panorama musicale nostrano, come quella con Pierpaolo Capovilla. Non stupisce quindi di far partire Fame e trovarsi davanti a un disco ben fatto, ben registrato e ben prodotto. Naturalmente a una band non basta una buona confezione e una buona reputazione. “La Vita Funziona da Sé” ha quell’alone di precariato e instabilità tanto caro all’Alternative nostrano. I tempi sono quelli, in fondo, e non ci si può certo inventare una realtà diversa. Il cantato di Matteo De Simone è in rima, espediente che usa spesso nel corso del disco per la costruzione delle liriche, come anche nella successiva “Non Volevo”, dal tenore ben più scanzonato e canzonatorio. Dall’Alternative Rock arriviamo al Cantautorato con “Cara Madre”, che cede il passo a “Jack lo Stupratore” con le sue sonorità Post Punk anni 2000, pulite pur nella distorsione, le chitarre di contrappunto, ben utilizzate e la voce che sottolinea il sarcasmo su cui è costruito il violentissimo testo. Il ritornello è ridotto a una sola frase reiterata densa di significato ma risulta quasi svuotato dalla sua funzione mnemonica, perché sempre diversa. I testi dei Nadàr Solo sono articolati: lessico altisonante alla Marlene Kuntz e costruzione della frase in stile Il Teatro degli Orrori.

“La Gente Muore”, ha un incalzante andamento in levare scandito dall’intrecciarsi melodico delle chitarre sulla sezione ritmica, mentre colpisce il riff iniziale di “Piano Piano Piano”. Spesso i testi del trio non sono immediatamente intellegibili: i Nadàr Solo sembrano voler dire troppe cose, che non possono comprimersi nello spazio di un verso. Il risultato è un cantato con una scansione sillabica rigida e velocissima, poco ariosa e che non si concede mai un virtuosismo. E stupisce, da astigiana quale io sono, sentire un torinese descrivere la “Ricca Provincia” con tanta amarezza e tanto realismo: una riflessione lucida sulle piccole realtà cittadine, stereotipate e ancorate ai propri stereotipi per definizione stessa, condizioni e modi di fare d’uso, cristallizzati nel tempo e immutabili. Musicalmente ben costruita è “Akai”: sempre in tensione, come in un climax continuo che non trova mai risoluzione, se non forse, per continuità, nella seguente “Splendida Idea”. Davvero pregevole è “Shhh”, un crogiolo di stilemi Indie padroneggiati alla perfezione, in un risultato che richiama quasi gli ultimi Arctic Monkeys – che non saranno al top della forma, ma sono pur sempre gli Arctic Monkeys.

Il disco chiude in sordina, con le sonorità acustiche e Pop di “Non Sei Libero”. Fame val bene un ascolto. Non è il disco della vita e non piazza i Nadàr Solo in nessun qualsivoglia Olimpo musicale. Ma rende indubbiamente giustizia a tre bravi strumentisti, capace di cogliere il mood quotidiano di una gioventù precaria e instabile, in una realtà a volte stantia, a volte distorta, a volte violenta. Se vi capita, concedetegli mezz’ora del vostro tempo.

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Plus Plus – Psycho

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Decisamente non artisti di primo pelo questi Plus Plus, che con Psycho giungono al terzo disco dopo Evils del 2010 e Game Over del 2011. Nella loro biografia si legge che hanno origini inglesi ma che attualmente risiedono in Giappone. E certo è che la loro ultima fatica risente di un certo sapore internazionale, declinato lungo tutte le otto tracce interamente strumentali. Il disco, tutto sommato di durata contenuta, si apre con “This is Based Upon a True Story”, raffinata e solare, dettaglio che contrasta subito con la mia aspettativa, del resto assolutamente ingiustificata, di toni sommessi e atmosfere cupe. La sensazione prosegue con “Jail”, un richiamo all’Alternative Rock romanticone stile Coldplay, etereo e impalpabile, nel quale forse solo la reiterazione di una brevissima cellula melodica dà l’impressione di essere imprigionati. “Piano Song”, vuoi per il nome, è vagamente debussyniana. Ma non solo. Impossibile non ricordarsi subito del leggero tocco Pop pianistico di Yann Tiersen, ad esempio. Le sonorità cambiano leggermente, pur restando acustiche, nella successiva “Dieter Rams”, introdotta dalle corde pizzicate, incaricate di marcare il ritmo e definire la condotta armonica, ricreando un tappeto sonoro adatto ad ospitare, nuovamente, il timbro del pianoforte. Atmosfere visionarie, suggestioni più lisergiche che psicotiche, come vorrebbe invece suggerire il titolo, caratterizzano la traccia che dà anche il nome all’album, “Psycho”: espedienti strumentali che sembrano essere impiegati come musica colta descrittiva, finendo con pochi mezzi esaurienti, per costruire una perfetta scena sonora notturna.

E con la traccia numero sei, “Gentle Man”, la più lunga di tutto il disco, con i suoi cinque minuti e più, capiamo di essere davvero di fronte a fortunati e talentuosi eredi di artisti come Mogwai o Explosion in the Sky. “Plantopia”, a dispetto del nome, ha un non so che di marino: le sonorità sono ovattate e dilatate allo stremo, il tempo si congela in un vuoto capace di circondare e avvolgere l’ascoltatore, esattamente come ritrovarsi immersi nell’acqua circondati dal nulla, eppure sfiorati da tutto. Psycho chiude con “The Rolling Hills of England”, che forse è un richiamo alla terra natia, al passato epico e glorioso e dignitoso dell’Inghilterra che il titolo cita, come si percepisce dai movimenti melodici medievaleggianti che puntellano l’intero brano. Nel complesso è un album davvero ben fatto e che vale la pena ascoltare. Consigliatissimo.

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Bud Spencer Blues Explosion – BSB3

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Tornano i Bud Spencer Blues Explosion, sono sempre in due ma suonano come dieci. Il duo romano formato da Adriano Viterbini (voce e chitarra) e Cesare Petulicchio (batteria) giunge al terzo lavoro discografico con energia da vendere, energia che è poi il fulcro del percorso di questa band, insieme alla passione per il virtuosismo mai fine a sé stesso. Registrato in presa diretta con rare sovraincisioni, BSB3 è un disco dove si tenta di fissare l’impatto live del duo, con risultati notevoli. Certo, vederli dal vivo rimane la dimensione ideale per apprezzare il lavoro dei BSBE, ma su disco si ha il tempo e la concentrazione per seguirne le evoluzioni, che procedono per scarti ridotti tra la semplicità della linea, affusolata e asciutta, degli arrangiamenti e della parsimonia di elementi, fino ai ghirigori di chitarre e distorsioni, tra Blues (vero nume tutelare) e Grunge, tra spazi Garage e sporcizia Punk. Un disco da ascoltare senza dubbio a volume altissimo, che magari non regalerà la mappa per trovare il futuro della musica, ma che certo sa spingere sull’acceleratore quanto basta per lanciarci a tutta velocità in un’avventura sonora che sa divertire ed esaltare (l’apripista “Duel”), senza per questo lasciarci galleggiare nello stagno del prevedibile (“Croce”), sapendo anche rallentare all’occorrenza (“Troppo Tardi”). Da godersi senza intellettualismi inutili.

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Camera D’Ascolto – Figli della Crisi… di Nervi

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Dalle ceneri del progetto Never Rock Out nascono i Camera d’Ascolto, quartetto milanese pieno di energia e tante idee. Il nome, così come la copertina del disco, è ispirato alle opere del pittore surrealista Magritte. Se la copertina, che propone una versione vagamente Grunge de la Grande Guerra, non è particolarmente attraente, la scelta del nome è sicuramente più calzante. La camera d’ascolto è infatti, maccheronicamente parlando, il tentativo dell’autore di rendere visibile il suono, o meglio la sua capacità di propagarsi e riempire lo spazio.

Un quadro che chiama in causa il senso dell’udito è una bella sfida e Figli della Crisi…di Nervi è per certi versi un album con parecchie sfide, sperimentazioni e sagaci citazioni a partire da “Orfeo nell’Ade” , dove il mito va in scena attraverso testi ricercati e suoni ben strutturati e incisivi. Passando per il “Matto dell’Imbecille”, che oltre ad essere lo scacco matto più veloce possibile, è un brano ben concepito con il violino che dona carattere e personalità. Senza tralasciare la vivace “Charlie Brown (Operalnero)” con cambi ritmo al limite dell’azzardo. Gli ingredienti, insomma, ci sono tutti e il risultato sono dieci brani giovani e dinamici che spaziano dalle sonorità Punk e Grunge e le distorsioni di “Placebo”, al tormentone spedito e ritmato, che strizza l’occhio ai Green Day e che ti si attacca facilmente all’orecchio “Dieci Minuti (Sotto la Pioggia)”, senza disdegnare la parte melodica e struggente con le ballad “Sofia Scaraltta” e “Laguna”, che mostrano anche delle buone capacità compositive. Se ci aggiungiamo una discreta dose di ironia nei testi e quel giusto pizzico di critica che il Punk richiede, possiamo quasi promuovere il gruppo e augurargli di crescere, perché si sa, la gavetta è lunga ma se la si affronta ben forniti è meglio. Nota di merito per la violinista, senza la quale molti brani non avrebbero lo stesso piglio e esplosività.

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