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Recensioni | Giugno 2016

Written by Recensioni

Never Trust – The Line (Alternative Rock) 6,5/10
Energico Punk’n’Roll influenzato dai Paramore degli inizi e dalla melodia acida dei Guano Apes. Il timbro camaleontico di Elisa Galli conferisce ai brani una marcia in più. In “Turmoil” aleggia lo spettro dei Lacuna Coil, aprendo le porte ad influenze Gothic che hanno un senso compiuto nel contesto del brano. Peccato che le cartucce più spinte vengano sparate tutte nell’arco dei primi pezzi, ammorbidendo troppo il sound col passare dei minuti.

[ ascolta “A.I.M.B.” ]

Anadarko – Tropicalipto (Post Rock, Noise) 4/10
Gli Anadarko sono un trio di Trieste e propongono un Post Rock molto spigoloso, fatto da riff netti e decisi ripetuti in loop, vitalizzati ogni tanto da influenze Jazz. Quasi tutti i brani hanno lunghi momenti di ripetizione, ma risultano monotoni non avendo molte stratificazioni sonore e cambi di ritmo. Questo fa si che non si riesca mai a catturare l’ascoltatore e trasportarlo nel mondo raccontato. La ripetizione non genera ossessione, i suoni non ti lanciano nel cosmo o ti rinchiudono in un quadro post apocalittico. La sensazione e che ci si trovi davanti a brani figli di sessioni di improvvisazione piuttosto che a lavori rifiniti e cesellati da sofisticati incastri sonori. Le basi ci sono ma andrebbero esplorate e ampliate.

[ ascolta “Aterfobia” ]

Hoax Hoax – Shot Revolver (Post Rock, Noise) 4/10
L’ambizione di questo progetto è strettamente legata alla dimensione live, perchè è quella di creare un palcoscenico globale dove ciò che viene offerto per l’esperienza è al punto di incontro tra la musica degli Hoax Hoax, le video proiezioni e la luce. Nel loro Post Rock ci sono tanti sconfinamenti, come col Noise di “Huacos”, ma talvolta nettamente fuori contesto. Nel complesso quello che manca non è un senso logico ed organico, ma è un lavoro che senza il contesto multimediale non può essere apprezzato a pieno.

[ ascolta “Ablution” ]

Light Lead – Randomness (Dream Pop) 6/10
I bresciani Davide Panada, Beppe Mondini e, soprattutto, la voce di Michael Israeli confezionano questo Ep d’esordio dal sapore vagamente Beach House, anche nello stile vocale molto simile a quello di Victoria Legrand, ma con una maggiore semplicità e, purtroppo, decisamente meno talento. Eppure le cinque tracce di Randomness rapiscono già ai primi ascolti, grazie a suoni incastonati alla perfezione tra i vuoti delle corde vocali e a melodie eteree e rilassanti. Assolutamente da rivedere sulla lunga distanza, partendo dalla straordinaria opening “We Won’t Get Lost”.

[ ascolta “We Won’t Get Lost” ]

Rufus Party – Connections (Alternative Rock) 3/10
Gli emiliani Rufus Party gonfiano il proprio ego ri-presentandosi con un’opera che vuole essere una sorta di concept sul collegamento che intercorre tra gli uomini e la realtà attuale, sulla saldezza dei rapporti e delle relazioni che si instaurano tra i diversi attori che solcano il palco della vita. Una sorta di concept che però concept non è e che, dal punto di vista musicale, miscela Blues, Soul, Grunge in un miscuglio informe, banale, mal costruito e dal sound che oscilla tra inutilità e mediocrità. Cantato interamente in inglese, Connections è tutto quello di cui non avevamo bisogno, gradevole come una rassegna di band locali a costo zero alla sagra della birra di un paesino di provincia.

[ ascolta “Mothership Connections” ]

Mandela – Paint-sweating Hands (Alt Jazz) 7/10
Ottimo e purtroppo breve concentrato di Alt Jazz sinuoso e avvolgente come le spire di un grosso, lucido serpente. I cinque Mandela ci trasportano sul fondo di un oceano che si agita maestosamente e con placida grazia, tra il torrido di richiami esotici e il rarefatto di atmosfere nebbiose. Tastiere e synth mai fuori luogo, batterie che sanno venire in primo piano per poi arretrare, chitarre frizzanti e inserti di fiati che pennellano sapienti. Più cool di così si gela.
[ ascolta “Massive” ]

Weird Black – Hy Brazil (Psych Pop) 7/10
Italianissima formazione dedita a esperimenti lisergici ma senza prendersi troppo sul serio, che alla lezione Neo Psych dei C+C=Maxigross applica l’approccio scanzonato e Lo Fi di Mac DeMarco e una mollezza Folk da menestrelli d’altri tempi, elettrificata nei momenti opportuni, ad aprire parentesi sinistre (“In The Grave Of Lord”) oppure semplicemente a ricondurci nel presente, evitando abilmente di cadere in mere citazioni.
[ ascolta “Despite The Gloom” ]

Leave The Planet – Nowhere (Dream Pop, Synth Pop, Nu Gaze) 6,5/10
Duo londinese dalle origini italiche, i Leave the Planet sono Jack ai riverberi e Nathalie ai sussurri Shoegaze. Il Dream Pop del loro EP di esordio cavalca l’onda sintetica revivalista à la Slowdive, per sei gradevolissime tracce fatte di molti layer, soffici e giustapposti. L’assaggio stuzzica il palato, non resta che augurarsi che alla prova in full-length i due arrivino con qualche elemento in più a personalizzare la propria cifra stilistica.  
[ ascolta “Forever” ]

Femme – Debutante (Pop, Dance, EDM) 6,5/10
Un pixie cut rosa candy che campeggia sulla copertina del suo debut, ritmi easy da dancefloor sempre al limite del pacchiano e voce squillante e zuccherosa che ogni volta salva il tutto, specie quando si placa nelle ballad: è questa la formula di Femme, che si va a collocare nel folto esercito delle eroine del Pop danzereccio internazionale, per portarci una manciata di singoli appiccicosissimi, un’estetica accattivante e una buona dose di ironia.
[ ascolta “Light Me Up” ]

23 and Beyond the Infinite – Loath: Insane Mind Festival (Noise, Psych) 5,5/10
Quella della formazione beneventana è una psichedelia che deve molto alle origini del genere, chitarre distorte che si afflosciano narcotizzate, le liriche in inglese del cantato allucinato, esotismo quanto basta per catapultarsi nei mitologici 60’s. “From The Future to You” si sbilancia verso un Garage Rock oppiaceo ma è una promessa ingannevole: ci si gode il trip ma si resta insoddisfatti quando al termine dell’album appare chiaro che il viaggio è verso il passato, ed è di sola andata.
[ ascolta “From The Future to You” ]

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Less Than a Cube – Less Than a Cube

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La presenza del sempiterno Amaury Cambuzat (Ulan Bator, Faust) alle chitarre della quarta traccia (“Blue Grass”) di questo omonimo disco d’esordio dei torinesi Less Than a Cube non sarà sufficiente a salvare un album che ha poche cose da dire e finisce per dirle malissimo. Nove brani che nelle intenzioni vorrebbero rileggere un passato vecchio vent’anni e più con rinnovata vitalità ma che finiscono con lo scimmiottare chitarre e distorsioni datate in maniera tutt’altro che apprezzabile. Lo scenario lo-fi nel quale tutto sembra inserirsi finisce per suonare piuttosto forzato che non voluto e, non solo suoni e melodie danno l’idea di scarsa ricercatezza e assente ispirazione, ma anche le qualità vocali di prima (Fabio Cubisino) e seconda (Alessia Praticò) voce, entrambe in inglese, finiscono per essere non certo di alto livello e sfiorano una sgradevolezza senza alcun fascino, come chi volesse imitare J Mascis più per necessità che per volontà e Peter Murphy più per superbia che per capacità. Tra le diverse analogie col passato riscontrabili in questo Less Than a Cube, oltre al già citato Alternative Rock anni Novanta (“Blue Grass”, “Revolution”), ritroviamo ritmiche Post Punk (“Dear Secret”) e dilatazioni chitarristiche Gothic Rock (“Not Forget”, Night Song”), reiterazioni Post Rock (“Escape Plan”), accenni Art/Experimental Rock e Slowcore tra Liars e Devastations (“The World On Fire”, “The Dust”) e sferzate Post Hardcore appena accennate (“Monovolt”).

Una marea di riferimenti buttati nel calderone con confusione, senza un preciso punto di arrivo nell’obiettivo, senza palesare alcuna capacità fuori dal comune, anzi, evidenziando una certa banalità d’ispirazione e nessun punto di forza peculiare. Dispiace metterlo nero su bianco ma questa volta il “vecchio” Cambuzat non potrà salvare i suoi figliocci dalla marea di sterilità in cui si sono immersi con le loro stesse mani.

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The Incredulous Eyes – Red Shot

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Una partenza moscia, con mood triste alla “Small Poppies” di Courtney Barnett, più  un nome e un immaginario grafico che rimandano ai Tre Allegri Ragazzi Morti; fatto sta che nella  testa tutte le mie ipotetiche aspettative si concretizzavano in un album dall’attitudine decisamente differente. Red Shot, invece, è un disco che spinge, che  inizia con una serie di tracce corte per poi maturare una complessità musicale in constante evoluzione nell’arco delle sue tredici canzoni. Rock di matrice che ricorda a  momenti i migliori Foo Fighters ma che assomiglia soprattutto ai Royal Blood con l’unico difetto di perdersi sporadicamente in qualche malinconico momento nickelbackiano. Musica da sottobosco indie, locali piccoli e sotterranei, concerti bui e bagnati di sudore, un posto di diritto nelle playlist “alternative” di Spotify. Gli Incredulous Eyes riescono a liberarsi anche da tipici stilemi che affliggono il Rock italiano offrendoci un prodotto dalle sonorità totalmente internazionali, impresa non così scontata nella nostra penisola, senza compiere nulla di eclatante ma presentandosi con un album di ottima fattura.

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Esercizi Base per le Cinque Dita – Disboscamenti

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Ho scoperto questo nome quasi per caso, su consiglio di un amico con il quale si parlava di canzoni tristi, malinconiche, angoscianti e funeste. Ho cercato di capire chi si celasse dietro ad un appellativo tanto strano ma le notizie erano sfuggenti e la stessa biografia assomigliava più a un esercizio di stile sarcastico che non a una vera descrizione dell’artista. Ho ascoltato il disco omonimo e ne ho apprezzato lo stile diretto, i testi provocatori e aggressivi, pieni di giochi di parole pungenti e ben supportati da un sound energico seppur minimale e quasi Lo Fi, con chitarre graffianti e sezione ritmica aggressiva. Ho ascoltato (le prove di zenobio) ed ho assistito a un deciso cambio di direzione, con un suono non troppo dissimile ma più attenzione agli arrangiamenti e soprattutto con una maggiore scrupolosità nella parte vocale, sia testuale sia musicale. La vera svolta arriva con Dalle Viscere, uscito nel 2013. Il Rock vigoroso e incontenibile dei primi Ep lascia spazio a una più deprimente miscela di Folk, Lo Fi, Slowcore; la voce si rinnova in maniera netta, volutamente monotona, sommessa, abbattuta. Il disco non ha niente di troppo originale, non sembra essere nulla che non si possa evitare di ascoltare eppure ha qualcosa che affascina oltremisura. Ogni brano parla di disperazione, suicidio, tristezza, dolore e ogni altra sventura umana in maniera talmente diretta e coercitiva che quasi pare un derisorio gioco di esorcizzazione del tormento. Credo di non aver mai inteso trattare un tema come la disperazione in modo tanto ingente. Questa era la forza di Esercizi Base per le Cinque Dita, la sua capacità di affrontare un tema delicato in maniera grottesca, quasi irreale, affogando le parole in un sound devastato come le frasi che recita, con uno stile vocale peculiare e incisivo. Partendo da questa premessa, la curiosità verso Disboscamenti era ovviamente tantissima ma con essa la consapevolezza che non sarebbe stato facile continuare il percorso di allontanamento dal sound convenzionale degli esordi eppure evitare un accanimento su quello stile velenoso che caratterizzava Dalle Viscere. C’è ancora un tema centrale nell’opera; questa volta si canta l’assenza, intesa come malinconia, segregazione, confusione, rimpianto, inquietudine e disorientamento. La cosa lascerebbe supporre una specie di capitolo due alla scoperta delle miserie dell’animo umano ma, come vedremo, Esercizi Base per le Cinque Dita riesce al tempo stesso a dislocare dal passato senza però arrivare a tagliare di netto i legacci che lo strozzano a se stesso. Più attenta la cura del suono e degli arrangiamenti, evidentemente grazie al lavoro di Giovanni Mancini, produttore artistico del disco, ma anche grazie all’aiuto di Matteo Panetta al violino, di Luciano Cocco alla batteria e di Simone Alteri alle chitarre. Sono introdotti elementi elettronici e Giovanni Spaziani (è lui l’uomo dietro al moniker) non ha paura di osare, con brani inquietanti e certamente fuori dal comune alternati ad altri indiscutibilmente più sbottonati e conformi agli standard del cantautorato più apprezzato. I punti di riferimento restano gli stessi del passato, De André, De Gregori, Dalla ma stavolta sembra aggiungersi lo stesso Esercizi Base per le Cinque Dita tra le influenze, cosa che può essere vista sia positivamente, come consapevolezza di uno stile personale e ben riconoscibile ma anche come un’incapacità di rinnovarsi davvero con adeguatezza. Disboscamenti è sicuramente il lavoro più curato della sua produzione, solitamente molto grezzo nei suoni, ma stavolta quell’indigenza non lascia crepe nel sound; Disboscamenti è però anche il lavoro più problematico, con l’obbligo incombente di superare il passato e queste difficoltà finiscono per delimitare i termini stessi del disco. Quasi tutti i brani sono un riassunto delle esperienze passate, quelle più Rock degli esordi e quelle più Slowcore degli ultimi tempi e l’impressione è che, anche nei testi, Esercizi Base per le Cinque Dita non abbia lo stesso mordente, con alcune forzature stilistiche di basso livello. Se dunque è evidente una crescita da un punto di vista estetico quello che viene meno è lo spirito di chi canta, come se non credesse davvero a ciò che sta cantando e, per il suo stile che punta moltissimo sull’empatia, è un chiaro punto a sfavore. Un’opera che va certamente ascoltata con attenzione, che io stesso sto ascoltando diverse volte e che mi fa mutare opinione ad ogni ascolto ma che, forse, poteva essere molto di più di quello che non sia in realtà. Se tre anni fa, Esercizi Base per le Cinque Dita aveva tanto da dire, ma non sapeva bene come farlo, ora sa esattamente come fare, ma non sa bene cosa dire.

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Nadj – Ep

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Dopo diversi lavori alle spalle, tra cui l’ottimo Lp del 2007 e il comunque interessante L’Oeuvre au Noir del 2012, torna la francofona Nadj con un Ep che prova a rispolverare lo spirito di un tempo senza troppa convinzione, a dirla tutta. Con una vita fatta di musica che ormai supera i due decenni, il suo stile è sempre stato contraddistinto da una notevole astrattezza e da una continua ricerca di indipendenza sonora che l’hanno portata a scegliere sempre la strada dell’autoproduzione, pur, in questo caso, con la collaborazione di artisti membri del ben noto Il Teatro degli Orrori e la presenza non invadente della piccola ALMeidA, creatura della stessa Nadj del resto. Tutte le premesse lasciano supporre un lavoro stimolante, decisamente fuori dagli schemi e con notevoli spunti d’interesse eppure l’ascolto lascerà ben più d’un sapore amaro in bocca. Le quattro tracce fanno una fatica pazzesca ad amalgamarsi tra loro, creano un sound confuso, in cui elementi Blues e Grunge si mescolano al più classico Alternative Rock anni 90 ma senza mai scorrere in maniera fluida e gradevole ma piuttosto arrancando mal supportati dalla voce monotona e quasi cacofonica di Nadj e del suo francese fuori luogo. Sembra aprirsi in un demoniaco Avant Folk l’Ep quando partono le prime note di “Le Ciel de Nuit” ma il brano non prende mai consistenza, risolvendosi nella più completa banalità sonora. Non fa meglio la successiva “Le Fièvre” che dovrebbe garantire una certa potenza senza riuscirci mentre saliamo leggermente di livello con “Le Lion” che tuttavia resta di una insipidezza e d’una prevedibilità imbarazzante. Assolutamente senza senso l’ultima traccia, “Toutes les Fountaines”, buona solo a complicarci la comprensione d’un Ep che faccio davvero fatica a giustificare.

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La Belle Epoque – Il Mare di Dirac

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Disco d’esordio per il quartetto bergamasco, registrato in presa diretta “come una volta”, in un’unica, grande sala di ripresa: Il Mare di Dirac si copre così di una patina retrò e una sensazione di coolness indefinibile ma gustosa. Questa sensazione fresca aleggia su molti dettagli di questo disco breve, compatto, focalizzato: otto brani di un Rock non eccessivamente originale ma dipinto con accuratezza, dalla sezione ritmica che spinge sempre avanti alle distorsioni taglienti il giusto, passando attraverso accortezze melodiche raffinate, sia nelle linee vocali che negli inserti di piano o di chitarra. Bastano pochi ascolti e i brani si piantano nel cervello con facilità, sempre in bilico tra l’estremo del “pestone” anni 90 (“Icaro” ha un inizio che richiama “Tell Me Marie” degli One Dimensional Man) e la raffinatezza Pop degli arrangiamenti e della composizione (la title track, sinuosa e ammiccante). La voce di Luca Boschiroli completa il quadro col suo timbro basso, caldo: perpetuamente effettata, ha una personalità d’altri tempi, e le liriche, che vivono di scarti e ellissi, d’indeterminatezza e approssimazione, ne guadagnano, diventando un flusso sonoro che riempie lo spazio e il tempo in modo semplice ma puntuale, dalle pause oculate, senza strafare, in un andamento vago e ipnotico. La Belle Epoque riesce a ritagliarsi un suo spazio grazie alla precisione del lavoro, all’eleganza del sound, alla misura con cui gestisce gli elementi che compongono i brani. Quando non vi andrà di cercare l’originalità a tutti i costi, quando avrete voglia, semplicemente, di ascoltare dell’ottimo Rock alternativo e un po’ nostalgico, diretto e suadente insieme, Il Mare di Dirac sarà il disco che vorrete avere nelle orecchie: non vi deluderà.

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Le Chiavi del Faro – Dentro

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Arrivano da Gubbio i tre Le Chiavi del Faro, che con il nuovo full length Dentro cambiano leggermente rotta rispetto al precedente La Furia degli Elementi. Le coordinate base sono le stesse: una carica strumentale notevole, una libertà compositiva invidiabile, che poco si piega a certezze aprioristiche ma, al contrario, volteggia tra storture e sfuriate, tra stacchi sorprendenti e riprese secche, crude, taglienti, tra stilettate di derivazione Funk, riff acidi di chitarra, aperture melodiche e sconvolgimenti ritmici. Di diverso c’è la coesione che stavolta si intuisce tra un brano e l’altro: Dentro è più focalizzato e convinto, meno sbavato, con un’intenzione più chiara e diretta, che di certo migliora la fruibilità dell’intero disco e che rende più convincenti e solidi anche i singoli brani. Si perde qualcosa, magari, in “magma”, in follia e diversità, ma si guadagna in compattezza e, comunque, il prodotto finale rimane caleidoscopico quanto serve per avere una sua personalità (vedi il piacevole diversivo di “Plastiche, l’Inventario”, o i saliscendi de “La Cura dei Cori”, per esempio). Non mi riesco invece ancora a convincere rispetto alla voce e ai testi. Il cantato è migliorato, pur con qualche scivolone qua e là, ma l’immaginario è abbastanza neutro e per la maggior parte i testi paiono senza un vero gusto, con poca inventiva. È anche vero che siamo nel campo del Rock e sento già alzarsi il coro dei “chissenefrega”. Rimane il fatto che si poteva avere un boost di senso che qui manca. Le Chiavi del Faro si conferma comunque un ensemble interessante e dal gusto piacevolmente libero, che sa anche farsi carico di questa libertà e portarla fino in fondo, questa volta con un controllo più saldo e una piacevole coerenza. Manca ancora qualcosa, ma Dentro è già un salto evolutivo importante.

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Top 3 Italia 2015 – le classifiche dei redattori

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I tre migliori dischi italiani di quest’anno secondo ognuno dei collaboratori di Rockambula.
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Motherfucker – Confetti

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La vera dichiarazione d’intenti di questo nuovo album della band ateniese Motherfucker è racchiusa nell’immagine di copertina, in cui, disteso sopra un freddo parquet, giace un braccio inerme, ricoperto di sangue, coriandoli e brillantini superstiti di una festa e un tatuaggio che recita don’t quit, non smettere. Se il messaggio concettuale nascosto in questa visione può essere interpretato sotto diversi punti di vista e lasciamo a voi scegliere la strada dell’ironia e sarcasmo dello show must go on o quella di una rabbiosa lotta alla rassegnazione, da un punto di vista stilistico tutto è più chiaro. In Confetti, come nella sua cover, si miscelano colori e note che potremmo definire speranzose ma anche il suo contrario. Dunque, una certa violenza sonora è squarciata da una continua ricerca melodica, la voce meccanica e fredda danza con ritmiche che martellano cercando di non fracassare nulla. Il sound nel suo insieme è insipido, con una registrazione non sappiamo quanto volutamente grezza. Rinuncia a ogni sorta di sperimentazione, mette da parte il possibile lato Psych Rock facendo scivolare la sezione ritmica dietro la voce e punta dritto alla creazione di brani che possano suonare tanto crudi quanto digeribili. Con lo sguardo rivolto agli anni 90 del nord est statunitense, i Motherfucker provano a tracciare lo stesso solco di band come Cloud Nothings o Japandroids capaci di miscelare, con ottimi risultati, Noise e Pop ma qui, non solo è diverso il punto di partenza che è piuttosto da fissare nel Post Hardcore classico albiniano, ma anche il risultato è ben lontano da ciò che ci si sarebbe aspettati. Il grosso limite di Confetti non è nell’evidenza di queste intenzioni, ma piuttosto nel non essere riusciti a chiudere un cerchio che potenzialmente poteva avere un senso. Portare un genere tanto brusco e violento come quello degli Shellac a un pubblico magari meno propeso a certe ruvidezze, sarebbe stata una buona scelta ma quelli che dovevano essere i punti chiave, quindi ganci, melodie, vocalità, ritornelli e riff alla fine suonano come tentativi malriusciti di ottenere qualcosa di esclusivo. Quando Erika Rickson (drums), Erica Strout (guitar) e Mandy Branch (bass) pestano i piedi sull’acceleratore o creano strutture strumentali deformi il sound acquista corpo e credibilità ma è proprio nel momento in cui entrano in scena quelli che dovevano essere i momenti di svolta che lo scheletro crolla su se stesso. Prendiamo ad esempio la seconda parte di “I Want the F”. La reiterazione chitarristica stordita da una batteria morente alternata alle sfuriate più old style s’interrompono proprio quando ci aspetteremmo una scarica di violenza e a quel punto, se la scelta delle ragazze greche è quella di non forzare la mano sul lato brutale ma piuttosto di alleggerire il suono, non è certo sufficiente ridurre i tempi, abbassare i volumi e frenare. Quello che poteva essere un cazzotto in pieno volto sferrato dalla donna più bella che abbiate mai visto, si risolve in una tirata di capelli e qualche gridolino. Un album violento per gente non violenta.

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Jesus Dies Alone – Jesus Dies Alone

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James Rossetti (alla voce) e Marco De Masi (a tutto il resto: chitarre, bassi, sintetizzatori, cori), dopo avventure varie sotto altrettanto vari moniker, si stabiliscono definitivamente nella nuova casa Jesus Dies Alone con l’esordio omonimo, porta d’ingresso di un palazzo sintetico e polveroso, oscurato da uno spleen onnipresente e accidioso. Voci strascicate, basse, in un mare di sintetizzatori e batterie finte che creano una penombra che rischia troppo spesso di risultare posticcia e poco a fuoco. Le canzoni ci sono, anche se non sorprendono né innovano nulla; le movenze sono mimetiche, tendono a farsi dimenticare, e i suoni non catturano, non conquistano. La voce pure c’è, o almeno ci prova, ma non riesce (nemmeno lei) a superare la china e a farsi trovare oltre un orizzonte che, dietro la bruma, s’indovina ancora lontano. Un disco che fa il suo senza risultare particolarmente geniale, che dimostra quel tanto di stoffa che può bastare per non risultare fastidioso, senza però quel valore aggiunto che gli farebbe superare con un salto la mera sufficienza.

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Malamadre – Malamadre

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Il progetto Malamadre giunge a coniugare note e matite: il trio abruzzese, infatti, muta gli undici episodi che compongono il disco in una webserie di fumetti musicali, coinvolgendo autori e disegnatori e sconvolgendo il concetto di semplice trama sonora. Un palmares ricco di riconoscimenti nonostante una vita artistica tutt’altro che longeva è il loro biglietto da visita. “Olio”, la prima traccia dell’album, consente alla band di vincere il premio come Miglior Voce al Red Bull Tour Music Fest, Miglior Voce a Streetambula Music Contest e il Pescara Rock Contest, consentendo ai Malamadre di aprire agli Afterhours nella loro data pescarese. Il brano ha un sound attinto dal Grunge, con aperture bucoliche create dal nulla dalla voce di Nicholas Di Valerio. “Chi non Muore si Risiede” prosegue su questa scia e al genere cantautoriale si somma il vigore di Soundgarden ed Alice in Chains. La ballata “Mammarò” e la successiva “Il Tango del Portiere” sono unite dall’invisibile collante della rassegnazione, con testi tristi che ci raccontano di vite al tramonto, senza cadere nella facile retorica. D’ora in avanti sarà tutto un batti e ribatti: a un pezzo simil Pearl Jam risponderà una parentesi con un approccio più bilanciato, spesso e volentieri con risvolti acustici. Racchiudere simili concetti e idee in undici brani mostra una spiccata autostima, nonostante sia ben contenuta, non scivolando mai nell’emulazione o nel plagio più becero, preservando una propria identità. Disco da ascoltare e riascoltare.

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June and the Well – Gudiya

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Seconda prova per i June and the Well, creatura sognante fatta di Rock emozionale, colori nineties e melodie carezzevoli. I quattro, capitanati da Luigi Selleri, già con i Suburban Noise, si lanciano in sei brani per quasi venticinque minuti di chitarre distorte ma morbide, batterie agili e un cantato (in inglese) dolce e dall’apparenza spensierata, nonostante il disco sia dedicato ad una bambina indiana vittima di violenza, di cui la title track porta il nome. Il lavoro ha il pregio della leggerezza: è un album breve e rilassato, che anche sulle batterie più appuntite si fa trovare liquido e scorrevole, anche sotto le chitarre più spesse fa affiorare una melodia trascinante, comoda, suadente (come esemplifica bene “S-low”, con un’apparizione di Matilde Davoli). Nostalgico, certo, ma non senza una rilassatezza di fondo che lo rende un ascolto piacevole e frizzante, per quanto disimpegnato. In più suona decisamente bene, che non è un male. Da ascoltare nelle domeniche di sole, malinconiche a tradimento.

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