Lankum – False Lankum

Written by Recensioni

Il quarto album della formazione irlandese ribalta i capisaldi della tradizione in una formidabile prova di audacia.
[ 24.03.2023 | folk, drone, experimental | Rough Trade Records ]

Ci vuole molta personalità – e soprattutto una generosa, ammirevole dose di coraggio – a scegliere come traccia iniziale di un album un pezzo che probabilmente qualsiasi altra band avrebbe destinato ai titoli di coda, ai saluti finali.

False Lankum sembra iniziare dalla fine o, per meglio dire, inizia effettivamente da una fine.
In Go Dig My Grave si narra del suicidio di una ragazza straziata dalle pene di una passione tormentata, uccisa da un sentimento non più corrisposto. Una colomba bianca posata sul suo petto come suo ultimo disperato desiderio, nell’angoscioso tentativo di far sapere al mondo intero solo una cosa: “sono morta per amore”. Si tratta di una rivisitazione dell’omonimo brano già inciso da Jean Ritchie nel 1963, qui interpretato in una versione ancor più lugubre ed inquietante.

Il brano spicca per il cantato solenne e funereo che rievoca il leggendario pianto delle banshees, l’antico rito funebre irlandese del “keening”, una forma tradizionale di lamento per i defunti. La sensazionale voce di Radie Peat è accompagnata da pesanti rintocchi e suoni ostili, con un crescendo che si sviluppa in otto minuti sino a raggiungere la sinistra intensità di una colonna sonora tipica di un film horror.
Gli intenti appaiono quindi chiari, fin dal principio.

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Giunti al loro quarto capitolo, i Lankum tingono di nero le proprie sonorità e si spingono all’estremo nel percorso già intrapreso con il predecessore The Livelong Day, pubblicato nel 2019.

Il quartetto di Dublino, già noto per la sua abilità nel mescolare alternative folk tradizionale e musica popolare ad elementi drone e suggestioni gotiche, compie un ulteriore importante passo in avanti nel proprio instancabile processo di sperimentazione.

In False Lankum è presente un intero, straordinario universo di ombre che sembra continuamente voler emergere ed imporsi su ogni cosa. Un disco lungo e denso in cui predomina una percezione straniante, un approccio quasi ipnotico e spirituale e quel violento, disturbante conflitto continuo fra melodia e distorsione che rende vivo e vicino più che mai il paragone con un capolavoro contemporaneo di rara bellezza: Double Negative dei Low.

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Ciò che in superficie è dolcezza e quiete si trasforma gradualmente in minaccioso presagio, come un temporale lontano che incombe su una giornata apparentemente priva di nubi, quasi a voler richiamare la tipica instabilità del clima della magica terra d’origine dei membri della band.
Ne è perfetto esempio Clear Away In The Morning, meravigliosa ballata folk caratterizzata da un’esemplare armonizzazione di soavi voci che si intrecciano in contrasto con un tappeto di suoni che si fanno via via sempre più spettrali.

Ed è proprio il contrasto uno dei punti di forza dell’album, un continuo gioco tra passato e presente, tradizione ed innovazione, luci ed ombre, delicatezza e ruvidità.

È una vera e propria sfida cercare di non cedere al fascino della peculiarità di un pezzo come Master Crowley’s. Immaginate solo per un attimo, durante l’ascolto, di trovarvi seduti al bancone di un pub dove un complesso sta eseguendo dal vivo un pezzo di musica tradizionale irlandese, di uscire per una boccata d’aria e sentire in lontananza, dall’altra parte della strada, il beat ossessivo e ovattato proveniente dall’ingresso di un club.

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Un’opera che, pur essendo indubbiamente ispirata e ricca di idee eterogenee, riesce a risultare in ogni momento estremamente legata e compatta: pensiamo allo spirito punk dell’irresistibile versione di The New York Trader, contrapposto alla malinconica dolcezza di Newcastle e Lord Abore and Mary Flynn, o ancora all’introspezione darkeggiante di On A Monday Morning. Attitudini differenti che confinano e si completano come diverse sfaccettature di un diamante.

Sembra quasi impossibile poter dire, nel 2023, di aver trovato un album che suoni “nuovo”, che funga da spartiacque e si discosti da qualsiasi plausibile classificazione in una miriade di generi, lontano anni luce da qualsivoglia moda del momento; un concetto che appare ancor più paradossale se si parla di un disco che in 70 minuti e 12 tracce può contare solo due inediti – Netta Perseus e The Turn, frutto della penna di Daragh Lynch.

Una sensazione che forse non proviamo spesso ultimamente, persi in un mondo di contenuti fin troppo facilmente accessibili e al limite della saturazione.
Nel suo tentativo di riportare alla luce (o gettare ombra) sulla memoria, False Lankum è un gioiello che risplende di una magnificenza unica e l’impressione è che, come ogni tradizione che si rispetti, difficilmente verrà corroso dal passare del tempo.

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Last modified: 26 Aprile 2023