Cap’n Jazz, vent’anni di “Analphabetapolothology”

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(1998, Jade Tree Records)

Analphabetapolothology. An[alphabetapolo]thology. Quante volte abbiamo rinunciato ad imparare il titolo di questo disco senza renderci conto che dentro c’è nient’altro che la parola “anthology”, descrizione concisa di quel che è l’album? Io sicuramente molte, salvo poi scoprire che, per i Cap’n Jazz, l’abitudine ai titoli estremi trova le sue radici qualche anno prima, nel ben più impegnativo Burritos, Inspiration Point, Fork Balloon Sports, Cards in the Spokes, Automatic Biographies, Kites, Kung Fu, Trophies, Banana Peels We’ve Slipped On and Egg Shells We’ve Tippy Toed Over (comunemente ricordato come Shmap’n Shmazz). Dopo la puntata dedicata a The Lonesome Crowded West, l’anniversario musicale di questo mese torna ancora nel Midwest, ancora negli stessi anni in cui i Modest Mouse muovevano i primi passi.

Analphabetapolothology esce ufficialmente l’8 gennaio del 1998, a quasi tre anni di distanza dallo scioglimento della band, attiva dall’89 al ’95, ma sarà questo disco – più che Shmap’n Shmazz – a consolidare la fama ma soprattutto l’influenza che la band ha avuto su tutte le scene Emo a venire. Una vera e propria antologia che contiene tutta la musica incisa dai Cap’n Jazz e che, nella schizofrenia delle sue 34 tracce, ben rappresenta lo spirito della band, l’impronta di un talento senza controllo ma che trova la sua razionalità nel perfetto equilibrio tra Noise irrequieto e momenti di brillante lucidità.
Il primo ascolto di Analphabetapolothology è sempre un’esperienza memorabile: la prima impressione è quella di trovarsi di fronte a una jam tra amici. Il riordino delle geometrie avviene dopo qualche ascolto, quando la rozza sinergia di chitarre e basso rivela degli schemi studiati e una chiara ricerca compositiva dietro a un sound volutamente imperfetto, che per sua natura deve molto alla tradizione Post Hardcore ma che strumentalmente ripiega sia sul Noise che – distintamente – sul Math Rock, lo stesso che il batterista Mike Kinsella riutilizzerà qualche anno dopo negli American Football e che molte band della attuale ondata Emo (Foxing, The World Is a Beautiful Place & I Am No Longer Afraid to Die) hanno ereditato dai Cap’n Jazz. Musicalmente, molto dell’Emo (e del Pop Punk) nasce qui.

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La metà degli anni ’90 è anche l’era della nascita del Pop Punk come lo conosciamo adesso, e il frontman Tim Kinsella ne è cosciente: la caratteristica più eclatante che separa i Cap’n Jazz dal Post Hardcore è la sua voce; certo, le urla ci sono e sono protagoniste nei brani più Post Hc come “In the Clear” e “Que Suerte!”, ma il timbro di Kinsella è, quasi sardonicamente, quello del Pop Punk. A differenza di quello di band come i Sunny Day Real Estate il suo è orgogliosamente stonato, quasi infantile, a tratti farneticante: la firma definitiva dei Cap’n Jazz è nella voce e nelle parole di Tim Kinsella, nel disordine di testi che a tratti sembrano improvvisati, a tratti deliranti e in entrambi i casi potrebbero essere semplicemente genio in azione. “Bluegrassish” non dice altro che Boooys kissing boooys lasciando all’ascoltatore la scelta tra il nonsense e il significato nascosto; “Tokyo” è uno spoken word psichedelico in cui la naturalezza del flow di Kinsella è quasi spaventosa*; e poi c’è “In the Clear”, che a metà pezzo si interrompe per recitare l’alfabeto (quello del titolo?), salvo poi urlare un LOST! quando arriva il turno della elle: quello è genio.

Tutta la ‘discografia’ contenuta in Analphabetapolothology non è che questo: genio e sregolatezza, ma anche quella sregolatezza ha in sé del genio; non è casuale, ma è prima di tutto una dote innata frutto di un’incredibile sinergia tra quelli che oggi consideriamo i padri dell’Emo, e che a qualche anno di distanza da Shmap’n Shmazz daranno vita o parteciperanno a progetti come American Football, Owls, Joan of Arc, The Promise Ring e Owen. Com’è successo con gli American Football, anche i Cap’n Jazz sono stati riscoperti ancora di più col tempo, soprattutto con l’ondata Emo degli ultimi anni che li ha anche portati a una reunion, eppure la loro influenza è chiara e imprescindibile, sia nei casi più espliciti che in quelli meno eclatanti (vi ricordate i We Are Scientists? Be’, il nome della band è un prestito da un pezzo dei Cap’n Jazz).

Chiudiamo con una domanda: perché ad essere ricordato è molto più spesso Analphabetapolothology, che è un’antologia, e non Shmap’n Shmazz? I motivi potrebbero essere molteplici: la disponibilità materiale del disco può averne influenzato la diffusione; o forse Analphabetapolothology è un disco più ‘completo’? O forse proprio perché Analphabetapolothology esce nel momento giusto: il periodo di fioritura del Midwest Emo, dunque il momento perfetto per ridare luce ad una band la cui fama si era consolidata sempre più in quei tre anni di assenza dalle scene.

[*PS: quando hanno suonato “Tokyo” al reunion show di Londra Tim ha dovuto cercare il testo su Google. Il resto del concerto l’ha passato a fare crowdsurfing o a lanciare strumenti al pubblico. Ma questa è un’altra storia.]

Last modified: 15 Marzo 2019