Recensioni

Matteo Toni – Santa Pace

Written by Recensioni

Ancora una volta, la parte “specializzata nella creatività” dell’alternative che pulsa in casa nostra, fa il punto della situazione sul proprio stato di salute e per questo giro mette in mostra – come risultato certificato della eccellente salubrità –   un disco di cui se ne parlerà molto, non per chissà che cosa, solamente perché è stramaledettamente impostato sulla bellezza al quadrato.

Il musicista modenese, chitarrista e poeta nudo e crudo a modo suo,  Matteo Toni,  porta il suo disco ufficiale “Santa pace” – dopo il buon esordio di Qualcosa nel mio piccolo del 2010 – all’attenzione alta delle belle pagine sonore che da sotto il pandemonium underground covano brace e delizia senza ritegno alcuno; non sono parole dettate da una fugace emozione, ma parole che sono inchiodate da una audizione controllata dopo che le tracce – queste passate sotto il lettore –  hanno “imbambolato” letteralmente stomaco e testa in un delirio amniotico senza precedenti. Una chitarra slide, tutte le sbavature di un progetto condiviso con Giulio Martinelli alla batteria e prodotto da Antonio “Cooper” Cupertino e i cantos elettrici, pervasi ed impossessati da una carica visionaria di cantautorato e acidità blues che dialogano con le sabbiosità del Mali “Alle quattro del pomeriggio”, interagiscono con un pop meticcio “Isola nera”, soffiano nell’intimità desertica “Fidati” come con i dondolii carribean “Santa pace”, Piu, Samuel Katarro e Ben HarperMelodià” che si incrociano e salutano con fare affettato attorno ad una atmosferica mai occasionale.

Difficile scegliere qualcosa prima dell’altra dalla scaletta, tutto rappresenta la parte più originale dell’album, è un continuo sprigionare di arie rarefatte e tremolanti che fanno ping pong tra una poesia chiave e stimolazioni loner “Acqua del fiume”, pura psichedelica splendidamente orientata verso fascinazioni nere, elementi di comunione aspra, dolce e cantautorale off; Matteo Toni è un ectoplasma in carne ed ossa, vive e si muove ai borders del buio più luminescente che ci possa essere in giro tra i giri “non ufficiali” della musica “altra”.

Read More

Tindara – Quando parlo urlo

Written by Recensioni

I Tindara sono un progetto nato nel 2009 dalla mente di Terenzio Valenti che concretizza dopo tre anni il sogno di ogni rock band: realizzare il primo disco con l’aiuto di un musicista famoso.
Il nome in questione in questo caso è niente poco di meno che Luca Bergia, batterista e fondatore dei piemontesi Marlene Kuntz, produttore artistico insieme a Riccardo Parravicini; inoltre il gruppo è seguito anche dal manager e produttore Toto Maisano.
Le premesse insomma ci sono tutte e, diciamocelo, “Quando parlo urlo” non tradirebbe le aspettative nemmeno del più scettico degli ascoltatori.

Raro infatti trovare sonorità così fresche in Italia, che si rifanno spesso oltre che ai già citati Marlene Kuntz a gruppi americani quali i Violent Femmes e i meno noti Days of the news.
Persino l’artwork a cura di Riccardo Barra appare azzeccatissimo ed intrigante con titolo in bianco, nome della band in giallo e canzoni elencate tutte in bianco fatta eccezione per la prima lettera della prima canzone e l’ultima dell’ultima traccia (scusate il gioco di parole) riprendendo una moda lanciata trent’anni fa dai Duran Duran nel loro disco di esordio, quando Malcolm Garrett decise di colorare poche lettere di rosso per dare un tocco di vivacità al tutto.
Registrato interamente presso il Modulo studio a Cuneo, “Quando parlo urlo” si apre con “Come dici tu”, che tratta della disperata ricerca di un lavoro da parte di una persona come tante spesso giudicata senza far troppi complimenti.
Con “Ho scelto il nero” inizia invece un filone di rock più marcato stile Verdena che prosegue nella più pacata “Sopra la delusione” che vede anche la collaborazione al violino di Davide Arneodo, che suona anche il mandolo elettrico in “Come dici tu”.
L’ arpeggio iniziale di chitarra di “Quando parlo urlo”, molto delicato e raffinato, è invece il tocco di classe, la ciliegina sulla torta che ancora mancava, che ben si incastra al resto degli strumenti e a liriche emozionanti.
Il rock riprende poi il sopravvento in “Stones”,  per poi lasciare spazio a “Un minuto” canzone che evoca la pace in un minuto di silenzio quale massimo desiderio.
“Sogna che ti passa” descrive invece l’adolescenza attraverso l’incontro di un lui scalpitante ed acerbo e una lei vanitosa “che preferiva lisciarsi allo specchio”.
“Schiuma” è ciò che succederebbe secondo me se Giuliano Sangiorgi dei Negramaro e Manuel Agnelli degli Afterhours collaborassero per scrivere una canzone (tale esperimento potrebbe anche apparire assurdo, ma i Tindara riescono nell’impresa di concretizzarlo grazie a un uso indovinato dei synth e di un basso che si lascia andare in perfette scorribande sonore).
In “Vescica” poi emerge l’anima più grunge del gruppo attraverso un cantato urlato degno del grande e compianto Kurt Cobain e quella più stoner attraverso le chitarre distorte più che mai.
“Upupa” è l’unico strumentale del disco, col solo ruolo di fare da preambolo alla conclusione che avviene con l’aggressività di “Consapevolezza”.
Un’ottima prima prova che miscela alla grande rock, grunge, stoner e pop senza deludere mai.

Read More

Flowers – Monna Lisa Store

Written by Recensioni

Dentro c’è tutto: indie, brit, pop, grattini sixsteen e una grande facilità di calarsi nelle antenne musicali di tutti, di molti, una mezza freschezza che arriva da lontano, magari anche dietro l’angolo. “Monna Lisa Store” è il disco dei Flowers, fiori elettrici della provincia di Piacenza che  – alla faccia delle differenze climatiche – portano i calori “stemperati” di Terra d’Albione fino dentro i nostri riproduttori di suoni, quella compagine sonora che tanto a riversato nelle planimetrie amplificate di mezzo mondo, ma appunto sono storie passate, già appartenenti agli annali della storia e dunque tanta energia adoperata dai nostri Flowers all’interno di questa tracklist – ottima e carboidratica –  potrebbe apparire poco giustificabile se non addirittura troppo “adesiva” alle forze originali, ma se non si hanno poi velleità a comparire tra i primi della classe, tutta va bene e tutto fa brodo, anche un disco “omaggiante” –  che so –  a band come Supergrass ai velenosi fratelli Gallagher può starci.

Cantato in inglese, il lotto è tuttavia responsabile di una bella ambientazione di gruppo, collaudatissima l’architettura generale della timbrica e degli arrangiamenti, a tratti vintage con un bella passata di Hammond “Let me”, la “passeggiata sulle coste di Dover” in compagnia appunto dei SupergrassFour in a row”, “It’s gonna be all right”, bellissima la Oasisiana ballad che griffa “Just another song”; l’attenzione dell’ascolto va comunque alla capacità di assemblare una stilistica rinata all’insegna della rivisitazione perfetta, alla accentuata bravura di creare una vera “sinfonia all english” nel giro di pochissimi minuti e di catturare la simpatia dei più refrattari con polluzioni distorte e epilettismi  “Easy to do, hard to explain” o con il birichino caracollare pensieroso e poppyes di “For any time” per la gioia di tutti.

Oltre ad Alex, Steve, Mel e Mark, partecipano all’avventura anche Andy McFarlane (Rock’n’roll Kamikazes) e Paolo “Apollo” Negri (Link Quartet) e quello che alla fine ne viene fuori è un disco estremamente comunicativo, agli antipodi del nuovo, ma che applica vistose macchie di bel colore su di un panorama musicale vuoto di tutto, pieno di niente.

Read More

Terza Pietra Del Sole – Tutto Sotto Controllo

Written by Recensioni

Da varesino, riconosco di padroneggiare ben poco circa il panorama musicale della mia città.
Vuoi perché l’unica etichetta indipendente promuove soltanto gruppi extra-varesini, vuoi perché, lo ammetto, mi sono interessato poco al panorama musicale offerto dalla mia tanto amata cittadina perché sempre considerato “provincialotto”, non tanto per l’estensione della stessa, quanto perché conosco i varesini fin troppo bene…

Sbagliatissimo!

Tant’è che i Terza Pietra Del Sole (Band varesina, appunto, composta di tre giovani ragazzi: Elisa, Niccolò e Francesco) sono riusciti a farmi rivalutare non solo la musica offerta dalla Città Giardino ma, in parte, anche il “popolo leghista” che la popola.
Nel loro album di debutto, Tutto Sotto Controllo, che conta dieci tracce, tutte in lingua italiana eccetto l’ultima “My Past And My Present” (Che, se analizzata nel complesso del lavoro, sembra porsi come una sorta di epilogo dello stesso disco) grazie alle quali possiamo assaporare il gusto del buon rock italiano, ben eseguito e, altrettanto bene, registrato si avvertono delle influenze dei grandi del passato. Due nomi su tutti: Janis Joplin e Led Zeppelin.
Questo è sicuramente dovuto anche al passato dei Terza Pietra Del Sole, fatto di numerosi live nei quali sono stati riproposti i brani proprio di questi “grandi”.
Tutto Sotto Controllo è un album che ha come protagonista indiscussa la “persona”, l’io di ognuno di noi, che cresce e si scontra con gli altri, ma soprattutto con se stesso cercando sempre l’appiglio per poter “cambiare le cose” e migliorarle.
È il frutto del nostro vissuto quotidiano, delle nostre gioie e delle nostre sofferenze, che ci hanno fatto diventare quello che siamo oggi, con i limiti e i punti di forza che ci troviamo cuciti indelebilmente addosso; perché, anche se apparentemente ci potrà sembrare, sono molto rari i casi in cui possiamo dire di avere effettivamente tutto sotto controllo.

È molto più frequente il sopraggiungere di quell’imprevisto che ci rovinerà i piani o, per lo meno, ce li indirizzerà verso una “strada non calcolata”.
Questa “indagine sulla condizione dell’uomo moderno” è affiancata da un rock “puro”, che si affianca perfettamente al filo conduttore di tutto il lavoro presentato, rendendolo un tutt’uno omogeneo che raramente si ritrova in lavori di ragazzi così giovani, facendo emergere quella maturità che sicuramente li porterà lontano e che, a volte, non appartiene nemmeno a musicisti “di vecchia data”.
Adesso aspetterò di sentirli suonare live, per capire se anche dal palco riusciranno a far emergere la passione che questo disco sprigiona, facendomi del tutto cambiare il pensiero che ho sui miei “cari”compaesani.

Read More

Three Kings on the Hill – Shindo the new way

Written by Recensioni

Stupendo disco tiratissimo di sangue sui toni del nero fino all’anima questo dei Three Kings on the Hill, “Shindo the new way”, un disco che può contare sugli artigli di una convulsione sonica nerboruta e pulsante, un power granitico accentuato da ascolti e ancora ascolti multipli di gente come Living Colour, RHCP, il Dio Hendrix, Talas e UFO (per dirne alcuni) e che si fanno effluvio di tecnica e passione al quadrato dentro queste tracce che convincono come uno strapiombo sul mare.

I 3KOTH, quartetto di stanza a Berlino e che riunisce Rossano Gabrielli voce, Andrè Erbyeah chitarra, G.Luca Morleni basso e Tomas Hobzek alla batteria, sono  di una compattezza di suono e stile quadrato ottimali, nonchè artefici di una ormonale strutturazione che affida a bridge sincopati e passaggi slappati di basso la sua padronanza basica per fare poi esplodere nel totale delle forze l’intera formazione, l’intera suggestione elettrificata e mai smontabile nemmeno quando la tensione cala per territori più armonici e riflessivi “Indignation”, “Believe in yourself”; undici tracce sempre innescate e presenti nella psicologia di chi ama il ritmo spezzato, quella meravigliosa miscela di funk-rap-metal della migliore tradizione Reid/RodgersHerr kleberstoff (Mr Glue)”, “Horsemen”, stoccate che riportano alla luce cortocircuiti di rimando Shocka ZoolooEach other’s eyes”, fino al regno del pogo invalidante che “People rise” incute, istiga e completa nel suo sacrificale destino di goduria e d’abbandono.

Voce, ritmica, sfumature, epilettismi distorti e fenomenali attitudini a far volare corpi e menti in un gioco a rimbalzo, sono il bagaglio artistico che questa band sintetizza per un piacere diabolico d’ascolto, per una turbolenza a cinque stelle e per una complessa instabilità che non è altro appeal di maestà sonante “Gone forever”.

Read More

Udde – Fog 2012 Ep

Written by Recensioni

I musicisti sono artisti, creativi.
I musicisti non “mettono i dischi”.
I musicisti sognano di farci sognare.
I musicisti non fanno cover, al limite copiano.
I musicisti rischiano di non piacere.
I musicisti non ascoltano Giovanni Allevi.
I musicisti sanno cosa amano.
I musicisti sanno cosa li ucciderà.
I musicisti sanno cantare l’amore e la morte insieme.
I musicisti non sono Amici con l’X-Factor
I musicisti sono puttane che non si vendono.
I musicisti sono ninfomani puttane…

Il polistrumentista autodidatta sardo (di Sassari) che si fa chiamare Udde germoglia musicalmente, col ruolo di chitarrista, nel 2001, quando fonda la band psych-prog wave Soyland Green. Con loro incide l’album promo Final Superstereo ma nel 2010, quando ormai appariva pronta la prima vera uscita discografica, l’avventura s’interrompe improvvisamente. È la fine di un ciclo e l’inizio di una nuova vita. Nel suo studio privato, Udde decide di fare tutto da solo, imbracciando ogni strumento necessario al suo potenziale espressivo e artistico. Lo sforzo compiuto porta alla messa in scena di questo Ep di tre tracce, dall’ emblematico titolo Fog, letteralmente traducibile con Nebbia, 2012. Il suo si presenta subito come un lavoro minimale, già nel confezionamento. Tanto spazio alla musica e poco all’estetica, evidentemente. Eppure la copertina è già qualcosa di strepitoso. Un’affascinante foto in bianco e nero che ritrae un freddo paesaggio metropolitano, in cui si vede confusamente l’avanzata del progresso, sottomessa da una nera nebbia, come una notte fredda e avvolgente. La povertà della foto esprime pienamente le atmosfere gelide che ritroveremo all’interno dei tre brani e per questo si pone come il perfetto punto di partenza per analizzare il lavoro dell’isolano. Per quanto essenziale, la copertina diventa una sorta di amuleto incantatore che mi spinge a un ascolto instancabile. Il primo brano è “Northwestern”. Un pezzo di puro e oscuro Synth Pop in stile Depeche Mode, con una melodia sui generis dal sapore anni ottanta, (non quelli della dance ma della disperazione emotiva dell’underground metropolitano). Un ritmo da Trainspotting soundtrack, al sapore di Londra o Berlino e una melodia appena accennata, che se fosse stata più incline al Pop e meno screziata, avrebbe certamente incantato anche i più scettici. Le diverse stratificazioni sonore si sfiorano e si avvinghiano creando proprio quella surreale atmosfera cruda già assaporata nella copertina. Nella successiva “White Inn” si presenta ancora la sezione ritmica tremante, opprimente, lineare, secca e battagliera, che mette in mostra una certa similitudine con i ritmi mogwaiani, mentre la chitarra schizza riff e assoli di matrice prog e psych rock. Anche nel secondo brano l’atmosfera è tetra e misteriosa e la mescolanza di sintetico e carnale diventa ora la palese prerogativa imprescindibile del sound di Udde. Nell’ultimo brano “Welder’s Flash” si parte con un intro che ricorderà a qualcuno quel folle di Scott Walker, già richiamato più volte nel cantato del sardo. Il resto del brano è invece sulla falsariga del binomio sonico precedente e anzi, diventa più pop e meno audace, grazie a chitarre più chiare e perspicue e una melodia più naturale. Nell’insieme, i tre pezzi riescono ad amalgamare alla perfezione l’inferno del succitato Scott Walker, con le chitarre (a tratti psych-prog seventies, a tratti quasi shoegaze), le sezioni ritmiche essenziali in stile Mogwai, con le atmosfere languide di Brian Eno, presentando l’insieme nella forma più semplice possibile. Sintetico Pop. Assolutamente indovinata la scelta di mantenere quest’ultimo come l’unico elemento portante, attorno al quale ruotano le diverse contaminazioni prog, dark, ambient, psych, post rock. Niente è mai troppo invadente e si evita di mostrare un sound apparentemente incompiuto quando invece la scelta sembra abbastanza precisa. Il tutto suona esattamente come se fosse esattamente quello che Udde voleva suonare. L’unica pecca concerne le melodie vocali. Sembra troppo una via di mezzo. In alcuni passaggi l’orecchio pare pronto ad ascoltare qualcosa di armonioso, che farebbe la fortuna di ogni radio del pianeta, ma nel giro di pochi secondi si vira verso passaggi meno orecchiabili e più macchinosi. In questo modo non è chiaro quale fosse lo scopo e quali siano le reali capacità, in tal senso, del nostro artista. Più semplicemente, le melodie non puntano troppo su facili e orecchiabili accostamenti di note ma, nello stesso tempo, non azzardano mai più di tanto, come per paura di oltrepassare la misura. Siccome vi ho citato Scott Walker, provate ad ascoltare Tilt o The Drift se volete qualcosa di più attuale e forse il mio pensiero sarà più chiaro. Nel complesso, questi pochi minuti, mi hanno aperto la strada per quella che potrebbe essere una bella scoperta da fare a breve, quando sarà finalmente pronto il primo lavoro sulla lunga distanza. Intanto una cosa è chiara. Udde è un musicista, sincero come la nebbia di Londra.

 

…e soprattutto, brutte merde che l’avete mandato al primo posto delle classifiche dei singoli infangando il nome dell’Italia, il Pulcino Pio non è musica.

 

Questa è musica.

Read More

Fabiola Trivella – Soprano in Jazz

Written by Recensioni

Il jazz elegante come petali sul cristallo incontra l’indiscusso talento del soprano Fabiola Trivella per dare vita ad un disco alla riscoperta dei classici italiani del passato, ecco cosa troviamo durante l’ascolto di Soprano in Jazz. Certo, per i lettori di Rockambula è cosa completamente nuova, qualcosa che esce completamente dai canoni della Webzine di musica indipendente, nessuno si aspetta di leggere recensioni di una cantante abituata a cimentarsi con il Madama Butterfly, abituata ad un pubblico da teatro. I festival e concerti rock sono un’altra cosa ma non è detto che l’incontro non possa portare a una fusione positiva e alla conoscenza di un genere completamente sconosciuto al popolo del rock (o almeno alla maggioranza). Fabiola Trivella è una cantante nel vero e proprio senso della parola, le sue espressioni artistiche oltre che a essere frutto di un talento naturale sono perfezionate da anni di studio e approfondimento della materia, l’istinto unito alla tecnica per intenderci meglio. Poi il suo disco ricco di indelebili classici del passato è stato progettato e suonato per arrivare a tutte quelle persone incapaci di spaziare mentalmente, a tutti quelli che hanno paura di guardare oltre il proprio raggio d’azione. Ci troviamo dentro tutta la qualità della musica italiana vintage, da Buscaglione a Luttazzi, e poi filastrocche in jazz come Maramao perché sei Morto? Qualcuno non ha mai canticchiato questa filastrocca?

Poi bisogna menzionare anche i lodevoli musicisti coinvolti nel progetto, Claudio Zitti al pianoforte, Gegè Munari alla batteria, Roberto Podio ancora batteria, Dario Rosciglione al contrabasso, Giorgio Rosciglione ancora al contrabasso, Nicola Mingo alla chitarra, Michele Ascolese ancora chitarra e Massimo D’Avola al sax tenore, sax soprano e clarino. Si sono tanti ma era doveroso nominarli tutti perché sono colonna portante dell’intero disco. La voce di Fabiola Trivella poi lascia addolcire i sensi mandando la mente in confusione totale. Affatto radical chic.

Quindi niente pedaliere indiavolate e testi di protesta, il punk rock questa volta non trova spazio all’interno di Soprano in Jazz della sensualissima Fabiola Trivella. Penso di aver fatto un ottimo incontro con la quale cercherò di confrontarmi il più possibile nel tempo avvenire.

Grazie a Dio esiste la musica Jazz. Grazie a Dio esiste la voce di Fabiola Trivella.

Read More

Non Violentate Jennifer – Non Violentate Jennifer Ep

Written by Recensioni

Non so se vi è capitato di dare una scorsa a quell’articolo di tale Mr. Tambourine (Claudio Delicato, credo sia il suo vero nome) pubblicato sul blog ciclofrenia.it. L’intento era quello di punzecchiare l’indie italiano sviluppando e cercando di dimostrare la tesi che, per costruire un disco di sicuro successo, è sufficiente seguire alcune semplicissime consuetudini. Tralasciare completamente l’aspetto musicale, parlare solo di cose inutili, essere completamente incapaci a suonare, non cantare ma parlare, scrivere canzoni tutte uguali e ideare un particolare curioso completamente a caso. Lasciamo stare il fatto che il testo finisce per essere grossolano e inconsistente, almeno ai miei occhi, tanto quanto tanta della musica che proprio l’articolo aggredisce (mettere nel pentolone i Massimo Volume è oltretutto intollerabile). In realtà, qualche pretesto stimolante lo fornisce. Soprattutto offre a me lo spunto per ciarlare dell’Ep dei Non Violentate Jennifer, trio composto da Zà (voce, piano, organo), Max (basso) e Al Bin (batteria). Partiamo da un punto che manca nell’articolo. Inserite nel nome della vostra band quello di una donna. Piacerà, anche se qualcuno, come il sottoscritto, comincerà una bestemmia lunga fino al 2025 perché non se ne può più di sentire nomi del genere. Marta Sui Tubi, Christine Plays Viola, Non Voglio Che Clara, Valentina Dorme, ecc… (la lista è veramente lunga). Mai che si legga un Bruno Caga Nei Prati, Fausto Scoreggia In Chiesa, Ubaldo Fa Sesso Anale Passivo. Non Violentate Jennifer è, come posso dire, già un modo per partire con il piede sbagliato. Ora, può anche essere vero che il loro sia solo un omaggio al revenge movie I Spit on Your Grave, diretto da Meir Zarchi nel 1978, ma che ne sanno i poveri mortali di queste cose? Lasciamo andare il nome e passiamo alla musica. Quanto questa musica può portare al successo?

Una band che si offre con un Ep cosi disadorno, con poche notizie che circolano intorno, che sembra una bestia difficile da scovare, forse vuole proprio puntare tanto sull’aspetto musicale a dispetto del problema iniziale di cui sopra (più sopra, verso l’inizio). E il punto uno va a farsi fottere. I testi non sono certo banali e semplici e di sicuro non parlano di cose inutili; non puntano su ironia o leggerezza e anzi hanno bisogno di una certa dose di attenzione per essere elaborati oltre il semplice legame musicale con le note. Anche il punto due va a puttane. Sulle loro capacità di suonare è difficile esprimersi. Non sembrano fenomeni ma nemmeno incapaci. Il punto è che la musica si sviluppa per linee estremamente semplici (come ascolterete, questa è la sua forza) e dunque è arduo capire quanto siano validi. Quello che conta è che fanno bene quello che devono fare. Cazzo, se ne va anche il punto tre. Non cantare, ma parlare. Qui, forse ci siamo, perché il modo di cantare di Zà molto capovillano è uno strumento che si piazza in una terra di mezzo che ha anche più probabilità di successo dello spoken word tipico ad esempio di Emidio Clementi (Massimo Volume) o Max Collini (Offlaga Disco Pax) che nel loro modo di vocalizzare hanno trovato il principale ostacolo all’apertura verso un pubblico più copioso. Il successo per Non Violentate Jennifer si avvicina? Basta questo? Purtroppo le canzoni, per quanto mantengano una linea guida abbastanza precisa, non suonano tutte uguali e qui non ci siamo proprio. Infine, per il particolare completamente a caso, non mi sembra di trovare nulla. Forse….anzi…no. Niente.

Volete un bilancio, prendendo per buone le regole sopra indicate? Questa band è molto lontana dal successo. Non hanno niente a che vedere con i compatrioti I Cani, Lo Stato Sociale, Dente, Brunori e compagnia delle indie.

I quattro pezzi sono invece un’interessantissima miscela di sonorità psichedeliche sixties, pesantezza tipica stile di Nick Cave/Nick Drake, energia alla Jesus Lizard nelle loro virate meno estreme, slowcore folk blues come i Black Heart Procession (la band alla quale più somigliano), intermezzi pseudo sintetici, affascinanti note di piano e ritmiche ossessive caratteristiche di un certo post punk vecchia scuola. “Terza Persona”, “Nel Paese Degli Umani”, “Tutto Finisce All’Alba” e “Naufragheremo” sono il perfetto punto di partenza per una band che voglia fare un grande disco, oltre il successo. Quei gioielli che conoscono in pochi e ti fanno sentire figo perché delimitano la differenza tra te e il resto della gente che hai intorno. Forse troppe sono le influenze e poche le idee innovative ma per tutti i quasi diciassette minuti dell’Ep si respira una cupa aria trascinante che ti mette voglia di ascoltare e stare male, ma di quel male di cui abbiamo bisogno per stare bene. È  una nebbia misteriosa, Non Violentate Jennifer. “È un grido rivolto al mondo, è una preghiera, è la richiesta che il mondo si fermi ma già consapevole che questo non accadrà, è una minaccia, un ultimatum alla natura distruttiva dell’uomo, è una condanna ai pochi uomini che si contendono il potere piegando le masse ad una colpevole forma di schiavitù involontariamente volontaria. Non Violentare Jennifer è un urlo disperato che non può fare niente da solo. È un canto di guerra che insieme agli altri può fare tutto”.

Non avranno successo, sono sicuro, perché il pubblico che ti porta al trionfo è un pubblico di merda. Tante delle puttanate dette sopra (più sopra, quasi all’inizio), se ci pensate, sono vere. Fare buona musica non porta alla fama. Ma credo che la cosa non interessi i Non Violentate Jennifer più di tanto. Del resto, ascoltate l’Ep e ditemi se ci vedreste bene un tipico ascoltatore de I Cani, a un concerto dei NVJ?

Read More

ManzOni – Cucina Povera

Written by Recensioni

Ho sudato tanto per far sudare meno mio figlio. Ora, nell’era dei numeri soli con gli zero davanti, lui sa tutto sul comunismo, io so che se sarà fortunato avrò il mio posto”. Questo è quello in cui si barcamenavano i nostri padri, le loro illusioni, sgomenti e realtà spogliate dalla falsità dei luoghi non comuni, anzi spesso mai accostati nemmeno col pensiero. “Cucina povera” è il racconto, i racconti della provincia umile e sottoposta ai riflettenti sguardi del coraggio, ed è il disco di Luigi Tenca e i ManzOni, la formazione veneta che giunge al secondo lavoro ufficiale, una prosaica sequela di stati pensierosi e stranianti che fanno, e lo sono, filo conduttore di una fascinazione opaca e grigia, di quella poetica descrittiva alla Olmi della cinematografia, tracce in cui compaiono come fantasmi ricorrenti le vocalità di un Ciampi, qualcosa dei Madrigali Magri e un fitta nebbia o caligine a seconda dal punto di ascolto, un ascolto che si fa attento al passaggio crepuscolare di questa verginità rozza e magnificente.

Un’ottica secca come un rubinetto d’estate, un voce scandaglia storie di non-lavoro, scarsa salute o per niente, la noia, il deliquio, l’essere padrone di niente ed essere niente sotto un padrone, nove tracce ossessive e amare che, come in un rosario laico, fanno novena sociale ed umana, chitarre, fruscii, meccaniche industriali, rumori ripetuti a ritmo incostante fanno la gloria del registrato, una sonorizzazione off che cammina nei borders dell’anima e di una fisicità emaciata e malata; con Tenca, contribuiscono a colorare di fuliggine questo bel disco Ummer Freguia, Fiorenzo Fuolega, Carlo Trevisan ed Emilio Veronese, e quello che hanno messo dentro questa tracklist è alta narrazione neo-realista, una fluida scheggia di vetro tagliente che scaglia armoniche sensazioni Ferrettiane “Dal diario, a mia madre”, “Scusami”, arpeggia acusticamente tra le volte trasparenti di un Paolo CapodacquaUna garzantina” o si perde galleggiando tra le architetture celestiali alla Steve Howe e dei suoi pindarici voli di corde “Dimmi se è vero”.

Rimane la “ricca” crudezza di un disco che fruga tra le macerie dell’esistente, dello ieri e dell’oggi, scava come una macchina della verità su chiazze di sangue rappreso e di nuove gocce che ne prendono il posto, tracce che “tracciano” non righe da seguire, ma vene turgide che chiedono perdono per la forte e drammatica voglia che hanno di scoppiare.

Read More

Iceberg – Caro Tornado

Written by Recensioni

La tendenza a suonare (registrare) dischi in presa diretta sembra destinata ad aumentare considerevolmente, economicamente è più conveniente e artisticamente ha il suo ricercato perché, la potenza entra nelle ossa lasciando in secondo piano qualche piccola incertezza d’esecuzione. Gli Iceberg lasciano la lingua inglese per debuttare con un disco tutto in italiano registrato in presa diretta e intitolato “Caro Tornado”. L’idea è quella di trasmettere l’irruento impatto delle live performance, il risultato sonoro potrebbe avere molti punti sui quali discutere ma noi cerchiamo di cogliere l’animo punk del disco pensando alle cose belle della vita, se ancora ce ne fossero da apprezzare. Gli Iceberg suonano un rock sporco simile al Verdena style, molto cinici e spietati nella scelta dei riff, manca sempre la dolcezza, abbuffate di energia, la presa diretta questa volta non rende  praticamente mai grazia ai brani. Le chitarre suonano troppo chiuse, la batteria non picchia affatto come dovrebbe e la voce rischia di affogare in un mare di imperfezioni. Ovviamente problematiche di registrazione e non di tecnica.

Si voleva un disco sporco? Ecco un disco sporco. “Caro Tornado” è un lavoro comunque sia giovanile, adatto indubbiamente a un pubblico sbarbatello e sognatore, troverà facilmente i consensi di cui ha bisogno in pochissimo tempo, certo non entrerà nella storia ma troverà il proprio cammino. Da segnalare a voce grossa la bellissima confezione in digipack davvero interessante e ben fatta. Gli Iceberg nutrono grande passione per la musica e questo rimane subito chiaro ma torno ancora sulla registrazione che non convince e questo rimane un punto penalizzante per la riuscita del disco, non trovo mai quell’esplosione sonora di cui loro parlano tanto, non riesco a seguire con attenzione le linee melodiche e il nervosismo aumenta.. A volte sono costretto a prendermi una pausa. Una migliore attenzione nei suoni e forse ora staremo a parlare di un altro disco, voglio credere e dare fiducia a questi ragazzi, essere alternativi non è così semplice come potrebbe sembrare. Dai! Dai! Dai! Non tutto è perduto.

Read More

Raggi Ultraviolenti – E’ tutto un Fake!

Written by Recensioni

I raggi ultraviolenti sono una punk band proveniente da Monferrato nata nel 2009 fortemente influenzata da Millencolin e Social Distortion.
Tuttavia il loro amore per il genere si estende anche al nostro belpaese con centinaia di affinità con Punkreas e Derozer (giusto per citarne un paio).
“E’ tutto un fake” al di là della brevità di durata imposta anche dai canoni cui siamo abituati da sempre (o almeno da quando i Sex Pistols sconvolsero il mondo con il loro epocale “Nevermind the bollocks”) è un lavoro davvero perfetto nei suoni e negli arrangiamenti.

Aperto da “Intro”, un concentrato di soli 27 secondi che vuol dare la definizione di falsità attraverso la voce di Michela Palladino, il disco prosegue in “Fake!” brano di denuncia che si scaglia contro tutto e tutti.
“Carriera da velina” invece prende in giro il sogno proibito delle ragazzine di oggi, ovvero calcare il palco di “Striscia la notizia” e vedersi spalancare le porte del successo nazionale.
“Rabbia chiusa” inizia invece con un riff di chitarra accattivante subito seguito da batteria e basso e citando alcuni versi  “si accende il momento” e “cerchi di controllare la rabbia chiusa dentro te”.
Come dice la successiva “Non vorrei” intanto “il tempo scorre, mi accorgo che tutto il passato resta qui com’è” perché mi tornano in mente i miei eroi di gioventù, i  Nofx di “Punk in drublic”.
“2012” parla invece della previsione dei Maya secondo la quale quest’anno avverrà la fine del mondo ma secondo i Raggi Ultraviolenti “la profezia è solo una facciata per nascondere una società malata corrotta da multinazionali”.
“Dentro il parlamento” al di là del testo bellissimo è forse l’unico anello debole del disco (il riff della chitarra ritmica mi ha ricordato quello della teen band Five in “Everybody get up”) nonostante le sue liriche molto aggressive e anti-politiche.

Per fortuna ci pensa “Fumo negli occhi”,  che considero una sorta di riassunto del lavoro, a risistemare il tutto a posto con il suo sound energico e compatto.
“Skandre” riporta alla memoria i magici riffs dei veterani punk Rancid di Tim Armstrong e Matt Freeman e lascia spazio alla conclusione con “La mia sbronza” e “Clitoride”, due brani suggeriti dall’adesivo sul cellophane del disco che erano già presenti in una versione differente nel precedente lavoro del gruppo.

 

Read More

Dodo Reale – Dodology

Written by Recensioni

Questo improvviso arrivo d’inverno mi coglie un po’ impreparato. Mi ritrovo immediatamente a rimpiangere anche i più stupidi e superficiali vizi di un’estate ormai trapassata nell’altro emisfero. Mi mancano i cubetti di ghiaccio, la pezzatura sul lenzuolo ogni mattina, i pantaloncini corti che nonostante l’età continuo a sfoggiare nelle afose domeniche. In questa di domenica invece non c’è nulla di tutto ciò, ma solo pochi e lenti raggi di sole che se cercassimo di raggiungerli, si allontanerebbero sbeffeggiandoci e costringendoci e subire questo ingiusto grigiore.
Per fortuna che tra le mani ho un disco che ha tutte le carte in regola per essere vivace, colorato, vitale. Dodo Reale si propone con un genere da lui coniato “afroindiepop” e con un lavoro che parla dialetti e lingue lontani nello spazio e nel tempo, avvicinati dalla forza della musica pop (“esiste una sola lingua, la lingua dell’anima”). Dodo è alla sua seconda fatica discografica e arriva da Modena, ma ha abitato posti lontani e mira a mete a noi ben più oscure: Afriche, Orienti e Occidenti.
Mi preparo dunque ad un bel calore, una doccia bollente. Rinforzo per la mia pelle ormai dilaniata dal gelo, che con fierezza ha piantato la sua umida bandierina tra le mie ossa.
Ma qualcosa non gira per il verso giusto. Il meccanismo si inceppa e il calore non viene sprigionato a dovere. Gli aridi paesaggi, i villaggi rurali, le foreste, sono solo immagini, cartoline. Dodo è onesto, vero, genuino come un piatto di spaghetti e come il sorriso di un bambino per strada in Angola. Vicino ad entrambe le realtà con un grande abbraccio, collante per le anime. Ma la sua musica non mi ammaglia, non rilascia quella grande magia, quel vigore che si spera un personaggio così possa darmi.

Gran parte dei brani del disco non giustificano l’attributo “pop”, piazzato con grande determinazione (ma sicuramente non per moda) in fondo al nome del genere che Dodo veste con tanta fierezza. Brani come “Ogna miha mae” o “Loco” cercano ritmi e parole ammaglianti, sane per il bacino e per lo spirito, senza suscitare grande attenzione, senza sviluppare quella fame che di solito mi porta a riassaggiare subito il prodotto. Basta un assaggio, e a dire la verità il piatto risulta subito insipido e poco speziato. “Mother” e “Life in a day” riportano ai Beatles più etnici e introspettivi, denotando una grande cura del ragazzo emiliano agli arrangiamenti, mai banali o comodi.
Non distraiamoci troppo però dal tema forte e ben inculcato nella dinamica di Dodo. La forza dei “popoli neri” e la loro gigantesca dignità è riassunta nella splendida “Road to Sion”, grande vampata di luce in mezzo al calderone. Mistica, muscolosa, sudata, una danza intorno al fuoco tra diverse lingue, che si mescolano alla perfezione in un ritornello in cui spicca una vivace tromba alla Roy Paci (“la strada lunga è la strada buona, la strada lunga è la strada che suona”). Questo è proprio quello che mi aspettavo. Sua maestà musica pop.

Questo piccolo episodio riposto all’inizio di “Dodology” però non basta. E’ vero l’album è eclettico, coerente e onestissimo, ma la forza d’animo di Dodo Reale non punzecchia le orecchie, mi lascia con la fame. Fame di assaporare la prossima volta qualcosa di nuovo, di più grintoso, di squisitamente pop. Con tanta Africa nel suo “genere”, magari grattando via un po’ di quello scomodo e inconcludente “indie”, fonte di immagini sfocate e di calore ancora lontano.

 

Read More