Udde – Fog 2012 Ep

Written by Recensioni

I musicisti sono artisti, creativi.
I musicisti non “mettono i dischi”.
I musicisti sognano di farci sognare.
I musicisti non fanno cover, al limite copiano.
I musicisti rischiano di non piacere.
I musicisti non ascoltano Giovanni Allevi.
I musicisti sanno cosa amano.
I musicisti sanno cosa li ucciderà.
I musicisti sanno cantare l’amore e la morte insieme.
I musicisti non sono Amici con l’X-Factor
I musicisti sono puttane che non si vendono.
I musicisti sono ninfomani puttane…

Il polistrumentista autodidatta sardo (di Sassari) che si fa chiamare Udde germoglia musicalmente, col ruolo di chitarrista, nel 2001, quando fonda la band psych-prog wave Soyland Green. Con loro incide l’album promo Final Superstereo ma nel 2010, quando ormai appariva pronta la prima vera uscita discografica, l’avventura s’interrompe improvvisamente. È la fine di un ciclo e l’inizio di una nuova vita. Nel suo studio privato, Udde decide di fare tutto da solo, imbracciando ogni strumento necessario al suo potenziale espressivo e artistico. Lo sforzo compiuto porta alla messa in scena di questo Ep di tre tracce, dall’ emblematico titolo Fog, letteralmente traducibile con Nebbia, 2012. Il suo si presenta subito come un lavoro minimale, già nel confezionamento. Tanto spazio alla musica e poco all’estetica, evidentemente. Eppure la copertina è già qualcosa di strepitoso. Un’affascinante foto in bianco e nero che ritrae un freddo paesaggio metropolitano, in cui si vede confusamente l’avanzata del progresso, sottomessa da una nera nebbia, come una notte fredda e avvolgente. La povertà della foto esprime pienamente le atmosfere gelide che ritroveremo all’interno dei tre brani e per questo si pone come il perfetto punto di partenza per analizzare il lavoro dell’isolano. Per quanto essenziale, la copertina diventa una sorta di amuleto incantatore che mi spinge a un ascolto instancabile. Il primo brano è “Northwestern”. Un pezzo di puro e oscuro Synth Pop in stile Depeche Mode, con una melodia sui generis dal sapore anni ottanta, (non quelli della dance ma della disperazione emotiva dell’underground metropolitano). Un ritmo da Trainspotting soundtrack, al sapore di Londra o Berlino e una melodia appena accennata, che se fosse stata più incline al Pop e meno screziata, avrebbe certamente incantato anche i più scettici. Le diverse stratificazioni sonore si sfiorano e si avvinghiano creando proprio quella surreale atmosfera cruda già assaporata nella copertina. Nella successiva “White Inn” si presenta ancora la sezione ritmica tremante, opprimente, lineare, secca e battagliera, che mette in mostra una certa similitudine con i ritmi mogwaiani, mentre la chitarra schizza riff e assoli di matrice prog e psych rock. Anche nel secondo brano l’atmosfera è tetra e misteriosa e la mescolanza di sintetico e carnale diventa ora la palese prerogativa imprescindibile del sound di Udde. Nell’ultimo brano “Welder’s Flash” si parte con un intro che ricorderà a qualcuno quel folle di Scott Walker, già richiamato più volte nel cantato del sardo. Il resto del brano è invece sulla falsariga del binomio sonico precedente e anzi, diventa più pop e meno audace, grazie a chitarre più chiare e perspicue e una melodia più naturale. Nell’insieme, i tre pezzi riescono ad amalgamare alla perfezione l’inferno del succitato Scott Walker, con le chitarre (a tratti psych-prog seventies, a tratti quasi shoegaze), le sezioni ritmiche essenziali in stile Mogwai, con le atmosfere languide di Brian Eno, presentando l’insieme nella forma più semplice possibile. Sintetico Pop. Assolutamente indovinata la scelta di mantenere quest’ultimo come l’unico elemento portante, attorno al quale ruotano le diverse contaminazioni prog, dark, ambient, psych, post rock. Niente è mai troppo invadente e si evita di mostrare un sound apparentemente incompiuto quando invece la scelta sembra abbastanza precisa. Il tutto suona esattamente come se fosse esattamente quello che Udde voleva suonare. L’unica pecca concerne le melodie vocali. Sembra troppo una via di mezzo. In alcuni passaggi l’orecchio pare pronto ad ascoltare qualcosa di armonioso, che farebbe la fortuna di ogni radio del pianeta, ma nel giro di pochi secondi si vira verso passaggi meno orecchiabili e più macchinosi. In questo modo non è chiaro quale fosse lo scopo e quali siano le reali capacità, in tal senso, del nostro artista. Più semplicemente, le melodie non puntano troppo su facili e orecchiabili accostamenti di note ma, nello stesso tempo, non azzardano mai più di tanto, come per paura di oltrepassare la misura. Siccome vi ho citato Scott Walker, provate ad ascoltare Tilt o The Drift se volete qualcosa di più attuale e forse il mio pensiero sarà più chiaro. Nel complesso, questi pochi minuti, mi hanno aperto la strada per quella che potrebbe essere una bella scoperta da fare a breve, quando sarà finalmente pronto il primo lavoro sulla lunga distanza. Intanto una cosa è chiara. Udde è un musicista, sincero come la nebbia di Londra.

 

…e soprattutto, brutte merde che l’avete mandato al primo posto delle classifiche dei singoli infangando il nome dell’Italia, il Pulcino Pio non è musica.

 

Questa è musica.

Last modified: 7 Novembre 2012

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