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Stop? – Del Mio Respiro

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Inizia un minuto prima, note folk tenui e delicate preparano l’ascolto del mio respiro. Bugie.

La band modenese Stop? capeggiata dalla voce di Daniele Paganelli e arricchita da Eronne Bernucci alla chitarra, Enrico Maria Bertani alla batteria e Michele Zanni al basso e rhodes, prova a fare le cose in grande ma finisce per perdersi tra le sterili note pompose e dozzinali al tempo stesso e le parole belle e poetiche che fanno da cuore dell’intera opera, tanto affascinanti quanto poco esaltate dalla musica. Momenti Hard Rock estremamente educati e inefficaci, intervallati con pezzi Pop Rock sconcertanti, finiscono per frantumare quella che poteva essere, sulla carta, una gemma di valore assoluto.

Il motivo è banale. Quando si parte da un presupposto che sembra consigliarti di dover necessariamente apprezzare, la delusione è la conclusione più ovvia. Un artwork ammaliante incastona i testi che si uniscono a creare un’unica lettera, come versi d’una poesia che si chiude con le parole Aiutami tu.
Dopo l’ukulele che folleggia nell’intro strumentale “Un Minuto Prima”, creando un contrasto a mio avviso sovrabbondante, inizia la parte vera del lavoro degli Stop?, col brano “7:55”. Passaggio sparato a mille che, anche per la vocalità di Daniele Paganelli, ricorda sia la miscellanea dei Quintorigo di John De Leo, sia l’energia degli Jane’s Addiction di Perry Farrell, senza dimenticare anche alcuni strappi molto Faith No More, specie nei cambi di tonalità. Con “Come Dimenticare Le Mie Paura” si abbassano i toni e l’atmosfera si fa più intima. Poche parole echeggiano sopra una melodia non troppo azzeccata, finendo per suonare come un brutto pezzo Pop/Rock di un B-Side di Francesco Renga.

Ho ascoltato solo un intro e due pezzi e già non si capisce un cazzo di quello che vogliano suonare gli Stop?. L’unica cosa che sembra chiara è che, se da un lato dimostrano di avere puntato molto su testi e arrangiamenti, dall’altro sono veramente poco bravi nella creazione di melodie che siano orecchiabili o, per contro, sorprendenti.
Con “Splenderai (Aria Vergine)” si mantiene la stessa linea carnale del brano precedente ma le chitarre riprendono quel retrogusto folk presentato nell’intro che altrimenti non avrebbe avuto veramente alcun senso. Il ritmo è semplice e cadenzato e il tutto sembra un tentativo malriuscito di mettere in risalto le parole che, per quanto interessanti se lette come fossero poesia su carta, risultano fumose nel complesso dell’opera.

Con “Lasciamo Il Tuo Odore” e il suo attacco in crescendo le cose paiono migliorare ma bastano pochi secondi per capire una cosa che forse avevo solo avvertito in precedenza. Questa è roba che di certo piacerà a tanti, non ho dubbi. È proprio la musica che tanta gente va cercando. Ma non io. Mi ritorna continuamente in mente Renga che canta un pezzo del cazzo a Sanremo e se da un lato la colpa è della piattezza della musica, il vero colpevole è (non me lo aspettavo) la voce di Daniele Paganelli. Una bella voce, che si esalta nei cambi di tono e che sembra perfetta per il Pop da prima serata di Rai Uno. Ma sono troppo vecchio e ancora troppo giovane per queste cose. Vorreste mai che vostra figlia uscisse con uno di loro? Erano queste le espressioni con le quali presentarono I Rolling Stones nel 1963. Questo era e dovrebbe essere la musica, almeno per come piace a me. Per gli Stop? La mia risposta sarebbe un tranquillo “Sì, ce la porto io”. A me, però, non interesserebbe mai un tipo che io farei uscire con mia figlia.

Basta divagazioni, torniamo alle canzoni.

“Divertiti” è forse il primo brano che mette voglia di riascoltarlo. Un’ ipnotizzante cantilena, con una voce monotona e cupa in stile Giovanni Lindo Ferretti, chitarra ebbra  e sezione ritmica ossessiva. Voci che si sovrappongono e crescendo che sfocia in un vortice sonoro lisergico assolutamente incantevole.
Niente da fare. Con “Ti Sopporto Più” (mai parole furono più indovinate) tutto torna a tediarmi l’anima. C’è un po’ di energia in più e alcune distorsioni chitarristiche fanno venire un minimo di acquolina alle orecchie ma ormai è chiaro che non c’è niente che possa defibrillare questa piatta morte. C’è di buono che il pezzo risponde, almeno in parte, alla mia postuma domanda: “Che cazzo c’entra “7:55” con tutto il resto?”.

Mi rendo conto con “Insensibile” che la seconda parte è indubbiamente più Rock (per modo di dire) ma siamo sempre in quell’universo del Rock, dove i campioni sono Le Vibrazioni, per cui non mi sembra troppo il caso di insistere. Il penultimo brano, puntando su atmosfere cupe e angosciose stile Piano Magic, da il titolo a tutto il disco e ne rafforza la robustezza spirituale pur non aggiungendo molto allo stile, mentre è l’ultimo brano, “Lettera Bianca” a dare un senso a tutto questo. Non c’è musica, semplice Spoken word. Teatro e parole che, per la prima volta, oltre ad essere intriganti e musicali come pura poesia, sono anche incisive e coinvolgenti. Se solo ci fosse stato un minimo di musica, come vento a riempire gli spazi vuoti tra le lettere…

Vi giuro che non lo dico tanto per stroncare senza stroncare. Gli Stop? hanno tutte le carte in regola per sfondare in mondo popular che non mi riguarda e per presentarsi a Sanremo e vincere, magari, nella sezione emergenti e poi andare in radio e far gridare al miracolo Mollica dopo il Tg1. Possono farcela. Ma siccome io non sono la Maionchi e del successo di un gruppo non mi frega un cazzo, per me è no!

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Mac and the Bee – Mac and the Bee EP

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Eccoci, ciao a tutti, come prima recensione su Rockambula mi ritrovo per le mani un gruppo che mi incuriosisce, un progetto che si presenta bene, ambizioso e curato. Loro sono i Mac and the Bee, gruppo sardo formato da Federico Pazzona, voce, chitarre, programmazioni e Antonio Maciocco, tastiere, synth, programmazioni, live electronics. Progetto recente, recentissimo, che si propone come melting pot di esperienze musicali diverse dei suoi componenti che confluiscono in quest’album dalle tinte tenui e sonorità a volte cupe.

I Mac and the Bee, a loro detta, vengono fuori dai suoni duri del post-punk, grunge e metal di Federico Pazzona e dalle sonorità un po’ più pacate del trip-hop e dub di Antonio Maciocco. Se lasciate scorrere le tracce di questo EP sentirete le tinte delle band che hanno lasciato un segno nella loro musica. Sembra che riprendano il filo dagli anni ’90 e lo tirino, attraverso l’uso massiccio del synth, ai giorni nostri. Come a dire: veniamo da lì e questo è tutto. Ascoltando la prima traccia dell’Ep Bouncing on your legs ci si sente trasportati in un atmosfera tenue che tende a riempire pacatamente l’ambiente quasi volesse mettere allegria. Ma è solo apparenza dopo il primo minuto  la voce del cantante ci riporta subito nel buio per poi risalire. Il brano è un alternarsi di stati d’animo che vanno su e giù. Ascoltando gli altri pezzi, in particolare in I can push like them si sentono gli ascendenti melodici tipici dei Depeche Mode nel synth e un suono più ruvido di batteria industrial, rumorosa, sporca che accompagna la voce. Cattiva, acida, che arranca in un crescendo di melodia. Una canzone tetra. Se non sapessi che fossero sardi penserei subito a qualcosa di nordico, di buio, sicuramente dark. Ed è quello che fanno I Mac and the Bee portando dietro il proprio bagaglio di influenze musicali. Buon inizio per questo duo isolano che cerca nella rielaborazione sintetica la propria identità.

 

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Vinicius Cantuaria – Indio de Apartamento

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Il grande Maestro di Manaus ma oramai Newyorkese a tutti gli effetti, Vinicius Cantuaria, a diciotto mesi dal bellissimo disco condiviso con un altro maestro indiscusso quale Bill Frisell, torna in punta di piedi con “Indio de Apartamento”, elegia e lusso di New-Bossa che non fa altro che ingigantire il passo felpato e latineggiante di un cantautore che nelle infinitesimali particelle dei suoni e dei dettagli immacolati dei timbri gioca come un architetto con la sue creature senza fili, che da sole si impennano verso l’alto per non scendere mai più.

Raffinato come un tramato di seta, il discorso musicale di Cantuaria questa volta si arricchisce di ulteriori personaggi e arie eteree, e di conseguenza il disco si accompagna a scambi umani e spirituali che nella tracklist sfumano, volano e si incantano come battiti d’ali di farfalle, come cercassero corolle colorate dove posarsi o steli dove arrampicarsi per prendere lo slancio; dieci trasfigurazioni melodiche minimali, sottovoce, quasi confidenziali in cui il chitarrista ricama e tesse momenti d’alto ascolto, quella spinta dal basso che tocca il plesso solare e ti commuove fino in fondo. Canzoni di poca lunghezza, una chitarra che sintetizza e tira fuori chiazze di anima quando incontra il cristallo di tasti di SakamotoMoça feia”, nella contaminazione col soul di Nora Jones nella passionevole “Quem sou eu” o tra la filigrana chitarristica elaborata di Bill FrisellPe na estrada” e “Chove la fora”, pezzi emozionali che senza nessun clamore tecnico o amplificato “urlano dal di dentro” tutta la forza magnetica di un artista che vive e si muove sempre e comunque nel sottocoperta della ribalta.

Stupende la concessione al pop-jazz intimista imbastito con la bella voce di Liminha con Frisell e Jesse HarrisThis time” e la parentesi evanescentemente etno “Purus” che vede un Cantuaria “virtualmente” avvicinarsi alla scuola genovese con un sofisticato Bruno Lauzi  che rivive per pochi minuti, per poche sensorialità; un disco per amatori, per gente non comune ad avvicinarsi ai bombardamenti elettrici, piuttosto disco tenerissimo per chiunque abbia confidenza con l’arte del quasi silenzio, del sospiro del grande eco. Onore a Cantuaria.

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Fratelli Detroit – Hey Everyoby

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“Si formano nei garage della cultura suburbana di Carbonia, la città più disagiata d’Italia, e la scelta del nome è un esplicito parallelo con la città delle macchine, una volta polo trainante dell’industria americana ed oggi deserto culturale e sociale.

Prendete questa presentazione, infilatela dentro a tre tute blu da meccanico (scelta estetica semplice ma efficace) ed infornate: i Fratelli Detroit sfonderanno il vetro dei vostri forni a colpi di funk!

Tony Detroit (voce e chitarra), Frankie Detroit (basso) e Jimmy Detroit (batteria) non fanno del semplice funky: si dichiarano funk’n’roll..e direi che il gioco di parole è azzeccato.

Prendete un trio garage rock, togliete il Precision al bassista e sostituitelo con un Jazz facendoglielo slappare, insegnate loro i ritmi sincopati ma mantenete la voce con la sua timbrica grezza ed energica e il gioco è fatto.

Prendete i Red Hot dei tempi d’oro metteteli ad un tavolo con i Mudhoney e vedetevi arrivare Hendrix con un centinaio di shot di tequila per tutti.

(Sì. Oggi è la giornata del “prendete…”)

Il paragone con i primi Red hot chili Peppers è d’obbligo in brani come Blessed e Funky lovers. La vena hendrixiana caratterizza invece J.S. I Mudhoney si riconoscono nei pezzi più distorti e spesso nelle linee vocali.

L’abilità della band sta proprio nel far convivere tutte queste influenze all’interno degli stessi brani: caratteristica fondamentale del progetto è l’alternare parti funk piene di groove a schitarrate super distorte che fan pensare ad un’adolescenza passata ad ascoltare la musica marcia di Seattle. Esemplari brani come Dangerous, Lust o Lonely games. I Detroit dimostrano di sapersi dare una controllata di tanto in tanto come in Cinematique (telephone call from fresno) un bel pezzo lento di quelli che spogliano le femmine.

La prossima volta che qualche v.i.p. mi inviterà a sbocciare nel suo yacht a Porto Cervo mi farò dare un passaggio dalla parte opposta dell’isola per scoprire se dal vivo siano energici almeno la metà del disco.

Ad intuito la potenza può solo raddoppiare.

 

Post scriptum: nel caso venissero dalle parti del milanese scoprirebbero che la vera città più disagiata d’Italia è Carugo.

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Sergiolimbo – Spinning Jenny

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Questo album mi è arrivato nella buca delle lettere in un’anonimo sabato di fine primavera. Di quei giorni in cui ti sei ben abituato a vedere a lungo la luce del sole e a respirare aria calorosa, giorni in cui la tua pelle non ci fa nemmeno caso e si inizia a scoprire. Ho piazzato questo cd in macchina, ho messo su le prime due tracce (la prima è un intro), ho ascoltato un frammento di questo canzoniere esageratamente italiano, ho girato l’emblematica cover e ho visto che di tracce ne conteneva altre 16. Ho stoppato il cd, l’ho riposto nel cruscotto e ho messo su un greatest hits dei Thin Lizzy. Decisamente più da finestrino giù in un “saturday night alright for fighting”.

Passano quasi 6 mesi e pescando a caso nel cruscotto me lo ritrovo tra le mani. No, non  mi metto a ricercare i Thin Lizzy, me lo ascolto. Lo ammetto: lo faccio un po’ per senso di colpa verso la professionalità che devo mantenere in questo mestiere, ma anche un po’ per curiosità verso un album che pare effettivamente contenere un mondo strambo, irregolare e indisciplinato, seppure mantenuto nei binari della musica popolare più standard.
Sergiolimbo da Faenza è in effetti un personaggio curioso, a partire dal titolo dell’album: improponibile nome dell’antica macchina filatrice delle fabbriche tessili (in italiano Spinning Jenny è la Giannetta!). Ma appena rimetto nell’autoradio il disco, si scatena un turbinio nella mia mente che incredibilmente mi fa ritornare al primo distratto ascolto de “Il treno per Marte” (secondo brano del disco). Ricordo il semplicissimo ritornello, le immagini di fuga mai troppo lontane, le rime strampalate e magnificamente scontate. Il filo della Giannetta, dopo mesi di disuso, riparte.
Sergio sfodera un’onestà unica e ci parla di se stesso e del mondo che lo circonda come se fosse un bambino cresciuto a metà tra le nuvole e la terra brulla, tra i sogni e la fatica, tra Lucio Battisti e Povia passando (perché no?) per Franco Battiato. Un Peter Pan che paga le tasse, guarda la TV ma sogna di viaggi lontani e musiche vicine, mischia il sacro e il profano.

Certo non si può dire che la scelta dei 18 brani sia azzeccata. Dico un’incredibile banalità, ma le canzoni fossero state 10 il disco si farebbe ascoltare molto più agilmente e probabilmente sarebbero stati curati anche meglio alcuni arrangiamenti e sonorità (ogni volta che appare una chitarra elettrica mi corre un brivido di ribrezzo). Ma forse non sarebbe stato “tutto”, e qui Sergio c’è proprio “tutto”. Prendiamoci allora la completezza del personaggio e tutta la catena di montaggio, che fa correre un filo coerente nella sua imperfezione e infantilità. Proprio Sergio nel finale del disco ci chiede se la sua è una “Missione compiuta?”, beh in qualche modo lo è.
Gli episodi felici comunque non sono poi così rari, spulciando un po’ tra le migliaia di visioni e pensieri del cantautore troviamo favole di squisita intensità: la voce lontana e dispersa di “Astronave base”, la mitologia che diventa una “banalissima” storia d’amore in “Orfeo”, gli istanti felici e le rabbie feroci che riassumono il duro percorso della vita in “Solo”, la dichiarazione di unicità in chiave danzereccia di “Non mi riconosco”.
Un grande mondo rinchiuso in un disco ben coeso e legato da un forte sentimento di umanità che ha il suo picco in un brano magnifico come “L’uomo caduto”, forse senza un vero senso logico ma che descrive con una carrellata di immagini questo sentimento necessario che abbraccia onnipotenza e debolezza dentro la figura dell’essere umano.
Sergiolimbo non è un grande autore, non è neanche un grande musicista e lo riconosce pure. Ma il suo mondo è un parco giochi aperto a tutti, e un giretto dentro io ve lo consiglio. Ne uscirete con un sorriso e mille punti di domanda.

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Le Notti di Masha – Pezzi di te

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Pezzi di te è il primo disco pubblicato dal quartetto composto da Marco Taffini (cantante e paroliere), Mark Davis (chitarrista), Emanuele Sartori (batteria) e Gaetano Russo (basso).

 
Un disco fortemente pop che, nonostante le ambiziose premesse date dalla band sulla loro pagina facebook “Traduciamo i pompini in musica, questo è quanto.”, ha poco da offrire.
Musicalmente parlando non si sbilanciano dal classico alternarsi di strofe e ritornelli intervallati da qualche assolo di chitarra. Suonato senz’altro bene, gli strumenti sono ben amalgamati ma il sound è privo di personalità: la base ritmica gira sui classici groove confezionati della mulino bianco, la chitarra ritmica tiene gli accordi principali mentre la chitarra elettrica è la tipica chitarra elettrica solista in fissa con i riff e gli assoli (speravo fosse finita da decenni l’era del chitarrista solista per cui “chitarra elettrica” equivale solo a scale e arpeggi..eppure tantissimi gruppi emergenti continuano con questo cliché); anche a livello di suono vero e proprio non si coglie nulla di innovativo: suoni prefabbricati, quelli soliti insomma.. che se fossero midi per il karaoke la differenza sarebbe ben poca.

 
Soffermandosi sulla musica Le Notti di Masha sembrerebbero un pompino fatto coi denti, di quelli che non è che ti entusiasmino proprio ma è nella voce che trovano il loro punto di forza.
La piattezza della parte strumentale viene risollevata dalle linee melodiche della voce, molto coinvolgenti, specialmente nei pezzi pop-disco come Cenere, Il Nero o Inferno & Disco. Queste tre canzoni sono piacevoli anche dal punto di vista dei testi: ritornelli super semplici che ti puoi imparare al primo ascolto spezzano le strofe più stimolanti con qualche espressione/ metafora/ paragone di quelle che han preso piede nell’indie rock italiano, che fanno comunque apprezzare un tentativo di fuga dalla banalità delle canzoni pop commerciali più bieche.
Meno interessante è Sapendo che se ne andrà: il tipico pezzo lento di pop-rock melodico che sa tanto di Finley e dove anche le melodie di voce tanto interessanti negli altri brani citati qui vengono a mancare.

 
C’è da dire che i Masha son giovani, il progetto ha solo un paio d’anni di vita ma si sente che il gruppo è affiatato e c’è tutto il tempo per crescere. I presupposti per migliorare ci sono tutti.

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Too Late To Wake – Slaves Without Chains

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Veramente è troppo tardi per svegliarci? Siamo veramente schiavi senza catene? Un uomo servo che si crede libero come può comprendere la necessità di spezzare manette che non vede?
La premessa dalla quale muovono i cinque abruzzesi (Spoltore e Pescara) è tutto un programma. Un’accusa diretta senza essere troppo esplicita. Il dito puntato contro un modo di essere, contro una vita fatta di accettazione passiva, rassegnazione e disillusione. Contro quel mentirsi continuamente per non ammettere una verità che può far piangere, più di un pugnale nel petto.
Ma la loro non è un’insinuazione nichilista al sistema ma piuttosto (cerca di essere) una scintilla che vuole far scoppiare la bomba della nazione. Smettere di essere quello che gli altri vogliono, smettere di fare quello che chiedono, smettere di credere a quello in cui in realtà non crediamo. Essere l’opposto di quello che è cool per continuare a sperare. Essere schiavi della voglia di libertà.

Tutto è iniziato solo due anni fa, nel cuore dell’Abruzzo e dell’Italia, quando Gianni Vespasiani (voce e chitarra) forma la parte embrionale di quella che sarà la band Too Late To Wake con Simone Del Libeccio (chitarra e voce) e Riccardo Ruiu (batteria). Inizia la fase in cui si prende coscienza di quelle che sono le idee da proporre, sia musicalmente sia concettualmente e il gruppo diventa come un corpo solo che cresce, matura, sceglie, decide, giudica e combatte.
L’anno successivo, entrano nella band anche Palo Gioacchini (voce) e Francesco Cetrullo (basso) e finalmente tutto è pronto per l’Ep d’esordio Guiding Light. Le cose sembrano indirizzate verso la strada giusta ma com’è ovvio che accada in un corpo in fermento, pronto a ogni forma di esperienza e avventura, qualcosa si rompe. E qualcosa è destinato a rinascere. Come sempre, nel peggio può nascondersi una nuova vita. È il 2012 quando torna nella band quello che ne fu il primo frontman, Patrizio De Luca (sostituendo Paolo Gioacchini) e finalmente arriva il momento tanto sognato da ogni artista emergente della produzione del disco. Arriva Slaves Without Chains.
Un concentrato autentico di Post Grunge, reminiscenze di puro Grunge e Post Grunge old school stile Puddle Of Mudd, Blind Melon, Live, Our Lady Peace, Hey, Local H, The Presidents of the United States of America, Alter Bridge, Foo Fighters, Mayfield Four e Smashing Pumpkins e una spruzzata di sonorità più moderne, tipiche della nuova scena alternativa. In tutti gli otto brani, l’aspetto predominante è dato dal contrapporsi tra la crisi esistenziale dell’individuo e il contesto socio-culturale nel quale è inserito. Se da un lato si attacca il sistema, il capitalismo bancario, la politica del non fare, il cinismo e la cupidigia istituzionale, dall’altro si mette in scena il rancore, la carica, la brama di trasformazione, la voglia di resistere, il rinnovamento collettivo, per palesare a tutti come un mondo migliora sia possibile. Quello che si mette in mostra è l’avvicendarsi del ruolo di predatore e preda tra la società capitalista e il popolo o meglio è il grido di quei pochi che vogliono che siano tutti a urlare per ribellarsi al pescecane e al loro ruolo di vittima.
Su una cosa possiamo essere sicuri. I Too Late To Wake hanno le idee chiare su come indirizzare la loro storia. Sanno cosa dire e sanno come dirlo. Purtroppo non basta questo a renderti un profeta. Per un motivo molto semplice. C’è la musica di mezzo; è la cosa che più conta. È qui che sorge un problema. Se da un lato le melodie di brani come “Smoothbody” o “Grey For A Day” possono essere piacevoli e si fanno ascoltare senza problemi, è altresì vero che il sound dei Too Late To Wake risulta talmente antico che sembra essere più vecchio di quelle che sono le band prese come punto di riferimento. E se la musica con colpisce l’anima, difficile che lo facciano le parole (oltretutto i testi sono in inglese). Anche in fase esecutiva, non c’è niente che sembra poter porre i nostri abruzzesi sopra la concorrenza e alcuni brani (“Dorothy’ End” ad esempio) sfiorano piuttosto le banalità musicali New Romantic che non il tanto amato Grunge. Neanche la voce di Patrizio De Luca sembra riuscire a risollevare le sorti di sonorità cosi scontate. Quando si parte dal presupposto di cui parlavo nell’incipit, credo sia opportuno aspettarsi qualcosa di spiazzante anche dalla musica. Difficile inventarsi qualcosa oggi, ma è fin troppo facile eseguire il proprio compitino, citando e banalizzando tutto. I Too Late To Wake hanno perso un’occasione perché di persone che hanno voglia di dire e reagire, di gruppi che siano interessati a utilizzare uno strumento (un tempo tanto potente) come la musica, per far risvegliare le menti atrofizzate dei nostri cari compatrioti, non ce ne sono tante. La musica perde sempre più il suo ruolo sociale e artistico e diventa sempre più intrattenimento. Se chi prova a salvare quel ruolo, finisce per essere poco credibile, possiamo dirci spacciati.
…e intanto mentre io scrivo, mi accorgo che per Roma e gli Italiani, non è mai troppo tardi per svegliarsi se c’è da fare lo Gangnam Style di Psy.

Fratelli d’Italia

L’Italia s’è desta…

Booooooooooooooooommmmmmm!!!!!!!!!!!!!!

 

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Death Disco – End is beginning

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Approcciando “End is the beginning” semplicemente ascoltando l’iniziale “White easter” e la successiva “Ideal end” ho pensato subito di essere di fronte agli eredi dei Joy Division di Ian Smith, Bernard Sumner, Peter Hook  e Stephen Morris.
Tuttavia scorrendo il compact disc ho capito che in realtà i Death Disco erano molto più che l’ennesimo gruppo ispirato agli eroi del post punk inglese.
“Things gone bad” infatti lascia dapprima spiazzati pur mantenendo le atmosfere cupe dei due brani precedenti anche se è molto più “rock” con le sue chitarre nettamente più incisive.
Stesso discorso per quanto riguarda “The Proof” dove però regnano supremi il basso e la batteria che scorrono a braccetto per tutta la durata della canzone.
“Nothing really ends” (in netta contrapposizione al titolo dell’opera dei Death Disco) riprende forse molto più dai Bauhaus di “Bela lugosi is dead”, con un cantato degno del migliore Peter Murphy (anche se le voci non sono troppo simili).
“Robot” ha invece persino qualcosa dei Cabaret Voltaire ma ha sonorità che si spingono più verso gli anni novanta che verso gli ottanta.
“Before the fury” è intriso di synth e chitarre ed è a mio avviso il punto più alto del disco anche se la successiva “The beginning of everything” perde solo ai punti il match.
Quest’ultima infatti potrebbe essere infatti anche una sorta di riassunto dell’album (è anche il primo singolo estratto) anche se il suo sound è molto più moderno e alla Nine inch nails in bilico sempre con la new wave del periodo 1981/1984.
“Hurts” vede anche la preziosa collaborazione di Laura Gedda ai cori, unica ospite dell’album insieme a Davide Tomat e Gabriele Ottino.
“American Sunday” è la decima e ultima traccia che però è in antitesi con quanto ascoltato finora, ricordando persino il migliore Marylin Manson.
Il disco (perfetto da un punto di vista sonoro) è stato registrato da Davide Tomat e Gabriele Ottino al Superbudda Studio di Torino e vede Giovanni Cirigliano all’engineering, editing, mixing e mastering.
Ideale per fare un tuffo nel passato!

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Luka Bloom – This new morning

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Non si vive di sole cose materiali sembra sussurrare  Luka Bloom – l’irlandese cantautore solitario – e tanto meno di metamorfosi clamorose, prima occorre dare una svista ai luoghi da cui non bisogna fuggire, poi da tornare ad abitarli, viverli come in difesa di un respirare autenticamente natura e animo e darsi un contegno ed un raziocinio esemplare.

Con la poesie ci ha sempre saputo fare, ma quello che non ha mai detto nei suoi primi e timidissimi lavori, lo dice ora in “This new morning”, il modello sonoro che più gli si confà per raccontare e scavare il corso dell’interiorità di un uomo alle prese con la solitudine ed una gestazione letteraria lunga e profonda, ma ora che c’è non ce lo lasciamo scappare di nuovo anche perché le sue performances sono quasi introvabili se viaggiamo solamente in superficie. E’ da sempre considerato – o meglio relegato – alla categoria dei “beautifull loser”, quei cantautori chiusi nella poetica dei pochi, musicisti che per trovarli bisogna scandagliare l’underground per chilometri e chilometri in verticale tra le migliaia di metri di nuove proposte, ma poi appena arraffati (questi eroi in sordina) li teniamo stretti come portafortuna dei nostri giorni, quelli a parassitare tra malinconie e piogge dentro.

Un tenero folk easy- pop che disegna perfettamente le atmosfere uggiose d’Irlanda, la terra natia di un musicista che con una chitarra acustica e poco d’altro ci consegna tredici piccoli episodi con una discrezione intimista e scusante, quelle forme di grazia musicale che sono allure e beatitudine narrativa da animo in sospeso, rilassato; un ottimo modello cantautorale quello che Bloom delinea e intreccia nella tracklist, poche code strumentali e tante ballate come marchio di fabbrica, dai viaggi immaginari “A seed was sown”, “Heart man” ai sogni spagnoleggianti di “The race runs  me”, dalle fitte di cuore per lontananze mai superate “Riverdays”, “Across the breeze” alle toccate sulle corde emozionali di “Your little wings” o trepidare nella corsa tra nuvole in slide e banjo che “The ride” favorisce come una apertura di finestre su mattini sferzati da aria buona.

Luka Bloom sfugge dai personalismi e dai riflettori, ama  forse l’oscurità come quei fiori del sottobosco che conosciamo, ma non per questo luminoso di suo, le sue canzoni e le sue melodie raccolgono in modo particolare la tradizionalità e i sapori indie, un bilico gradevolissimo che merita di essere scoperto del tutto e seguire con maggiore attenzione. Garantito.

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The Fence – Demotape

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(consiglio per una comprensione efficace dell’introduzione: andare sul myspace dei The Fence e far partire la traccia “Love wins every fight”, poi iniziare a leggere.)

Allora.

Inizierò con un mea culpa: sono un patito di musica emergente – sconosciuta – underground, non so come la chiamate voi.. insomma di tutti quei gruppi che sono costretti a pagarsi da loro la benzina per andare a fare i concerti, non trovano mai un cachet e siccome non hanno parenti che lavorano in Radio Popolare non saranno (speriamo invece che ci riescano tutti) mai i Ministri.
Ascoltando qualunque gruppo mi passi a portata di mano mi capita spesso di doverli etichettare dall’ascolto di una sola canzone o dalla scelta della foto della band o dalla font usata nel loro sito web; con i The Fence sono partito non male: malissimo.
Il primo brano che ho ascoltato è stato Love wins every fight che già dal titolo era facile fosse il pezzo di un gruppo strapop. La canzone parte con un riff di chitarra a power cord bello energico, decisamente punk rock.. solo che, nel mentre, apro qualche foto dal loro myspace e li vedo che si abbracciano in cerchio, fanno le facce un po’ tristi, un po’ distanti: quelle foto trite e ritrite da band (avete presente no?). Sempre negli stessi secondi parte un pianoforte saltellante e poi il cantato con i coretti: inizio a temere che anziché esser semplicemente una band strapop siano una band chriastian pop! Man mano che il pezzo avanza, però, i coretti iniziano a farsi più intensi, più coinvolgenti. Parte un “shalalalala!”.. il pezzo man mano che avanza si scalda. Quando la parte punk rock si blocca lasciando spazio al piano arpeggiato e i cori che inneggiano “I must be true. I’m the king of the pop rock music!” crescendo..sempre di più..sempre di più..e poi: un tripudio di coretti acuti, acutissimi, gravi, dei cori a cappella che fanno “la,la,la,la,la,..” e, come un mantra, la voce che scandisce il ritornello. Ogni pregiudizio era caduto.

 
Mi sono entusiasmato: i coretti mi fanno sempre uno strano effetto.

Ritrovo il senno e inizio a spulciare la pagina myspace (ma chi usa ancora myspace?!).

Volendo dare qualche cenno biografico i The Fence sono: Ale dP. (voce), Teo (chitarra), Fede (batteria), Claudio (basso), Ale T. (tastiere). Preferiscono non etichettarsi con un genere ma si dichiarano indirizzati verso un suono rock mantenendo una vena pop: riferimento principale i Queen.. direi che non fa una piega.
Leggendo la loro bio però non è che mi sia ritrovato molto con il brano a cui ho dedicato tutta l’introduzione che mi faceva più pensare ad un gruppo powerpop.
Nelle altre canzoni infatti la presenza dei Queen si fa sentire: pianoforti, tastiere che fanno da tappetone, meno cori e tanta voce solista, soli di chitarra,ecc. Per capire di che parlo ascoltare Free, Dangerous Games o Not Even Me.
Per chi è invece alla ricerca di qualcosa di più rude si ascolti sicuramente Love wins every fight o nelle stesse corde anche Flying without Wings.
Questo gruppo dimostra di saper spaziare da pezzi di sei minuti lentissimi a singoli di tre minuti con attitudine punk.
Immancabile Surrender is Bliss che rimanda ai Pink Floyd ma anche ai Radiohead dimostrando di di avere influenze nel vecchio e nel nuovo e non smentendosi dicendo di essere influenzati da “I grandi gruppi della storia del rock in questi ultimi 40 anni.
Consiglio The Fence a tutti i nostalgici dei grandi gruppi inglesi degli anni ’70 aperti a contaminazioni più ribelli.

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String Theory – 3 Rooms

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Quando le cose non vanno esattamente come dovrebbero andare, quando la luce è troppo lontana per lasciarsi arrivare improvviso improbabili soluzioni che non fanno altro che gettare merda sulle mie situazioni mentali, la confusione totale. Improvvisano molto bene il loro debutto discografico gli abruzzesi String Theory , registrano 3 Rooms con l’intenzione di sperimentare ossessivamente tutto quello che chitarra, batteria e sax riescono a tirare fuori all’idea del momento, niente voce e d’altronde chi se ne frega visti i risultati. Vogliamo a tutti i costi rompere le considerazioni monotone e maledettamente ripetitive della musica attuale per scavare una nicchia sempre più profonda dove ficcarsi prepotentemente, bruciamo tutte le convinzioni e guardiamo oltre l’immaginabile. Perché gli String Theory ti prendono per mano e ti fanno viaggiare con loro, tutta musica improvvisata, suoni sonici e le sovraincisioni la prendono nel culo. Improvvisare significa comporre istantaneamente, 3 Rooms suona talmente bene da sembrare studiato nei dettagli, troppo laceranti le cavalcate del sax elettronico, i pedali indiavolati e la batteria padrona della ritmica mancante di basso. Adoro pezzi come “I can’t see the horizon”, mi lascio sballottare da “a.f.a.”, non trovo mai una situazione di pace interiore sul quale appoggiare le mie frustrazioni. Post rock o semplicemente post è il termine per definire 3 Rooms, un disco che potrebbe benissimo essere il “dopo” di qualsiasi genere musicale, innovazione sonora e continua ricerca del suono nella sua migliore espressione. Una sorta di ricerca della felicità musicale. Per questo siamo d’accordo sul fatto che gli String Theory sono una grande realtà musicale abruzzese alla conquista dell’Italia sofisticata, povera e ingenuamente bacchettona. Ovvio che parliamo di musica molto spessa da approcciare a muso duro e con la voglia di sorprendersi ad ogni riff sempre molto singolare e innovativo.

Un grande album che rende omaggio a una grande band, gli String Theory fanno uscire chiunque lo voglia da imbarazzi penetranti, il viaggio è gratis, perderlo sarebbe una grande cazzata.

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Television 60’s – Celebr-Hate

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Quante probabilità ho di rinvigorire oggi che ho un mal di testa da record? Sicuramente con una buona dose di Moment, una tisana rilassante e Jackson Browne che partorisce miele dalle casse sarei sulla buona strada. Purtroppo il disco che mi tocca recensire oggi è ben lontano da onde lente e rilassate. L’attacco di “Celebr-Hate” è micidiale, mi stende: velocità, frenesia, rullante-martello, chitarroni trapananti sciolgono le tensioni del mio cervello, riportandomi in un paradossale stato di relax nevrotico. Il sorriso storto mi si stampa in viso, come una stupida posa, e mi sale su tanta, ma proprio tanta, voglia di rock’n’roll.

Ma capiamo meglio questi Television 60’s. Sono giovani e vengono da Bergamo ma si formano quasi per scherzo a Glasgow in una notte etilica. Sono sfrontati, con un look un pò campato in aria, con un nome che non vuol dire nulla ma suona bene. E poi soprattutto non hanno un pezzo che sia memorabile, suonano ritriti come 2000 band tra punk e hard rock, sempre in quell’isola sicura tra Stoccolma e Los Angeles. Ma hanno un’attitudine che io semplicemente adoro. Quella delle chitarre tenute alle ginocchia, degli assoli veloci e delle rullate assassine. E il coraggio di fare tutto questo senza capelli lunghi, occhiaie spropositate e tatuaggi di donne nude o dadi infuocati.
Già l’attitudine, questa formula così irregolare e futile. C’è chi la cerca per una vita, passando ore davanti allo specchio ad ingellarsi i capelli e a cercare giubbotti di pelle attillati ai mercatini delle pulci. E poi c’è chi piazza una maglietta bianca, un taglio di capelli da bravo ragazzo e spazza via qualsiasi legge aurea con un sound furioso. Television 60’s sono degli outsider e lo sono con una spaventosa naturalezza. Spaventosamente credibili nel loro buffo habitat. Sono anti-star, proprio come Cheap Trick o sua maestà Angus Young.

Ma lasciamo perdere queste fesserie e parliamo della loro musica. “Celebr-Hate” è una fottutissima fucilata. Una raffica di proiettili che mi si scaglia in testa e mi pialla l’emicrania. I ragazzi  sfoderano pezzi come “Generation (Again & Again)” o “Sick Circus”. A scuola il rock’n’roll l’hanno studiato benone ma senza risultare dei secchionazzi, mantenendo quella buona dose di ignoranza da ultima fila e da porno letti sotto banco. E allora The Hellacopters (quelli con Dregen eh!), The Stooges, Motorhead siedono in cattedra pronti a deviare verso le pennate più heavy di “Seek Salvation, Find Damnation” (non ricorda un po’ troppo “Before I Forget” degli Slipknot?) o più punkettone di “Get Wasted”. Non si può’ certo dire che il risultato sia noioso. E in ogni caso gran coerenza e compattezza tra gli 8 brani del disco, che non si piegano mai neanche di un grado verso virate più soffici (e io che speravo in un Jackson Browne…mah). La produzione è magistrale: chitarroni arrogantissimi, con assoli frenetici, nervosissimi e velocissimi (un po’ troppo? naaa!), rullante picchiaduro, basso bello spinto e la voce di Mikki non di certo matura e graffiante ma genuina, intonata, mai esagerata e ben consapevole dei suoi limiti, doti non troppo scontate per il genere.
L’omonima “Celebr-Hate” chiude il cerchio con una cavalcata decadente, riffone grosso, voce al limite e che profetizza: “girls are cool but drugs are better”. Nulla di trascendentale, nessuna grande pretesa, nulla da riascoltare tra dieci anni. Television 60’s sono da consumare velocemente e subito, come una medicina con una marea di controindicazioni.

Ragazzi, poco da dire, questo pare proprio essere rock’n’roll! Che ogni tanto si diverte ancora a sollevare una mano dal sottosuolo per riemergere dalle tenebre.

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