Intervista a Zapha

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Zapha: un cantautore classe 1982 nato nella provincia di Cosenza che ama l’Irlanda in maniera smisurata. Un artista che voglio prendere in considerazione, un talento appena sbocciato che sicuramente farà molto parlare di sé negli anni a venire. Con il suo primo disco, Why do You Frown, ha già riscosso i pareri favorevoli di critica e pubblico.
Lo abbiamo incontrato in occasione del della prima edizione del Folk’n Beer Festival di Pescara dove si è esibito prima di Lennon Kelly e Modena City Ramblers.

Come mai il nome d’arte Zapha?
Le lettere che compongono la parola Zapha sono le iniziali di persone che ho incontrato lungo il cammino, a cui sono legato e grato in qualche modo, perché mi hanno spinto in tempi non sospetti a non abbandonare il “sogno della musica”.
A dirla tutta, c’è anche un’assonanza, quasi un’omofonia, con “Zephyr”, cioè lo Zefiro, un vento che soffia da ponente ed è messaggero della primavera. Mi piace pensare alla mia musica in questi termini: una lieve brezza che, mentre ti sfiora, ti annuncia l’arrivo di qualcosa di meraviglioso.

“Why do You Frown” è il tuo disco d’esordio. Come nascono le tue canzoni?
Voce e chitarra. Quando sento di voler fotografare una sensazione, un istante, descrivere l’impressione di un momento, o un pensiero che mi passa per la testa, imbraccio la chitarra e do voce a quello che suggerisce la mia anima. Registro sempre i miei flussi di coscienza e, se c’è qualcosa di apprezzabile, ci lavoro sopra. Rifinisco i testi e cerco di dare una struttura razionale al tutto. Spesso, musica e parole arrivano insieme, e allora è una sensazione grandiosa. Credo che un pezzo, per funzionare, debba poter essere presentabile così: in versione minimale. Poi, è la volta degli archi e degli arrangiamenti in generale: Nicola Di Già e gli altri musicisti con cui collaboro, apportano il loro prezioso contributo e così un lavoro all’ inizio scarno, prende forma e, con mia grande meraviglia, si arricchisce, avvalendosi di altri punti di vista talvolta anche più autorevoli.

Il disco sembra avere due vite, di cui una denominata acoustic set: come mai questa scelta?
Due ragioni: innanzitutto, la voglia di condividere con il pubblico quello che sono le mie canzoni all’inizio, quando c’è poco più del disegno della voce e della chitarra. L’altro motivo è legato alla necessità di essere sincero, di dare un quadro fedele di ciò che accade solitamente nei concerti: spesso, suonando in piccoli club o come artista spalla, non ho la possibilità di portare con me l’intera band. E allora devo offrire uno spettacolo più intimo.
Le due vite del mio disco, in fondo, rappresentano le mie due nature: una più Rock, aggressiva, rumorosa. L’altra più raccolta, cantautoriale e raffinata.

Come mai hai optato per le cover dei R.E.M. ( “Bad Day” e “It’s The End of The World as we Know it (And I Feel Fine)” )?
C’è stato un periodo, breve per la verità, in cui ho abbandonato la scrittura per misurarmi con il mio essere semplicemente interprete. Lo considero un grande esercizio. In fondo, la parola cantautore racchiude il prefisso cant: non basta scrivere brani di qualità, bisogna saperli cantare al meglio, avere capacità vocali distinte, all’altezza di quanto si scrive.
La scelta di due brani “gemelli” dei R.E.M. è stata naturale: si tratta di un gruppo che seguo dai tempi dell’adolescenza; e poi, mi piaceva dire, con parole non mie, qualcosa sulla disinformazione e sul cattivo giornalismo. Tematiche che si possono traslare dall’America del 2003 all’Italia del 2015 con una facilità straordinaria. La cosa bella è che alla fine, la mia natura di autore ha comunque avuto un ruolo preponderante, per cui il pezzo, da Power Pop si è trasformato in un country acustico, con tanto di violini pizzicati e coretti.

“Whiskey in the Jar” invece è una tradizionale irlandese eseguita live spesso tra l’altro anche da gruppi tipo i Metallica. Ti senti legato all’Irlanda?
Molto. Ascoltando gruppi come gli U2 o i Cranberries sono cresciuto a pane e Irlanda.
A Galway poi ho svolto parte del mio percorso universitario. E, sempre in Irlanda, ho iniziato e esibirmi nei pub locali, alternando il lavoro di artista a quello di insegnante e traduttore.

Ci parli della collaborazione con H.E.R. ?
Per dirla alla maniera di Facebook, abbiamo un’ “amicizia in comune”, cioè il mio arrangiatore e produttore Nicola di Già. Nico e H.E.R. collaboravano nel periodo in cui i miei pezzi prendevano forma definitiva. Conoscevo la bravura e la fama di questa violinista che aveva alle spalle esperienze con Bennato, De Sio e Rettore. Così ho espresso il desiderio di averla nel mio disco. “Plain Jane”, tra l’altro, aveva una sezione di archi molto caratteristica, che ben si prestava ad essere suonata da un’interprete di questo calibro.
Evidentemente, la stima deve essere stata reciproca, perché H.E.R. si è mostrata subito entusiasta di lasciarci un ricordo. Giorni fa ci siamo incrociati casualmente, dopo tempo, in un centro commerciale. Una cosa bella particolare è che i testi delle tue canzoni sono anche tradotti in italiano all’interno del booklet.

Una cosa alquanto inusuale. Come mai? Paura che potessero essere interpretati male i tuoi testi?
Assolutamente no. Volevo che il mio primo cd avesse un bel booklet, come quelli di una volta: un libretto di poesie con traduzione a fronte, che potesse celebrare i miei versi nelle due lingue in cui mi muovo abitualmente: l’inglese e l’italiano. Da traduttore, ho personalmente lavorato alla resa poetica dei testi, in modo che potessero avere una loro vita indipendente. Nessuna traduzione alla lettera dunque, ma una vera e propria riscrittura, per quanto fedele, con lo scopo di rendere il mio prodotto, se così si può chiamare, ancora più fruibile. Mi piace immaginare un ipotetico ascoltatore, chiuso nella sua stanza, che legge le mie parole in italiano, lasciandosi accompagnare da una melodia cantata in inglese. Insomma, continuo ad avere due nature. Forse anche di più.

A proposito di testi. Di cosa trattano le tue canzoni?
I miei testi, come si può immaginare, sono istantanee di sensazioni, riflessioni, a volte riproduzioni di dialoghi reali. Dentro, c’è il mio rifiuto del qualunquismo, dell’ipocrisia, della finzione, e c’è anche la celebrazione di chi le convenzioni le ignora perché non ha altra scelta: ad esempio, l’eterno adolescente di “13 Again”, che non ha ancora imparato a snodare i fili delle sue emozioni e a colpire in un mondo di lupi, o la coraggiosa “Plain Jane”, fiera dei suoi impulsi infantili, incapace di confondersi con chicchessia o di perdonare chi la ritiene una mediocre. Ci sono brani come “Display of Affection” e “Feeling it” che raccontano l’incapacità di comunicare con chi ci sta accanto, nella vita pubblica come in quella privata. Ma c’è anche spazio in “Selfish” per il ricordo di un’amicizia sincera, libera, disinteressata. Il titolo Why do You Frown? (perché ti accigli) mostra la leggerezza con cui mi piace affrontare le cose. Come a dire, non c’è bisogno di preoccuparsi: alla fine, andrà tutto per il meglio.

Fra i ringraziamenti ci sono anche Vittorio Nocenzi e Rodolfo Maltese del Banco del Mutuo Soccorso. Progetti futuri?
Nicola di Già è anche il chitarrista del Banco Del Mutuo Soccorso. L’apporto umano di Rodolfo Maltese, così come i consigli di Vittorio Nocenzi, l’hanno portato a percepirsi e migliorarsi come chitarrista acustico. Senza di loro, insomma, il mio disco non sarebbe stato così com’è. Per adesso, non c’è in cantiere nessuna collaborazione con il Banco, ma posso dirvi che stiamo già lavorando al secondo disco. Abbiamo numerosi brani che non vediamo l’ora di poter condividere.

Last modified: 21 Febbraio 2019

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