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Molla – Prendi Fiato

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I beat che introducono “Barbie 83” hanno il gusto melanconico, il sapore dei bei tempi passati, un romanticismo goffo, adolescenziale che strappa un sorriso, e perché no una speranza. Il disco di Molla è intenso e frivolo allo stesso tempo, proprio come questa canzone che cattura l’ascoltatore con l’astuzia di chi i pezzi Pop li sa scrivere per davvero. E mettere come prima traccia un brano come questo è sintomo di malizia, che spinge l’ascoltatore a tendere l’orecchio per il resto dell’album con parecchia curiosità. Un po’ Tiromancino, un po’ Subsonica, un po’ Daniele Silvestri. Ma così personale che è inutile cercare le miriadi di sfumature e contaminazioni presenti in questo progetto. Il disco solista di questo artista pugliese parte in realtà da una collaborazione. In bilico tra il perfetto connubio di sonorità Elettro-Pop generato da Luca Giura (proprio colui che si fa chiamare Molla e già conosciuto nell’underground pugliese con gli Ameba4 e Il Sogno) e DJ Amber, che qui la dj non la fa per nulla, ma scrive dei testi che sembrano incisi direttamente sulla pelle, e a volte riescono pure a perforarla ed ad entrare dentro. Complice anche la voce di Luca, non di certo virtuoso o con una voce che si possa ricordare facilmente per la sua timbrica. Ma la sua espressività riesce a vincere e a rendere ogni momento del disco profondo e vero. Dieci brani in cui parole e musica si fondono, si toccano e vibrano insieme. “In Silenzio” è vera poesia elettronica: “sei arrivata dentro me come una foglia, che ad ogni mio respiro si muove”. Non ci sono voli pindarici, neanche troppe pretese. Molla parla terra terra, al cuscino sudato in una notte d’estate, al caffè tutte le mattine e al traffico nel rientro da un weekend lungo. Rende meravigliosa e ricca di sfumature la quotidianità. I brani non vanno oltre il rapporto di coppia? Non proprio, il disco è uno spaccato di indecisione, paure più o meno futili, ma anche di riflessione. Specchio di una realtà che va oltre la difficoltà delle relazioni interpersonali.


La struggente ballata “I Nostri Occhi” è un frullato di ricordi e rimpianti, del destino già scritto nella roccia. “Aldilà” sembra essere suonata in una calma prateria di fonte ad un cielo stellato, pare descrivere l’eterna ricerca, “prendiamo fiato” perché qui le atmosfere non sono mai frenetiche ma piano piano ci si sposta, la meta non esiste. La canzone parte con una semplice e scarna chitarra acustica per poi arricchire il tutto con un goccio di feedback, sintomo di un lavoro sopraffino su suoni ed arrangiamenti. Produzione eccelsa insomma, anche nei pezzi più difficili ed ostili come la sbilenca “Sottovoce”. La rotta è storta, quasi a rompere una monotonia, che personalmente non riesco proprio a trovare in questo album. La linearità del Pop ritorna a chiudere il cerchio con “Prendi Fiato”, facile, comoda e diretta. Non un singolone certo ma salvata dai versi di pura poesia recitati nel mezzo. “Ho lasciato quella brutta espressione del viso in uno specchio sempre più sfocato. Ho cancellato con una mano come si fa su di uno specchio bagnato il ricordo che nella testa girava. Solo prendendo fiato”. Sono arrivati tardi, ma posso dire che questo è uno dei dischi italiani più riusciti e più intensi dell’anno passato. Una vera sopresa.

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La Confraternita del Purgatorio – Pera

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Forse è questione di tara mentale ma io davvero non riesco a capire come si possa reputare musica ciò che esce da questo disco. Forse è solo perché nella mia vetusta e romantica visione ricerco ancora una melodia, una forza, una tensione. E non voglio scomodare né sentimenti, né emozioni. La Confraternita del Purgatorio è un trio pugliese che si definisce Medidative, Club Sandwich e Fuck-Noise, ma che spero si diverta a prenderci (e prendersi) per il culo. La speranza pare realizzarsi quando ai brani vengono affidati titoli come “Gianni (lo senti il profumo della vita??)” e se guardate il buffo Pac Man mangia merda nello sfondo del loro sito riuscite anche a fare due più due. In ogni caso però non riesco a capire se il gruppo si sforzi oppure no a tirare fuori l’accozzaglia di note e di suoni che invade il loro primo album Pera. Potremmo parlare di esercizio di stile o di puro caos anarchico. Ciò che mi turba per i venti minuti di rumore demenziale è la classica domanda: ci sono o ci fanno? Tutto ciò è frutto di una ricerca? Oppure è semplicemente un gioco in cui si entra in sala prove e si inizia a delirare, sperimentando note stridule, ritmiche storte e accelerazioni nevrotiche? “Black Is Like Heroin, Snellics” ne è l’esempio lampante. Un labirinto di pugni, di nevrosi e di qualche buon riff tiratissimo mischiato e storpiato in mezzo a rullate buttate a casaccio e prive di significato. Sembrerebbe un ottimo svarione studiato a tavolino, una vera provocazione suonata anche con buona precisione e attenzione, ma ciò che conta è il risultato che non va molto oltre il fastidioso.

Gli altri pezzi sicuramente si fanno riconoscere per estro e follia e se vogliamo possono anche strapparci un sorriso per l’idea malsana di chi li ha concepiti, ma non si possono considerare di certo canzoni. “Videodrome” parte con la linea di basso gutturale per poi arrivare ad un frullato di distorsioni in cui non si riconoscono più neppure i singoli strumenti, “Radio Maria” ruba le atmosfere e le sonorità ai videogiochi anni ’80 e le mischia con preghiere e prediche. “Canzone d’Amore” sfodera ritmi difficilissimi da assorbire e la sensazione è quella di avere degli gnomi malefici che prendono a zappate il tuo cervello, martoriandolo per due minuti. Anzi per quattro dato che in “PONG!” iniziano pure a mordere e graffiare. Io onestamente reputo che nella vita quotidiana ci siano già numerosi gnomi che mirano a sgretolarmi il cervello. Perché dovrei pure crearne degli altri ascoltando questo disco?

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Le Fate Sono Morte – La Nostra Piccola Rivoluzione

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Non saprei se farne un problema generazionale. Ma sicuramente il decennio 90 ha lasciato qualche suo residuo anche sulla mia pelle. Il suono della decadenza e dei muri sgretolati, delle incertezze, delle grida di rabbia, di oppressione. Un suono da cui difficilmente si scappa se sparavi Alice In Chains nelle cuffie del walkman, a testa bassa e sulla via del liceo. Questo scenario è infatti ritratto alla perfezione nel primo LP dei milanesi Le Fate Sono Morte. Combo Rock dal 2008, capitanato dalla attraente e dimessa voce di Andrea Di Lago. La setlist è proprio un esemplare preciso dei pezzi scritti in solitaria seduti per terra nella stanza da letto a macinare arpeggi, ritmiche nervose e testi di confusione e sorda ribellione. La musica è avvolta da una fitta nebbia già nei primi versi della ballata “A Parte il Freddo” dove il violino deciso di Daniele Pezzoni rimanda senza mezze misure agli Afterhours più melodici e diretti. “Ipnotica” e “Arriva la Neve” danno invece una sferzata più americana, con un Grunge classico e grintoso dove però la sezione ritmica (colpa forse di alcune timide scelte in fase di registrazione) non spinge abbastanza, non dando il giusto groove a due pezzi che meritano comunque di essere considerati un buon esemplare di Rock all’italiana. La voce di Di Lago è espressiva, graffiante, sofferta ma poco dinamica e pecca in monotonia. In ogni caso rimane una splendida timbrica, di quelle che riconosci alla primo verso che esce dall’ugola.

Grande pecca il singolo “È già Settembre”. Non rende proprio giustizia all’intero album, ritmica di chitarra e testo banalotti. Sicuramente non un’ottima scelta per rappresentare un disco che ha perle di maggior splendore, sebbene un grosso nuvolone sembra sempre contornare il suono delle Fate. Ben più ispirata “Anime Artificiali”, con una bella lirica di sentimenti ammaccati: semplice ma d’effetto la frase “a Milano l’amore è un’illusione, tu non scordarmi mai. Sei il fiore nel mio burrone, quando non ci sei”. Nel finale troviamo ancora spazio per una stanca e depressiva “Senza Pace”, dove spicca solamente il bel suono di basso distorto, costante e presente, poi per ultima arriva “Niente (nondiventeremoniente)”, finalmente un pezzo sui generis dove la voce quasi parlata dona intensità e spessore a un dinamico tappeto Post Rock degno dei migliori Massimo Volume. Non saprei dire se la nebbia si alzi o si abbassi, ma almeno si muove e non rimane anonima a mezz’aria. Ed è di movimento che questo gruppo ha bisogno. Attendiamo la prossima prova speranzosi di vederci qualcosa di più. O di meno.

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Claudio Cataldi – Homing Season

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Un cantautore siculo e suona freddo. Sicuramente caratteristica che, per quanto  possa essere considerata negativa, dona all’aspetto prettamente meridionale di Claudio Catoldi un tocco esotico. La sua musica è contaminata dal ghiaccio e da quella malinconia che si trova solo scavando a fondo. Perforando la pelle, pescando la naturalezza e (perché no?) anche la semplice bellezza dei sentimenti cupi. Quello che ne esce è sicuramente un suono triste, tagliente ma anche vero, sincero e che riesce a sfiorare appena la nevrosi senza mai chiamarla direttamente in causa. Facile appoggiarsi a suoni isterici per affrontare il proprio disagio. La “gestione del dolore” nella musica di Claudio è ragionata, studiata nei minimi dettagli e mai scaraventata istintivamente. E forse in questo modo riesce addirittura a fare più male, ma anche ad essere più espressiva e profonda. L’inizio di “Song of Hate” si presenta con una batteria soffusa ma che si insedia nelle nostre vene con la sua marcia dritta e costante. Poi delay sulle voci e l’arpeggio di chitarra conducono alla fantastica apertura governata dai violini. Semplicemente gran bella musica e gran belle atmosfere in una prima canzone che sembra accompagnarci tra montagne innevate. Altro che la caldazza di Palermo.

Il sound molto americano si ripete anche in “September Air” dove l’aria si scalda un pochino ma la brezza persiste. Ci taglia la pelle e prova ad addentrarsi nelle nostre aree più oscure. Dopo un po’ di resistenza cediamo sull’assolo di chitarra che scruta ogni singolo anfratto di noi. E il titolo della successiva “Let’s Go to the Secret Place” si sposa benissimo con il sentimento provato nella precedente canzone. Qui le ritmiche accelerano e una melodia Pop ci rilassa, ma è solo apparenza. “Self Esteem” è infatti storta e contorta, anch’essa prodotta con sopraffina attenzione non solo sonora ma addirittura emotiva. “Take Care” è invece una ballata lenta e struggente che fosse cantata in italiano ricorderebbe i Perturbazione più oscuri. Gli accenni di Post Rock non si sprecano e “A Magic for You” ne è la dimostrazione lampante, ma sono le variazioni Folk che colpiscono di più come nell’incalzante “Unconfined”: le barriere vengono abbattute e veniamo mollati in bilico tra un dolce sonno e un terribile incubo.

Ogni singolo nota di ogni singolo strumento sembra posizionata nel giusto istante. Non un suono di chitarra uguale tra due pezzi e una varietà di atmosfere che si mischiano nella nostra testa. Il freddo è il comune denominatore. In questo disco dunque troviamo il tremolio costante delle nostre paure più vive, il gelo che percorre la spina dorsale quando al cervello arriva un lampo di ricordi dispersi e il ghiaccio che si scioglie per l’odio. Ma  che comunque lascia le sue tracce. Perché il ghiaccio con l’odio non si scioglie mai del tutto. Il freddo ci avvinghia e si impossessa di noi. Sicuramente in questo disco non si tratta di una questione di terra o di pelle, ma di quello che c’è dentro. E Claudio, se non l’avete ancora capito, dentro ci arriva benissimo.

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Bruce Springsteen – High Hopes

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Due premesse sono dovute. Punto primo: sono un fan del Boss dal 2009 (ovvero dalla prima volta che l’ho visto dal vivo) al punto da esserne quasi patologico. Quattro concerti (solo?) in stadi che quella notte sembravano il salotto di casa mia pieno di 70.000 parenti e amici del cuore. Un inequivocabile tatuaggione tamarro sul polpaccio a citare “Born To Run” (con tanto di font uguale al disco). E soprattutto non passa giorno della mia vita che non ascolti almeno una sua canzone, come una medicina contro qualsiasi accenno al mal di vivere o semplicemente per amplificare qualunque piccola o grande emozione. Punto secondo: ad essere onesti, su questo disco di “grandi aspettative” non ne avevo proprio. Non sono per nulla un sostenitore del chitarrismo di Tom Morello, soprattutto in tutto ciò che va fuori dal suo seminato (che a mio avviso si limita ai Rage Against The Machine e poco altro). La notizia della sua presenza in quasi tutti i brani di un album costruito da canzoni rispolverate dal passato non mi convinceva per nulla. Lo ammetto mi puzzava di un disco di auto-cover, registrato in tour con take recuperate dagli archivi. E non ne capivo la necessità. Ma Springsteen non fa nulla a caso e sapevo che la sorpresa sarebbe stata dietro l’angolo.

High Hopes infatti è un buon lavoro, incredibilmente compatto nella sua disomogeneità. Un blocco unico nonostante il minestrone di canzoni pescate qua e la nel tempo. È solido ed è il disco più Rock’n’Roll del Boss dai tempi di Lucky Town/Human Touch. Meno ispirato del rabbioso e corale Gospel di Wrecking Ball, da cui eredita però un pugno chiuso e il muscolo teso. Ma quello quasi mai è mancato nella discografia dell’eterno ragazzo del New Jersey. Anche la produzione, mescolata pure quella tra il superbig Brendan O’Brien e Ron Aniello, segue comunque una linea ben definita con la chitarra di Tom Morello che spinge tutto sull’acceleratore e la voce di Bruce, sempre più in forma e sempre più espressiva. A tracciare una strada che non presenta alcuna incertezza. E poi c’è tutta la E-Street Band, comprese registrazioni dei compianti Clarence Clemons e Danny Federici. Sentirli suonare (anche su disco) è sempre un brivido sulla pelle. La title track è una cover dei californiani The Havalinas. Rullante incalzante, percussioni, chitarre acustiche, cori e fiati a profusione. Poi l’inconfondibile chitarra di Morello, forse non quello che ti aspetteresti, ma il corpo si muove senza freni: ottimismo e fede. “Harry’s Place” è scura con basso e synth in primo piano, il sax di Clarence Clemons porta la canzone ad un altro livello. “American Skin (41 Shots)” è un brano del 2001 e rinasce in chiave più rabbiosa e moderna con tanto di bit campionati. Perde però un po’ l’umanità e il melanconico incalzare presente nella versione del “Live in New York 2001”. In ogni caso registra il miglior assolo di Tom Morello in questo disco. Non c’è dubbio che il suo modo di suonare (a meno di sbrodolamenti eccessivi) sia a dir poco geniale. Anche “Down The Hole” parte su suoni campionati poi ruba il ritmo a “I’m on Fire”, non risulta memorabile nonostante la splendida voce di Patti Scialfa, l’organo di Danny Federici e il testo di una spiazzante semplicità e che (come al solito) trafigge il cuore: I got nothing but heart and sky and sunshine, the things you left behind. “Heaven’s Wall” risolleva decisamente il morale: cori Gospel, temi biblici e l’assolo di Morello anche qui superispirato. La speranza si trasforma in allegria dentro la pazza storia di Shakespeare e Einstein che si bevono una birra insieme e discutono sull’amore in “Frenkie Fell in Love”.

Discorso a parte per la stravolta “The Ghost of Tom Joad” che provoca in me sentimenti contrastanti. Ad accompagnare Springsteen c’è la voce dell’onnipresente Tom Morello. Ottimo interprete vocale, ma ora la sua chitarra è troppo. Molto più vera e sentita la versione acustica del 1995. Certo, anche ora l’odore della strada e della lotta non vengono meno. Il sali-scendi da manuale è dopotutto firmato della magica E-Street Band. Il brano più toccante è il Valzer dal sapore dylaniano “Hunter of Invisible Game”, colma di richiami religiosi, di forza, di ricerca della pace e di futuro. Strength is vanity and time is illusion, I feel you breathing, the rest is confusion: pezzo che vale il disco. Anche “The Wall”, ballata dedicata a un soldato scomparso in Vietnam, è da pelle d’oca, già solo per l’arrangiamento e per le corde vocali del Boss. Lui è proprio il capo. Il capo capace di incanalare le nostre emozioni più forti e sbattercele in faccia con quella facilità del nonno che ti racconta la storia al bordo del tuo letto. E non ha paura a parlarti di morte e distruzione, perché sa benissimo che tu saprai essere più forte di tutto questo.

Insomma dopo innumerevoli ascolti non posso certo dire che questo sia un disco inutile. Per fortuna il mio pessimismo in partenza era eccessivo. Come tutto ciò che Springsteen fa, anche questo disco risulta essere necessario. Almeno per la mia salute.

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2nd District – What’s Inside You

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Di Punk-Glam-Sleazy Rock credo se ne sia visto a bizzeffe negli ultimi quindici anni, soprattutto nel Nord Europa. C’è chi ha solamente messo due litri di lacca nei capelli, si è piazzato qualche tatuaggio da duro e ha smaltato gli occhi con l’eyeliner più resistente. Ma come in tutti i fenomeni di costume, c’è chi ha pure sfornato un pane molto gustoso per gli amanti del genere. Ha preso l’eredità di Guns N’Roses e Hanoi Rocks dando una forma al proprio suono, con canzonette che sicuramente non entreranno mai nella Rock N’Roll Hall of Fame, ma hanno fatto muovere il culetto a migliaia di ragazzini in calore. Detto onestamente, tra queste band fino a ieri io non avrei mai inserito i tedeschi 2nd District. Visti dal vivo un anno e mezzo fa a Torino di supporto ai Prima Donna (band da tenere d’occhio), i quattro non mi avevano particolarmente colpito né per attitudine, né per groove e tanto meno per le canzoni. Su questo disco invece svoltano. Il loro secondo album suona un Power Pop facile, diretto, schietto. Tra accenni di Post Punk e il sound ruffiano e moderno dei Pretty Reckless. Con la voce di Marc de Burgh in primo piano che non strappa di certo via le nostre orecchie con violenza, ma anzi spesso è sinuosa e femminea. Verrebbe da ridere a pensare che un omone vestito scuro e con i braccioni tatuati possa cantare in questa maniera, ma tra un sorriso che scappa e uno scossone alla testa in segno di disapprovazione, ci viene pure da battere il piedino a tempo.

Il giro di basso per nulla banale che introduce “Broken Bits of a Lifetime” ci porta diretti su un treno veloce che mantiene però ben salda la traiettoria. Nulla di nuovo insomma, tanti power cords e assolini, ma una buonissima intuizione melodica. “Borgeoise Attitude” è il brano di punta del disco, i Backyard Babies sono un po’ ammorbiditi, ma il richiamo al freddo sound svedese è praticamente scontato. “Wherever” è più facile, ma non manca di mordente con un ritornello scanzonato e cantato a squarciagola in coro. Basso e batteria stanno sui binari e vantano un amalgama furba, mai troppo calda e mai troppo fredda. Giusto per rimanere ben ancorati alla locazione geografica. “Market Crash” e “Bad Habit” pagano il loro tributo al glorioso Punk inglese targato 1977, con rullate veloci e ritornelli da calci in faccia, invece “Pain Museum” è uno dei pochi episodi “ricercati”. Sia ben chiaro: senza esagerazione, con il ritornello da chitarra in spiaggia e l’eyeliner che si sfalda e cola nel romanticismo più bieco.

In ogni caso questo è un disco che si fa ascoltare tutto d’un fiato (dote rarissima al giorno d’oggi) e soprattutto è degna di nota l’assenza di riempitivi. E sebbene possa suonare a tratti banalotto, ha nel suo punto di forza l’ottimo bilanciamento tra Pop mainstream e Punk incazzoso, tutto in equilibrio senza forzature. Il rischio era forte, ma per fortuna questa pare non essere musica scritta per mettersi semplicemente in vetrina.

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Le Top 3 italiane del 2013 dei singoli redattori!

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Silvio “Don” Pizzica
InSonar/Nichelodeon – L’Enfant et le Ménure / Bath Salts
Due creature distinte, una neonata, InSonar, l’altra vecchia conoscenza dell’Avant Prog, Nichelodeon, ruotano entrambe attorno alla figura di Claudio Milano. Uno split composto di quattro cd per due parti. I primi due firmati InSonar sono avvolti in un booklet contenente alcune opere di Marcello Bellina (in arte Berlikete) e quindi mosaici di Arend Wanderlust. Il progetto di Claudio Milano e Marco Tuppo vede la partecipazione di sessantadue musicisti da tutti i continenti. Il terzo e quarto cd, a firma Nichelodeon, vedono un booklet che contiene i dipinti e le poesie visive di Effe Luciani e le foto di Andrea Corbellini. La musica che è contenuta è un tripudio di Rock Sperimentale, Jazz, Progressive, Pop, Cantautorato, Ambient, Psychedelia e tanto altro. Difficile spiegarlo in poche parole.
Deadburger Factory – La Fisica delle Nuvole
Il collettivo work in progress, definito in questa circostanza “factory”, confeziona tre dischi sensazionali, ognuno vivo di una propria essenza, eppure capace di collimare nell’altro con efficacia. Musica sperimentale per gente normale.
Twomonkeys – Psychobabe
I due fratelli bresciani affermano il loro ruolo nel panorama elettronico italiano, rivelandosi come l’alternativa tricolore agli Animal Collective. Il loro è un album che deve tanto alla psichedelia di Panda Bear e soci ma disdegna incursioni nel mondo Indie e Garage Revival e nella sperimentazione matmosiana.

Marco Lavagno

Albedo – Lezioni di Anatomia
Un disco geniale. Ogni brano è un organo del nostro corpo. Indie rock che suona fresco, dinamico, melodico, forte come una voce che risuona nella nostra cassa toracica. Un lento viaggio emotivo dalla testa ai piedi.
Nadar Solo – Diversamente Come?
Potenza e testi generazionali. Il suono della band torinese è senza fronzoli, incredibilmente moderno. Canzoni per sognatori che si schiantano a terra ma non perdono mai il coraggio di sognare ancora. Nulla di più necessario al giorno d’oggi.
Perturbazione – Musica X
E’ stato etichettato, ancora prima di uscire, come il disco “elettronico” di un gruppo che ha sempre integrato le corde (non solo quelle della chitarra) al suo tratto somatico. Max Casacci entra prepotentemente nel sound e lo “perturba” senza snaturare la sua semplicità. Un applauso al coraggio e alle grandi canzoni che questi ragazzi riescono ancora a scrivere dopo 25 anni.

Diana Marinelli
Carmilla e il Segreto dei Ciliegi – Anche Se Altrove
La musica come essenza di infiniti mondi mentali. Anche se Altrove è una porta, un varco che se attraversato porta ad un’esistenza parallela fondamentale per ricominciare un nuovo viaggio, sulle vie e sulle emozioni di una vita già vissuta, forse da cui prendere esempio. Un lavoro molto interessante, studiato e soprattutto vissuto nel tempo.
ILA & The Happy Trees – Believe it
Roba da donne. E se questo significa bel timbro, bella musicalità e bell’intonazione, sia in italiano che in inglese, allora sì, è roba da donne. Tante persone, tanti colori e tante esperienze che si incontrano per un album per certi versi solare, dove protagonisti siamo tutti noi con la voglia di fare tanto e di lavorare per cambiare ciò che ci sta stretto. Una musica che lascia addosso belle sensazioni e belle emozioni.
Bruno Bavota Ensemble – La Casa sulla Luna
Il fascino di una melodia malinconica e di un pianoforte senza tempo, che però il tempo ce l’ha eccome e non solo uno preciso di metronomo ma un tempo di un determinato momento storico musicale, quello minimale/contemporaneo. Un lavoro che impone tanti interrogativi ma che ho rivalutato nel corso del tempo grazie alle sensazioni che lascia addosso. Sensazioni sincere.

Simona Ventrella
Fast Animals and Slow Kids – Hybris
I ragazzacci perugini hanno confezionato un secondo album esplosivo nel quale non mancano talento, energia e passione a tutto gas. Probabilmente quest’album rappresenta per loro un vero salto di qualità, che li ha portati in giro per l’Italia con un lungo tour e li ha fatti conoscere e apprezzare ad un pubblico maggiore.
Appino – Il Testamento
Primo lavoro solista del frontman degli Zen Circus da dieci più, testi profondi e mai banali, cantautorali al punto giusto conditi da un sound deciso, cupo e decisamente Rock.
Green Like July – Build a Fire
Terzo album per il gruppo milanese  che ci offre un lavoro ricco e variegato impreziosito dagli arrangiamenti di Enrico Gabrielli. Una tavolozza di colori e atmosfere che ti catapultano in altrettanti mondi sonori. Il cambiamento rappresenta per questo lavoro il leitmotiv che giuda le nove tracce verso un Pop fresco e moderno.

Riccardo Merolli
Soviet Soviet – Fate
Fate è ipnotico, avvolgente, straniante, di quei dischi in cui perfino le imprecisioni ti sembrano messe ad arte. I Soviet Soviet dimostrano appieno di aver digerito la lezione New Wave e Punk.
Cosmo – Disordine
Immaginate Lucio Battisti catapultato negli anni dieci sopra una DeLorean con tutte le diavolerie tecnologiche di questo periodo storico e l’intenzione di incidere Anima Latina, il risultato sarà un disco terribilmente Elettro Pop.
Albedo – Lezioni di Anatomia
Disco bomba. Arriva dritto dentro lo stomaco, Post Rock emozionale e testi bellissimi. Meritano veramente tanto gli Albedo.

Marco Vittoria
Appino – Il Testamento
Difficile staccarsi dal cordone ombelicale, soprattutto se “la mamma” in questione è un’entità chiamata Zen Circus formata da tre validi musicisti che insieme formano un vero e proprio treno sonoro… Tuttavia Appino esprime a pieno la sua creatività artistica in questo lavoro, suo esordio da solista, non rinnegando il passato ma gettando anche le basi per un nuovo futuro… Mi chiedo quindi… Come suoneranno i nuovi Zen Circus nel 2014?
Gazebo Penguins – Raudo
Il trio emiliano torna ad imporsi come una delle realtà sonore migliori italiane a soli due anni di distanza dal precedente lavoro, “Legna” con una potenza e una grinta senza eguali che si distinguono sin dalla prima traccia “Finito il caffè”, pubblicato anche come singolo in contemporanea all’album. Messaggio per le generazioni di oggi: lasciate perdere gli artisti che emergono dai talent in tv e ascoltatevi un prodotto genuino e vero dell’underground.
Lolaplay – La Città del Niente
Loro ironicamente dicono in una canzone del disco: “non comprate questo disco e non ascoltate i Lolaplay o ucciderete anche voi la buona musica!”. La buona musica è invece tutta qui, sempre in bilico fra il Noise dei Marlene Kuntz, la New Wave anni ottanta e il Rock dei Dandy Warhols… Interessante vero?

Lorenzo Cetrangolo
Ministri – Per un Passato Migliore
Il Rock popolare italiano come dovrebbe essere oggi. Spigoloso e orecchiabile, potente e sentimentale. Una produzione ruvida per un disco da consumare.
Selton – Saudade
Brasiliani trapiantati a Milano, i Selton creano un disco veramente pop, nel senso più alto del termine. Non c’è una nota fuori posto, tutto scorre liscio e comodo, ma senza banalizzare nulla. Una delle migliori band in circolazione.
In Zaire – White Sun Black Sun
L’underground italiano, quello che spacca tutto. Tribali, energici, psichedelici. Un disco strumentale che ti rivolta il cervello come un calzino.

Vincenzo Scillia
Sophia Baccini’s Aradia – Big Red Dragon
Un disco proposto da un artista dalle mille sfaccettature. Particolare su ogni fronte, una ventata di freschezza ed un cavallo di battaglia dell’ etichetta.
Corde Oblique – Per le Strade Ripetute
La musica di Riccardo Prencipe è ormai un manifesto del Sud, di Napoli, dei Campi Flegrei. Questo un lavoro ispirato e sviluppato con tanta passione. Tutto ciò non fa altro che assegnare punti ai Corde Oblique oramai una certezza.
Lili Refrain – Kawax
Kawax di Lili Refrain è un disco sperimentale, atmosferico. E’ un irrefrenabile viaggio mentale accompagnato da colori neri come l’ oscurità, rosso come la passione ed un sinistro verde scuro. Insomma una perla di questo 2013.

Giulia Mariani
Luminal – Amatoriale Italia
Distorti, veloci ed incazzati, con Amatoriale Italia i Luminal hanno fotografato e descritto al meglio lo scempio di quest’Italia marcia, corrotta, bigotta e intrappolata tra luoghi comuni inutili e finti alternativi contornati d’oro. Una botta di adrenalina pura!
Ekat Bork – Veramellious
Di origine russe ma stabilita nella svizzera italiana da una vita, Ekat Bork crea atmosfere elettroniche ispirate ad ambienti naturali come boschi e fiumi, condendo infine il tutto con una voce alla Florence Welch. Un album unico, che si contraddistingue per un’innegabile ricerca sonora, cura dei dettagli ed arrangiamenti complessi che rendono Veramellious un’esperienza d’ascolto dentro e verso un’altro mondo, un mondo fantastico ed etereo.
Miranda – Asylum: Brain Check After Dinner
Il trio fiorentino ritorna dopo quattro anni sfornando un concept album per reclusi e disadattati, tra grida di rivolta, suoni sintetizzati ripetitivi, attitudine punk, e chaos organizzato. Non so, sara’ perchè mi piacciono i piu’ internazionali Atari Teenage Riot, ma il fatto che Asylum: Brain Check After Dinner mi spacchi la testa ogni volta che lo ascolto mi fa impazzire!

Maria Petracca
Umberto Maria Giardini – Ognuno di Noi è un po’ Anticristo
Un viaggio psichedelico all’interno di sé stessi, sottoforma di EP. Severamente vietato a chi ha paura di guardarsi dentro fino in fondo, a chi non ha il coraggio di scoprire che non siamo né Santi né Eroi, come amiamo dipingerci. Perché c’è del bello e del brutto in ognuno di noi. In fondo, “Ognuno di Noi è un po’ Anticristo.
Dimartino – Non Vengo più Mamma
Anche in questo caso di EP si tratta. Chi aveva ancora dubbi sulle capacità cantautorati di Dimartino, con questo disco vedrà svanire ogni forma d’ incertezza. In più avrà modo di stupirsi di fronte ad un lavoro ricco di sperimentazioni: elettronica e cantautorato che vanno a braccetto per strada. A mio parere un esperimento riuscito. Fortunato chi ha potuto goderselo anche in versione live.
Perturbazione – Musica X
Ancora un sound più elettronico rispetto a quello dei dischi precedenti, ancora un esperimento riuscito per chi, da anni, propone una forma di Pop Rock d’autore capace di affrontare in modo leggero, ma mai banale, le varie tematiche legate alla vita quotidiana (e allo scazzo che irrimediabilmente ne deriva) e non solo. Nel 2014 avremo modo di ascoltarli anche a Sanremo.

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Funkin’ Donuts – Funk Tasty KO

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A volte capitano tra le mani rudimentali registrazioni di band acerbe che danno un bello scossone alla spina dorsale. Nonostante arrangiamenti raffazzonati, voce traballante, e suoni grezzoni da garage putrido, i romani Funkin’ Donuts sono coraggiosi e determinati. Coraggiosi anche perché suonare Funky, cantato per altro in italiano (tre pezzi su quattro sono in madrelingua), nel 2013 è atto di purezza e onestà. La moda dei Red Hot Chilli Peppers è sicuramente passata da qualche anno e di gruppi con questo sound indistinguibile non se ne vedono molti nel nostro orizzonte.

Attenzione, nulla per cui strapparsi i capelli o gridare al fenomeno. Semplicemente una band che ben esprime il suo piacere di suonare insieme. Senza grandi pretese e con i piedi ben ancorati a terra. Piedi non per questo fermi, scossi dal ritmo già deciso dalle prime note di “Guarda Avanti”, un classico groovone ben scandito da basso e batteria da manuale e una chitarra che fa molto il filo al buon vecchio John Frusciante. Purtroppo la voce di Flavio Talamonti non sempre riesce a convincere, soprattutto nelle parti più gridate e nei testi spesso banalotti. La pecca maggiore dell’EP però viene subito fuori e riguarda la registrazione, ben lontana dall’essere professionale, e dire che in questi periodi registrare decentemente un disco a basso costo sembra non essere più così ostico. L’insieme sicuramente perde ma per fortuna la botta non viene tralasciata.

Una maggiore cura in registrazione e arrangiamenti più attenti avrebbero dunque fatto decollare un brano come “Dammi un Buon Motivo”. Le idee si accozzano una all’altra tirando fuori una poltiglia mal amalgamata nonostante i buoni propositi e il buono stato di forma della band che jamma come se non ci fosse un domani. Un po’ di ordine forse non guasterebbe anche in “J.B.”. L’unico brano cantato in inglese si presenta con stacchi storti, attitudine meno friendly e chitarre alla James Brown. Tutto contornato dal solito groove insaziabile.

Il piede continua a battere senza sosta fino alla fine, anche nell’ultimo episodio di questo breve ma intenso EP. E allora “Drop D” non riserva sorprese se non un po’ più di rabbia, che avvicina il sound a quell’immensa realtà che erano i Rage Against the Machine. La forza non manca, la proposta è buona anche se non suona di certo innovativa, ma direi che non ha nessuna pretesa di esserlo. E questo EP, nonostante tutti i difetti che presenta, suda, vive e sporca. Di sicuro, non è poco!

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Furious Georgie – You Know It

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E’ difficile catalogare il progetto solista di Giorgio Trombino, musicista palermitano che si propone in veste solista sebbene sia già conosciuto per militare in numerosissimi gruppi underground siculi. Il ragazzo spazia molto e lo racconta già la sua biografia. Tra le sue “corde” c’è il Death Metal degli Haemophagus, lo Stoner dei Sergeant Hamster e degli Elevators to the Grateful Sky, fino ai suonatori di colonne sonore Funky-Jazz: The Smuggler Brothers. Un bel minestrone mi verrebbe da dire, ma più che altro nulla a che vedere con questo suo primo album.
Giorgio parte in quarta con il blusaccio di “Giggrind”, voce graffiante, armonica impazzita,  battiti di mani e chitarra acustica sparata a macinare groove. Muddy Waters con un tocco di bianco, sembra quasi che Palermo abbia il suo Jack White. Con “Screaming Parrot” le sonorità si placano e George Harrison benedice uno dei brani tra i più riusciti del progetto, spostando improvvisamente la rotta da una simpatica cavalcata verso gli inferi ad una onirica traversata di nuvole e arcobaleni. Il Blues torna un po’ più ammorbidito con “Day of the Dead” e “Lost and Found”, arrivano anche echi a giovani e vecchi cantautori americani con le loro infinite praterie ed il vento tra i capelli (due nomi? Ryan Adams e Neil Young su tutti). C’è anche spazio per un brano in italiano dalle vedute Progressive, che da ancora più colore al suono. Il pennello però rischia di uscire dalla tela, imbrattando tutto ciò che sta intorno. Le idee di “NGC 6543” sono comunque ottime con echi alla Ziggy Sturdust riuscitissimi, peccato che la canzone sia veramente fuori dal seminato. Sicuramente un pezzo spiazzante e non consono alle sonorità del disco, messo a metà scaletta e di durata nettamente superiore rispetto al resto. Scelta coraggiosa, ma priva di gran senso logico.
Le distanze sono dilatatissime nella cantilena di “Years Gone by” e nella struggente ninna nanna di “Watch the Drift as it Goes”, Furious Georgie dimostra che la musica del diavolo è nelle sua anima e la scarna produzione aiuta semplici canzoni come queste ad elevarsi nell’atmosfera. Nel finale del disco c’è spazio per altre sfumature: la divertente e spensierata “Kiwi Roll”, la furente (sebbene acustica) “Armed Peace” e per concludere la ballata “Young Lard” che strizza l’occhio alle lunghe cavalcate di Jagger e Richards.
Questo è un disco che non annoia. Eterogeneo, variopinto e estroverso. Geogie non ha di certo paura ad esporre la sua immensa e rara creatività, aiutato da una versatilità che è dimostrata non solo da questo album, ma già anche dalle miriadi di diverse collaborazioni a cui partecipa. Il palermitano esprime bene il Blues, gli ampi spazi di un Cantautorato distante, le note lunghe del Progressive e gli episodi più svarionanti del Rock inglese anni 60. Qui però la sensazione è che le grandi idee (che è inutile nasconderlo, ci sono!) siano offuscate dalla foga di mettere troppa carne al fuoco. Peccato perché con qualche pezzo in meno e con qualche melodia in più questo sarebbe stato davvero un disco grandioso. Sperando in meno impulso e più riflessioni, aspetto con ansia il secondo episodio.

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December Hung Himself – Ivory

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Il suono della notte, con tutte le contraddizioni che il tramonto può provocare. Questo disco è dunque una camminata in una radura stellata, ma anche un incombente pericolo. Un lungo e intenso sospiro di sollievo ma pure un incubo ben insediato nella mente. December Hung Himself è il nuovissimo progetto parallelo di due musicisti sardi ben noti nel panorama underground nazionale, ovvero Aurora Atzeni (Thank U For Smoking) e Nicola Olla (militante nei punkers Curse this Ocean e chitarrista/tastierista dei Charun, sound più affine a questo progetto). Il loro primo EP Ivory è indubbiamente un buon biglietto da visita dove il Post Rock più classico trova la sua dimensione molto buia ma non per questo solo scura e tetra. I ragazzi riescono bene a donare al loro prodotto tutte le sfaccettature necessarie per farci apprezzare la solitudine, la tranquillità e (perché no?) anche la pericolosità della notte. Il titolo del disco è quasi un ironico contrasto, a sottolinearci come il candore dell’avorio possa integrarsi bene nel cielo stellato. Titolo freddo come il panorama che ci sta intorno.

L’ultimo fascio di luce è gettato proprio in apertura. A descrivere il crepuscolo di questa breve ma intensa oscurità ci pensa l’arpeggio di chitarra che introduce “And the Crows”, dove le voci dei due ragazzi si fondono magicamente creando melodie dilatate, in bilico tra serenità e paura. La luce scompare e i nostri occhi si devono abituare al tenue bagliore delle stelle. Le atmosfere non cambiano molto in “Galleyworm”. Già ci svegliamo nell’intro, punzecchiati dal gelido arpeggio elettrico e dalla distante voce di Aurora e poi arriva un ritmica decisa rocciosa che si schianta sul nostro viso. “Drag me Down” pare invece un cieco viaggio in abissi marini. Da sottolineare le numerose aperture melodiche che, anche se espresse da voci soffuse e nascoste, ci regalano un respiro a pieni polmoni. Infine “Alive” chiude il cerchio con una chitarra che pare un carillon scarico.

L’EP non è certamente qualcosa di memorabile, ma vanta una determinante qualità. E’ suonato per davvero e si sente, non perde mai di concretezza e di credibilità. Il tocco umano sullo strumento dona una marcia in più a brani che non spiccano per originalità. Una bella dimostrazione a tutti gli amanti del sintetico. Questo è un bel maglione di lana, forse un po’ largo e démodé, di quelli che danno un po’ fastidio punzecchiandoci al collo. Ma sicuramente è un sincero riparo in questa gelida notte.

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Tim Hecker – Virgins

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Nonostante tutti i pregiudizi e le tare uditive che mi contraddistinguono, in questi due anni con Rockambula ho scoperto e apprezzato orizzonti a me prima oscuri. Ho sempre dosato gli ascolti, ricercando minuziosamente la passione e la primordiale voglia di musica, a volte ben nascosta, ma comunque illuminata dietro ogni nota. Ho cercato di guardare oltre, ma giustamente il gusto si insinua prepotentemente nel giudizio. E così a questo giro mi sbilancio senza mezze misure davanti ad un artista blasonato a livello internazionale come il produttore canadese Tim Hecker. Il suo nuovo lavoro Virgins è nebbia. Nulla che si riesca a toccare con mano. Come quando si prova ad assaggiare un buon vino durante una fortissima congestione nasale, si percepisce la qualità ma non si distingue il sapore. Un grigiore di suoni ben incastrati, condotti all’unione da una sopraffina tecnica, da matematici arrangiamenti.

La descrizione del vuoto inizia con i loop di “Prism”. Ci troviamo in un deserto di alluminio e cemento. Spazi immensi ma che ci stanno stretti, gridiamo e nessuno ci sente. L’eco metallico della nostra voce non basta a rasserenarci e nemmeno a spaventarci. Il piano di “Virginal I” è robotico, martellante per sei minuti e mezzo di strazio che terminano con un suono gracchiante e sgradevole. Sale la voglia di sparare alle casse dello stereo. Per fortuna arriva un po’ di luce con “Radiance”, un’alba sintetica avanza lenta all’orizzonte.  La luminosità viene però sotterrata da “Live Room”, un ottimo gioco di tecnica dove il sangue viene totalmente estirpato dalle vene. Di umano in questo suono non c’è proprio niente.

La musica del produttore di Montreal non è nient’altro che energia potenziale. Energia mai sprigionata: una bocca che si spalanca senza gridare, un suono morto. Il tuffo infinito continua in “Virginal II” sempre sintetica e ossessiva come la prima parte del brano. L’unico episodio che ci regala melodia è “Black Refraction”, il piano finalmente esprime un canto soffice e triste come un sogno perduto. Proprio un bagliore, un battito cardiaco in mezzo al nulla, che porta ad immaginare come sarebbe stato diverso questo disco con un briciolo di colore in più. Il resto di “Virgins” è di nuovo aria fritta, con qualche sporadico colpo di scena o spunto di dinamica, senza uscire mai dai binari di uno stile totalmente apatico, privo di spina dorsale e di mordente. La fusione di suoni così visivi non scaturisce nessuna emozione, non smuove nessuno dei miei sensi. Attenzione però, appelliamoci pure all’ignoranza. A dire tutto ciò rimane uno che fino a ieri credeva che il drone fosse solamente il mostro di Alien.

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Massimo Volume – Aspettando i Barbari

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La cruda realtà e la terrena poesia. Questo sono i Massimo Volume e lo si sapeva già. Non serve di certo il nuovo e ispirato episodio a raccontarci che cos’è questo tripudio di Post Rock viscerale, sempre più preso da raptus isterici, suoni spigolosi e ora contornato pure da una fredda lama elettronica. Emidio Clementi e colleghi non lasciano di certo spazio a voli pindarici e le loro parole “parlate” non distolgono lo sguardo da terra, un terreno ancora più arido, pronto a essere raso al suolo dai questi barbari. Gli occhi scattano verso il cielo solo per imprecarlo. Ma non è una raffica di bestemmie e urla forsennate, tutto è ben dosato e ragionato. Cuore, pancia e cervello lottano e si mescolano insieme come entità contendenti e complementari. Ad accogliere il ritorno della band bolognese ci pensa uno dei brani più interessanti e intriganti. “Dio delle Zecche” ruba le parole a Danilo Dolci e le modella in mezzo al vento   gelido di synth. La speranza è molto lontana, ma vediamo forse la timida luce di un Dio minore? Noi che accendiamo lumi per nasconderci le luci, più confortevole inselvarsi appiattandosi zecca.  Ma niente sospiri di sollievo, i Massimo Volume distolgono subito le rade illusioni con “La Cena”, rasoiata che taglia in due lo stomaco. “Aspettando i Barbari” è invece un brano lento e pesante, calibrato in ogni sua sillaba e arpeggio, le ritmiche di Vittoria Burattini giocano di dinamica senza abbassare mai la guardia e la sensazione di attesa (o di agguato?) aleggia nei quattro pesantissimi minuti. Cosa stiamo aspettando? Attendiamo un nuovo inverno per rimpiangere l’estate? O per progettare una rivincita? Per ora subiamo la certezza della lancetta che scorre e ci vede inermi. Pronti a essere invasi e stuprati da un treno ignoto.

I pezzi, nella classica tradizione della band, sono provocatori, pazzoidi, ricchi di citazioni più o meno dirette. Evocazione di un suono libero. Il grido selvaggio di chi può e vuole gridare con tutta la sua voce, ma questa voce si limita a parlare. Tanto questa metodica narrazione basta e avanza. Sprigiona la rabbia più profonda. “Vic Chesnutt” paga il suo tributo al tormentato cantautore statunitense, l’angoscia vibra nelle vene a ritmo di Noise e sonorità quasi Industrial. Una corona di spine, appoggiata sul palco, tra la chitarra e la spia, dona un immenso senso di vuoto, paragonabile proprio alla scomparsa di un artista a cui sei devoto. Anche la Dymaxion Philosophy del geniale architetto Richard Buckminster Fuller vive in questo disco (“Dymaxion Song”). DY (dynamic) MAX (maximum) ION (tension), nulla di più azzeccato potrebbe descrivere questo lamento costante. “Il Nemico che Avanza” cita Mao TseTung, invece “Compound” descrive la morte di Osama Bin Laden, agonia e un sorriso diabolico. Il male non verrà estirpato. Tanto vale conviverci, aspettandocelo alla spalle. “Silvia Camagni” è il richiamo più evidente dei vecchi Massimo Volume. Semplicemente una storia, semplicemente una poesia dentro la storia. Si lasciarono come tutte le cose destinate a dividersi, come il mare e la terra e conserva l’amore per quando fa freddo sono solo due gemme che nascondono dietro il fitto strato di polvere la loro lucentezza. La carne è raccontata da tutte le sue bruciature. Cicatrici che faticano a formarsi, lembi ancora sanguinanti al solo ricordo del taglio. Il suono è greve, cupo, martoriato e il basso di Emidio galoppa insieme alle sue narrazioni, mano nella mano giù negli inferi in un finale da incubo. Incubo da cui non ci svegliamo fino all’ultima nota del disco. “Da Dove Sono Stato” è la perfetta canzone per un lacerato e meditato addio.

Addio che sarà un arrivederci, con lesioni sulla pelle ancora vive. Con le orecchie stravolte e la bocca impastata anche se le parole sono solo ascoltate e non apriamo mai bocca. Perché anche se fa male, anche se spesso risulta sgradevole, il suono dei Massimo Volume non lascia mai indifferenti. E a casa mia ciò che ripudia l’indifferenza si chiama passione.

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