Kyuss Tag Archive

E tu, che ascolti come antidoto ai tormentoni estivi?

Written by Playlist

Come il caldo torrido, i tormentoni estivi incombono e turbano la nostra quiete in queste lunghe giornate di luglio.
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Queens of the Stone Age – In Times New Roman…

Written by Recensioni

Josh Homme e soci hanno dato priorità alla sperimentazione, esplorando le profondità più scure della loro creatività per realizzare un disco aggressivo e umano.
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Tritonica – Disforia [STREAMING]

Written by Anteprime

Disforia è il nuovo lavoro dei Tritonica, bolscevica e stakanovista band nata a Roma nel 2016 dalla comune passione di tre studenti universitari per la sfera musicale sludge/grunge, stoner e progressive rock/metal.

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Iggy Pop – Post Pop Depression

Written by Recensioni

Dopo qualche anno di silenzio ritorna uno dei signori indiscussi del Rock, sulle scene dal lontano 1967, capace di rinnovarsi col passare degli anni, adeguandosi, ma mai conformandosi, alle sonorità del momento. Post Pop Depression è realizzato a quattro mani con colui che al giorno d’oggi incarna al meglio lo spirito della musica del secondo millennio: Josh Homme, ex Kyuss e da vent’anni artefice e creatore dei Queens Of The Stone Age. Proprio da lì proviene il bassista Dean Fertita, mentre dietro le pelli troviamo l’eccentrico batterista degli Arctic Monkeys Matt Helders. Senza dilungarmi in ulteriori preamboli, preferisco cominciare a parlare del disco in questione.

“Break Into Your Heart” è una canzone quasi spirituale che rievoca l’anima raffinata ed elegante del compianto David Bowie, grande amico di Iggy Pop e suo produttore in passato. Il singolo “Gardenia” è uno dei brani dove si avverte maggiormente la chitarra graffiante di Josh Homme, così come in “In The Lobby” dove l’assolo pare ripreso da un estratto a caso dei Queens Of The Stone Age. “American Valhalla” ha un basso travolgente che spinge per tutto il pezzo, nonostante il suo respiro sensibile capace di far sognare ad occhi aperti. “Sunday” è la più atipica, pulsante e sorretta da un lavoro magistrale di batteria e chitarra, taglienti come lame di rasoio. Il coro femminile nel finale dà un ulteriore tono seduttivo a quella che per me è la composizione top dell’intero platter. “Vulture” e “Chocolate Drops” sono due episodi interlocutori posti tra due indiscutibili gemme: la bipolare “German Days”, fisica e allo stesso tempo delicata nel suo sound privo di orpelli, e la conclusiva “Paraguay”, con dei chiaroscuri vocali poderosi e dilatata da una melodia indimenticabile, dove pare esserci nuovamente lo zampino del Duca Bianco.

L’Iguana è tornato e non è assolutamente ai titoli di coda, come ci dimostra un disco solido e convincente come Post Pop Depression.

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Valkyrie – Shadows

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Un rock inspirato quello dei Valkyrie, un Rock dalle tante sfumature e dai diversi riferimenti. La band sa bene come amalgamare Doom ed Hard Rock. Shadows è il loro terzo disco, quello che si è fatto apprezzare più di tutti. La band dei fratelli Adams si rifà ancora una volta a pilastri come i Deep Purple, Thin Lizzy e Mr. Big, questo per quanto riguarda il versante Hard Rock, mentre, sulla scia Doom, padroneggia un sound tanto caro ai Kyuss ed agli Spirit Caravan.  Questa terza fatica della band americana mette a fuoco, e questa volta veramente, le potenzialità dei ragazzi. E’ interessante lasciarsi andare ai loro giri di chitarra ed è magnifico lasciarsi trasportare dai loro assoli. Riescono ad alternare, in un pezzo, momenti tecnici e chiassosi dediti al più pungente Hard Rock a momenti oscuri e baritonali del Doom. La melodia è una costante del disco, si fa notare ed apprezzare; la banalità invece è inesistente. Nulla è dato per scontato in questo disco, ogni cosa è al suo posto in maniera artistica. Partendo dall’opener, troviamo una traccia maggiormente strumentale che presenta l’album alla grande; i musicisti partono con una canzone che è un vero e proprio macigno: riff, assoli ed una batteria strepitosa. In “Golden Age” si comincia a sentire la vena Doom; l’andazzo baritonale è molto evidente. La terza traccia, “Temple”, è quella che, con molta probabilità, amalgama al meglio i due stili; per il sottoscritto è la canzone più rappresentativa: chitarre possenti e taglienti allo stesso tempo, accompagnate da un pulsante basso che insieme alla batteria crea una base unica.  “Shadow Reality” è quasi una ballata con ottimi  giri di chitarra ed un cantato coinvolgente.  “Wintry Plains” invece è la traccia che più di tutte ha delle venature psichedeliche; il gioco delle chitarre conduce a quelle sonorità.  “Echoes” invece, la penultima canzone del platter, è tra quelle più belle e a far da padrone sono le chitarre coinvolgenti più che mai. La conclusiva “Carry On” chiude in bellezza attraverso affascinanti melodie create dalle onnipresenti chitarre. Insomma, Shadows è un album di ottima fattura; piacerà a persone di vario genere.

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Stasera a Torino “Il Pensiero Sarà un Suono”

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A chiusura della due giorni del convegno “Le Parole della Strada – Laboratorio Torino ’90”, si terrà stasera presso il Blah Blah di Torino “Il Pensiero Sarà un Suono – Italia 90”, un concept musical/letterario sulla scena torinese ed italiana alternativa ed indipendente degli anni ’90 a cura di Domenico Mungo ed Il Pensiero Sarà un Suono. Sarà un’occasione per raccontare Torino ed il mondo di quegli anni nelle parole musicate di Negazione, Africa Unite, Marlene Kuntz, Kina, CCCP/CSI, Casino Royale, Fluxus, Pixies, C.O.V., Disciplinatha, Diaframma, Garbo, Fugazi, QOTSA, Kyuss, Refused, Battiato, Fossati, Vasco Rossi, Rino Gaetano. Di seguito il programma dell’evento:

Ore 19,30
Proemio:
Cristiano Godano (Marlene Kuntz) & Giancarlo Onorato (Ex -Live) in acustico.
“Lievemente: Percorsi in parole e musica della Marlene a Torino”, introduce Domenico Mungo

ore 22,30:
Il Pensiero Sarà un Suono – Italia 90

Artisti:
Proemio ore 20,00:
Cristiano Godano (Marlene Kuntz)
Giancarlo Onorato ( Underground Life)
Domenico Mungo (Scrittore)

Narratio ore 22,30:
Gigio Bonizio (C.O.V. – Totozingaro)
Franz Goria (Fluxus)
Fabrizio Broda
Cristina Visentin (Fratelli Sberlicchio)
Gianluca Cato Senatore (BlueBeaters – Africa Unite)
Bobo Boggio (Fratelli di Soledad)
Mauro Brusa (Derelitti)
Mao (Vodoo – Maoelarivoluzione)
Paolo Angelo Parpaglione (BlueBeaters – Africa Unite)
Beatrice Zanin (Daniele Celona Orchestra)

Resident Band:
Franco Forresu ( Fuco – drums )
Sandro Serra (Titor – drums)
Luca Pisu (Fratelli di Soledad – bass)
Luca Morellato ( Bluedaville – Concrete Bloc)
Luca Catapano (Black Wings Of Destiny – C.O.V.)

After Show Parties:
Melody Maker’s Special ‘ 90 Edition – Dj Blaster T.

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Showstar – Showstar

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Il quarto album omonimo (che ipotizzo possa essere presto rinominato Sorry no Image Available, causa copertina, come accaduto per il self titled dei Kyuss) traccia il vero punto di non ritorno per la band belga, ormai attiva dal 1996 e che mai è riuscita davvero a persuadere il pubblico, a partire dall’esordio We Are Ready del 2003. Un transito tanto importante per Chris Danthinne (voce e chitarra), David Diederen (chitarre), Antoni Severino (basso e voci) e Didier Dauvrin (batteria) quanto in linea con le produzioni precedenti e che continua a perseguire la strada disegnata dal Jangle Pop degli Smiths seppure con un’attitudine Indie moderna e fresca, in contrapposizione alle liriche talvolta crude, disincantate e non troppo raggianti (“lavora, lavora, lavora fino alla morte”). In tal senso, non si potrà certo confutare una discreta crescita compositiva nell’ultimo lavoro targato Showstar, una maturità che ha reso le dodici tracce vagamente encomiabili e credibili pur se gonfie di innumerevoli similitudini e rimandi.

Shoegaze il più pulito possibile, veloce e danzereccio (“Adults”, “Casual”) si miscela al già citato Jangle Pop di morriseyana memoria (“Nightbird”), di tanto in tanto squarciato da falsetti che vanno dai Beach Boys ai più vicini Everything Everything (“Casual”). Chitarre taglienti scuola Parts & Labor (“Mistakes on Fire”, “Rumbling”), ritmiche cadenzate (“Rumblings”) e un sound che, inevitabilmente, tanto deve ai mitici Stone Roses (“Mistakes on Fire”, “Rumblings”, “The Trouble Is”, “Full Time Hobby”, “(I Wish I Was) Awake”) al quale si aggiungono brani dalle melodie più dirette e insistenti (“The Liar”) e altri lampi più intimi (“Follow me Follow”) che sanno trasformarsi in vere bombe soniche (“Happy Endings”).

Non aggiunge molto al suono degli Showstar la voce di Angela Won-Yin Mak che si affianca a Chris Dantinne in “Smile. No”. Showstar è disco della maturità, lo era fin dalle premesse ed in parte lo conferma l’ascolto, eppure non può essere considerato un vertice dentro una discografia tanto piatta. A tratti banale, ripetitivo, ridondante, anche troppo gelatinoso nella sostanza, è l’ennesimo buco nell’acqua di una band alla quale non è il caso di chiedere di più.

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Elli de Mon, il nuovo disco a Febbraio

Written by Senza categoria

Si intitola semplicemente II, due o secondo. Due come gli opposti: luce, ombra; giorno, notte; io, l’altro. Due come il secondo disco dei Led Zeppelin. Due come naturale prosecuzione del primo lavoro, a cui questo disco è legato. II è stato registrato la scorsa estate al T.U.P. Studio di Brescia, prodotto da Bruno Barcella e Alessio Lonati che hanno anche partecipato alle registrazioni. Il suono e la produzione diventa più minimale rispetto all’album d’esordio e allo stesso tempo l’atmosfera del disco si fa ancora più cupa e oscura: PJ Harvey, i Kyuss, John Fahey sono le influenze predominanti che si mescolano a Bessie Smith, Blind Willie Johnson e Son House. La musica modale indiana, con la quale Elli de Mon si è formata, si fa ancora più presente nel disco. II uscirà in LP e CD per Pitshark Records, etichetta francese che lavora con alcune leggende del Rock mondiale: dai Motorhead ai Radio Birdman, dai New Christs ai Nomads, dai Sewergrooves ai Cosmic Psychos. L’illustrazione della copertina, come per il disco precedente, è stata creata da Alberto Brunello.

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Le Superclassifiche di Rockambula: Top Ten anni Novanta

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Elevators to the Grateful Sky – Cloud Eye

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Primo full length per i siciliani Elevators to the Grateful Sky, dall’artwork splendido e assai azzeccato: Cloud Eye è infatti un piacevole e duro album di Stoner veloce che si miscela alla passione per la Psichedelia anni 70 (come d’altronde faceva in parte anche l’originale scena del Palm Desert ad inizio 90). Gli ETTGS hanno studiato bene la storia, e il loro tornare sulla scena del delitto è competente e preciso, con qualche aggiunta ben ponderata che sposta il baricentro (e meno male, a più di vent’anni di distanza fare la stessa, identica cosa non avrebbe nessun senso). Abbiamo quindi l’intro di armonica di “Ridernaut”, le chitarre Grunge e brillanti di “Turn in My Head”, o i fiati di “Red Mud”, che ci teletrasportano via dal deserto, verso un finale Soul/Blues sui generis che spiazza e soddisfa. Abbiamo le spruzzate Garage di “Handful of Sands”, inframmezzate da succulenti e grassissimi riff di chitarra fuzz, il mezzo Reggae dell’intro di “Upside Up” che in pochi secondi si trasforma in Punk californiano, poi si rallenta verso voci più pulite in “The Moon Digger”, dal sapore Led Zeppelin, un sapore che rimane in bocca anche dopo i pochi secondi dell’autocitazione di “Xandergroove”. Si finisce tra gli spazi di finto Reggae della title track, che una volta partita poi non torna più indietro, e ci si spiaggia sulla sabbia desertica nella definitiva “Stonewall”, lenta e vibrante, come da scuola Kyuss.

Un disco da ascoltare per tutti gli amanti del genere: Cloud Eye rielabora e prosegue il discorso del Desert Rock con competenza e gusto, senza aggiungere troppo ma funzionando alla perfezione, ottimo discepolo di una scuola che, ne sono certo, ci regalerà ancora numerose cavalcate tra le sabbie torride di ritmiche ipnotiche e distorsioni profonde.

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Pontiak – Innocence

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C’è una musica che si suona con la parte più profonda del nostro subconscio, una musica che rigetta il calcolo, lo studio, la pianificazione, ma che è espressione di un’ansia, di un bisogno, di una necessità. È una musica da suonare di getto, da ascoltare a volumi elevati, che altera la coscienza e le percezioni, che ci sfida a seguirla per sentieri tortuosi scavati da sinapsi libere da costrizioni. Ed è la musica che ci schiaffeggia all’apertura di questo Innocence dei Pontiak: tre brani in fila come ganci di pugile, tra stonerismi e Garage Rock lo-fi, con chitarre-trapani, riffoni Hard Rock, suoni di batteria sporchi e confusi, voci al limite dell’intonazione e ritmi da lento ondeggiare sconvolti in locali che puzzano di birra e urina (“Innocence”, “Lack Lustre Rush”, “Ghosts”). La partenza fa ben sperare: mi convinco che questi tre fratelli cresciuti a Blue Ridge Mountain, Virginia, siano nuovi alfieri della Neopsichedelia, d’altronde sono loro ad ammettere di non aver mai studiato niente, di aver suonato pochissimo al di fuori del loro “trio di famiglia” e di essersi scelti per una questione di immediatezza, di profonda conoscenza reciproca.

Poi parte “It’s the Greatest” e penso sia una pubblicità di Spotify (avete presente?): un organo e poche chitarre, a creare un tappeto che, con la batteria, si inoltra in un mondo più molle e molto più orecchiabile, con riff di chitarra semplici e diretti e una voce parecchio lineare. Non un brutto brano, ma qualcosa che, finita la tripletta iniziale, non ci saremmo mai aspettati. A questo punto temo per il proseguimento del disco: e infatti, con “Noble Heads” arrivano chitarre acustiche da gruppetto Neo Folk e un andamento più Country, e l’unica cosa che ci salva sono le chitarre, gonfie, frementi, che appaiono qua e là a sottolineare l’avanzamento del brano. Aspetto con ansia il momento del ritorno all’energia e all’impatto iniziale, ma sembrano non arrivare mai: “Wildfires” è ancora più Indie, con chitarre acustiche acide e voci lamentose in primo piano, stemperate solo dal mare di cimbali che appare sul refrain. E poi ecco, “Surrounded by Diamonds”: e tornano i fuzzoni, le chitarre iper-compresse, l’andamento ondeggiante, tra i Black Sabbath e una versione meno Metal e più Indie dei Kyuss. Sono un amante dei gruppi che riescono a variare nei dischi, senza fare album con dieci volte la stessa canzone: ma mi chiedo come faranno i Pontiak a portare dal vivo un album del genere, che continua nell’elettricità con “Beings of the Rarest”, batteria torturata e feedback, voce sopra le righe e distorsioni dalle unghie lunghissime. Sembra che i tre brani più morbidi fossero solo una pausa per poi tornare a saturare l’aria con la vibrazioni frementi di un’urgenza molto, molto più palpabile (vedi l’assolo sanguigno che chiude quest’ultimo brano).

Con “Shining” si rimane su questo livello, rumori e pressione sonora che si svuotano in strofe più Indie, con in generale un impianto leggermente più contenuto, uno stile che mi ricorda le raccolte Nuggets sulle band psichedeliche degli anni 60. Il finale improvviso ci stoppa brutale e ci consegna gli ultimi due pezzi del disco: “Darkness Is Coming”, una ballata dalla voce echeggiante di slap delay, chitarre acustiche lontane, e maree di elettriche che spuntano qua e là, in un classico istantaneo, una canzone che potrebbe essere stata scritta trenta o più anni fa; e poi la chiusura con “We’ve Got It Wrong”, satura e ritmica, con qualcosa di britannico nella melodia del ritornello, dal tono ironico e scanzonato.  Insomma, i Pontiak hanno saputo sorprendermi, confezionando un album intenso, di acida e psichedelica follia elettrica ma mai veramente violento, infilandoci dentro tre o quattro episodi di rilassatezza e orecchiabilità Indie, con un salto estremamente acrobatico ma che, qualche ascolto dopo, può anche avere il suo senso. I tre fratelli Carney sanno tessere inni al qui e ora con naturalezza, senza troppa teoria, mantenendo vivo e vibrante solo l’essenziale (brani brevi, dalle strutture ridotte all’osso, e chiusure tagliate con l’accetta). Innocence è senza dubbio un disco da provare se si è alla ricerca di un mix killer di Psichedelia vecchio stile, riffoni fuzz, impianto lo-fi e saltuarie immersioni in balsamo uditivo per calmare i peduncoli auricolari. Per farne un disco inappuntabile si doveva “progettarlo” un po’ di più: ma senza quest’immediatezza così brutale non sarebbero stati i Pontiak.

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Bologna Violenta – Uno Bianca

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Con l’uscita, nel 2012, di Utopie e Piccole Soddisfazioni, Nicola Manzan, in arte Bologna Violenta, ha fissato per sempre i paletti della sua espressione stilistica, permettendoci di distinguerlo al primo ascolto, anche in assenza quasi totale della voce, sua o di chi altri. Con quel terzo disco, il polistrumentista già collaboratore di Teatro Degli Orrori, Non Voglio Che Clara, Baustelle, sembrava gridare all’Italia la sua ingombrante presenza, divenendo poi uno dei punti fermi (grazie anche alla sua etichetta, Dischi Bervisti) di tutta la scena (ultra) alternativa che non si nasconde ma si offre in pasto a ogni sorta di ascoltatore, dai più incalliti cantautorofili, fino agli inguaribili metallari. Nicola Manzan non colloca alcuna transenna tra la sua arte e i possibili beneficiari e allo stesso modo non pone freno alla sua creatività, fosse anche spinto dal solo gusto per il gioco e l’esperimento divertente magari senza pensare troppo al valore per la cultura musicale propriamente detta. Arriva perfino a costruire una specie di storia della musica, riletta attraverso quaranta brani che sono rispettivamente somma di tutti i pezzi composti da quaranta differenti musicisti. Dagli Abba ad Alice in Chains passando per Art of Noise, Barry White, Bathory, Bee Gees, Black Flag, Black Sabbath, Bob Marley, Boston, Carcass, Charles Bronson, Dead Kennedys, Death, Donna Summer, Eagles, Faith No More, Genesis, Jefferson Airplane, Kansas, Kyuss, Led Zeppelin, Michael Jackson, Negazione, Nirvana, Os Mutantes, Pantera, Pink Floyd, Queen, Ramones, Siouxsie and the Banshees, T. Rex, The Beatles, The Clash, The Doors, The Police, The Velvet Underground, The Who, Thin Lizzy e Whitney Houston. Ogni traccia è il suono di tutti i frammenti che compongono la cronaca musicale di quell’artista. Poco più di una divertente sperimentazione che però racconta bene il soggetto che c’è dietro.

Dopo questo esperimento sonico per Bologna Violenta è giunta finalmente l’ora di far capire a tutti che non è il caso di scherzare troppo con la sua musica e quindi ecco edito per Woodworm, Wallace Records e Dischi Bervisti ovviamente, il suo quarto lavoro, Uno Bianca.  Se già nelle prime cose, Manzan ci aveva aperto le porte della esclusiva visione cinematografica delle sue note caricando l’opera di storicità, grazie a liriche minimali, ambientazioni e grafiche ad hoc, con quest’album si palesa ancora più la valenza fortemente storico/evocativa della sua musica, in contrapposizione ai cliché del genere Grind che lo vedono stile violento e aggressivo anche se concretamente legato a temi pertinenti politica e società. La grandezza di Uno Bianca sta proprio nella sua attitudine a evocare un periodo storico e le vicende drammatiche che l’hanno caratterizzato, attraverso uno stile che non appartiene realmente all’Italia “televisiva” di fine Ottanta e inizio Novanta. Il quarto album di Manzan è proprio un concept sulle vicende della famigerata banda emiliana guidata dai fratelli Roberto e Fabio Savi in attività tra 1987 e 1994, che ha lasciato in eredità ventiquattro morti, centinaia di feriti e strascichi polemici sul possibile coinvolgimento dei servizi segreti nelle operazioni criminali. Un concept che vuole commemorare e omaggiare la città di Bologna attraverso il racconto di una delle sue pagine più oscure, inquietante sia perché i membri erano appartenenti alla polizia e sia perché proferisce di una ferocia inaudita. Il disco ha una struttura categorica che non lascia spazio a possibili errori interpretativi e suggerisce la lettura già con i titoli dei brani i quali riportano fedelmente data e luogo dei vari accadimenti. Per tale motivo, il modo migliore di centellinare questo lavoro è non solo di rivivere con la memoria quei giorni ma di sviscerare a fondo le sue straordinarie sfaccettature, magari ripassando con cura le pagine dei quotidiani nei giorni prossimi a quelli individuati dalla tracklist, perché ogni momento del disco aumenterà o diminuirà d’intensità e avrà un’enigmaticità più o meno marcata secondo il lasso di tempo narrato o altrimenti attraverso la guida all’ascolto contenuta nel libretto.

Sotto l’aspetto musicale, Manzan non concede nessuna voluminosa novità, salvo mollare definitivamente ogni legame con la forma canzone che nel precedente lavoro era ancora udibile in minima parte ad esempio nella cover dei Cccp; i brani sono ridotti all’osso e vanno dai ventuno secondi fino al minuto e trentuno, con soli due casi in cui si toccano gli oltre quattro minuti. Il primo è “4 gennaio 1991 – Bologna: attacco pattuglia Carabinieri” che racconta l’episodio più feroce e drammatico di tutta la storia dell’ organizzazione criminale; la vicenda delle vittime, tre carabinieri, del quartiere Pilastro. La banda era diretta a San Lazzaro di Savena per rubare un’auto. In via Casini, la loro macchina fu sorpassata dalla pattuglia e i banditi pensarono che stessero prendendo il loro numero di targa. Li affiancarono e aprirono il fuoco. Alla fine tutti e tre i carabinieri furono trucidati e finiti con un colpo alla nuca. L’assassinio fu rivendicato dal gruppo terroristico “Falange Armata” e nonostante l’attestata inattendibilità della cosa, per circa quattro anni non ci furono responsabili. Il secondo brano che supera i quattro minuti è “29 marzo 1998 – Rimini: suicidio Giuliano Savi”, certamente il più profondo, il più tragico, il più emotivamente violento, nel quale è abbandonata la musica Grind per una Neoclassica più adatta a rendere l’idea di una fine disperata, remissiva e da brividi. L’episodio che chiude l’opera è, infatti, il suicidio del padre dei fratelli Savi, avvenuto dentro una Uno Bianca, grazie a forti dosi di tranquillanti e lasciando numerose righe confuse e struggenti.

Come ormai abitudine di Manzan, alla parte musicale Grind si aggiunge quella orchestrale e a questa diversi inserti sonori (a metà di “18 agosto 1991 – San Mauro a Mare (Fc): agguato auto senegalesi” sembra di ascoltare l’inizio di “You’ve Got the Love” di Frankie Knuckles ma io non sono l’uomo gatto) che possono essere campane funebri, esplosioni, stralci radiotelevisivi, rumori di sottofondo, e quant’altro. Tutto serve a Bologna Violenta per ricreare artificialmente quel clima di tensione che si respirava nell’aria, quella paura di una inafferrabile violenza. Ora che ho più volte ascoltato i trentuno minuti di Uno Bianca, ora che ho riletto alcune pagine rosso sangue di quei giorni, comincio anche a ricordare meglio. Avevo circa dieci anni quando cominciai ad avere percezione della banda della Uno bianca e ricordo nitidamente nascere in me una paura che mai avevo avuto fino a quel momento. Il terrore che potesse succedere proprio a me, anche a me, inquietudine di non essere immortale, ansia di poter incontrare qualcuno che, invece di difendermi giacché poliziotto, senza pensarci troppo, avrebbe potuto uccidere me e la mia famiglia non perché folle ma perché uccidermi sarebbe servito loro a raggiungere lo scopo con più efficacia e minor tempo. Ricordo che in quei tempi, anche solo andare in autostrada per raggiungere il mare era un’esperienza terrificante, perché l’autostrada è dove tutto cominciò. “19 giugno 1987 – Pesaro: rapina casello A-14”, qui tutto ha inizio; una delle storie più scioccanti d’Italia e uno degli album più lancinanti che ascolteremo quest’anno.

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