Deep Purple – Now What?!

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Time, it does not matter”. Così inizia il diciannovesimo album in studio di una delle band più longeve e influenti della storia della musica. E nonostante la riverenza nel trovarmi davanti ad un mostro sacro, mi viene subito da storcere il naso. Della magica e barocca chitarra di Ritchie Blackmore non rimane nemmeno una timida ombra, il maestro John Lord ci ha lasciati da poco (e comunque aveva lasciato la band già nel 2002), sebbene il suo suono in bilico tra sacro e profano viva ancora nelle mani del fido Don Airey. Per non parlare della voce di Ian Gillan, gli uragani provocati dai suoi strilli forsennati ora sono carezze vellutate.
I Deep Purple ormai da diversi anni sentono il peso della loro storia. Presente che costruisce mura destinate a sgretolarsi sulle troppo solide basi del passato. Solide basi che rimangono principalmente grazie alla sezione ritmica Ian Paice/Roger Glover ancora ruggente e ben oliata.

“A Simple Song” apre le danze con la sopracitata frase incriminata e ci bruciamo già in partenza il miglior pezzo del disco. Il dolce incastro melodico chitarra/voce sfocia in un sornione e solido Hard Rock. Niente di nuovo, ma quanto basta ai vecchi affezionati per dare una spolverata al vecchio giubbotto di pelle. Ritmiche storte e arie orientali in “Out The Hand”, che ha un po’ la pretesa di suonare come la nuova “Kashmir” dei Led Zeppelin, ma risulta goffa e scade in frequenti e freddi tecnicismi. In “Hell to Pay” finalmente un po’ di Rock’N’Roll e, sebbene la voce canti un’ottava più in basso rispetto a quaranta (ho detto quaranta!) anni fa, i ragazzi ci ricordano che si fa della grande musica del diavolo anche con l’organo da chiesa. Ma il momento di entusiasmo dura poco e tornano la ruggine e il Funky tanto amato da Steve Morse.“Body Line” viene salvata solo dalla melodia e da una simpatica interpretazione di Ian Gillan, la vera sorpresa del disco. Niente più urla forsennate, un’inesorabile e onesta presa di coscienza. Il tempo passa eccome e lui rallenta la macchina, senza fretta (“mi stendo nel lungo prato, me la prendo comoda e faccio riposare i piedi […] siamo qui con tutto il tempo del mondo”, “All The Time in The World”) e con quel sorrisetto furbo ed esperto ci fa intendere che è ancora li a divertirsi. E onore a chi si diverte ancora alla tenera età di 67 anni!
Il disco scivola via senza graffiare e senza neanche provarci più di tanto, tra ripetitive e noiose melodie bluesaggianti, veloci ed inutili assoli (va bene modernizzarsi ma la scelta di Steve Morse, compiuta ormai quasi vent’anni fa, non l’ho mai digerita bene), eterni intermezzi dal sapore epico (“Apres Vous”), stacchi da far entusiasmare i migliori amanti della tecnica. C’è quasi da chiedersi cosa serve ad una band del genere fare ancora dischi. E ringrazio che Robert Plant non abbia mai voluto intraprendere ghiotte e lunghe reunion coi Led Zeppelin.

Certo la voglia sarà ancora tanta e l’ammirazione rimane immensa per questi dinosauri, ma ormai non sono altro che lenti e stanchi triceratopi. Falso dire che il tempo non conta nulla, il viola ormai è troppo sbiadito per essere profondo.

Last modified: 16 Dicembre 2019

6 Responses

  1. nico ha detto:

    e dell’ultimo pezzo del disco non si dice niente? L’unico travolgente, graffiante, cantato sulle tessiture alte che Gillan ha cavalcato per più di trent’anni, e che mostra di saper domare ancora da maestro a quasi 70 anni? Bah, recensione a metà infarcita di mezze opinioni abbozzate, un po’ disattenta se devo dire la mia. Questo è un gruppo che ha sempre fatto sfoggio dei tecnicismi che lo distinguevano dai più grezzotti (tecnicamente) Led Zeppelin, e ora questo gli viene contestato come difetto?
    Bah…

  2. Roberto ha detto:

    Davvero poco realistica questa recensione…il pregio più grande di questo album è l’incredibile freschezza e l’originalità che trasuda…come se fosse stato registrato da ventenni…alla loro età rischiare così tanto non è da tutti…ma si sa, i pregiudizi sono difficili da scalfire…

  3. Luca ha detto:

    Una recensione veramente inutile e inattendibile Now What è uno dei dischi rock più belli e freschi degli ultimi anni. L’impressione è che chi l’ha scritta neanche abbia ascoltato il disco, tra l’altro non menzionando tracce come Uncommon Man, Above and Beyond e Vincent Price.

    1. Clobesol ha detto:

      Che un disco dei Deep Purple possa essere, nel 2014, fresco, mi pare leggermente tendenzioso e fazioso. Le recensioni non devono scriverle i fan, altrimenti sai quanti pseudo disconi…

  4. Luca ha detto:

    Scrivile tu allora Clobesol. Tendenziosa e faziosa è questa recensione qui.

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