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Luminal (con intervista)

Written by Live Report

Venerdi’ 8 Giugno 2013 @ L’Aquila, Piazza Angioina

Erano anni che non tornavo a L’Aquila, o meglio in quella zona del nostro capoluogo che chiamano Rossa, forse per il sangue che ha bagnato la terra, sporcato le pareti traballanti in quella maledetta notte del 6 aprile 2009 ore tre e trentadue. L’occasione è arrivata. Lotto giugno è una festa oltre che un momento di partecipata riflessione. Piazza Angioina è un luogo nascosto nel cuore della città che fu e che ora vuole rinascere.
Oggi la Piazza è però solo cibo, giochi popolari, mostre, concerti, videoproiezioni e spettacoli organizzati da ragazzi delle varie associazioni, Tre E Trentadue, Asilo Occupato, Case Matte e Appello per L’Aquila.
Questa sera ci sarà il concerto di Le Naphta Narcisse, band aquilana prossima al primo full lenght e soprattutto dei Luminal, una delle formazioni che più sto apprezzando, grazie all’ultimo album Amatoriale Italia, in questo 2013.

Iniziato il concerto non c’è molta gente (anche se nella zona centrale del paese scoprirò poi esserci tantissimi ragazzini che evidentemente amano più discoteca, cicchetti e cazzeggio a Rock, birra e “partecipazione”) e l’impianto di amplificazione sembra quello di una serata tra amici. Ti guardi intorno e capisci che gli amplificatori sono l’ultimo dei problemi. Nel pomeriggio ho fatto un giro tra le macerie, ho visto le case dei miei anni universitari, ho visto la mia vecchia dimora e ho quasi pianto nel osservarla ancora in piedi pur se sofferente, con gli arti spezzati e la porta spalancata come una ferita aperta su quella cucina e quel vecchio divano dove ho poltrito, bevuto birra, cazzeggiato, chiacchierato e conosciuto la gente, il mondo e la vita. Ho avuto paura di quei silenzi irreali, della mia memoria, paura di qualcosa che non so bene cosa sia ma che probabilmente resterà fino alla fine dei nostri giorni appollaiata sulle spalle di noi aquilani cittadini, provinciali o d’adozione.

Fanculo amplificazione, fanculo il freddo, fanculo il governo, Berlusconi e il M5s, fanculo tutto e tutti. Quello che conta è che L’Aquila sia ancora qui e che ci sia ancora qualcuno che crede in lei, come i ragazzi che hanno organizzato tutto questo ma anche noi che abbiamo fatto sessanta chilometri per essere qui ed io che scrivo e vi ricordo che L’Aquila non è morta in quella maledetta notte del 6 aprile 2009 ore tre e trentadue.

Quello che conta è che i Luminal stanno per iniziare il concerto ed io voglio solo stare ad ascoltarli, senza dirvi una parola di più. Ho chiacchierato con Alessandra Perna, voce e basso della band, il giorno dopo il concerto e insieme vi stiamo per raccontare quello che è stato.

E tanto per sdrammatizzare, alla fine trovate il video (perdonate la scarsa qualità audio) della caduta di Alessandra sul palco (un ringraziamento speciale a Fabio Presutti). Capita quando ci si mette l’anima.

 

Ciao Alessandra. Vi ho visto pochi giorni fa suonare a L’Aquila. Cosa vi ha portati proprio nel capoluogo abruzzese. Quale particolare occasione?
Abbiamo suonato in occasione della festa della NON ricostruzione, un concerto organizzato nel cuore di quella città che si è fermato dopo il 6 aprile del 2009.

Che impressione vi ha fatto la città e la sua gente?
La città fa paura. Fa paura il silenzio, fa paura il vuoto, fanno paura i salotti che si vedono dalle finestre ancora aperte dei palazzi distrutti, come se lì dentro ci fosse ancora vita, fa paura il fatto che in quelle zone qualcuno sia riuscito di nuovo a votare Berlusconi alle ultime elezioni.

L’Aquila tornerà mai quella che era? A proposito, ci eravate già stati?
Non ti posso dare la mia impressione sugli aquilani perché ne conosco pochissimi, e quelli che conosco sono completamente pazzi. E in generale sugli italiani sono la persona meno obiettiva che possa esistere. Non ho mai vissuto una tragedia del genere, non so che cosa significa ma non credo che L’Aquila tornerà mai quella che era. Qualsiasi discorso affogherebbe nel qualunquismo e questa è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Una cosa è certa: ci abituiamo troppo in fretta alle tragedie.

Il concerto è stato organizzato dentro la zona rossa, in una piazza che già prima del terremoto era poco frequentata. Ci lamentiamo del fatto che ai concerti il pubblico è sempre meno ma  poi gli organizzatori sembrano fare di tutto per nascondere gli eventi. Cosa ne pensi?
Spiegami meglio cosa intendi. Pensi che gli organizzatori abbiano pubblicizzato poco l’evento?

Pubblicizzato poco e scelto il luogo meno adatto.
Credo sia un discorso lungo e complicato. Fare le cose in Italia è sempre molto difficile, soprattutto quando hai poche risorse e non offri nulla di “cool”. Poi magari ti ritrovi a suonare su un palco traballante con una chiesa che ti può cadere sulla testa da un momento all’altro, però anche questo è rock’n’roll, quindi va bene così.

Passiamo al concerto vero e proprio. Avete suonato con Le Naphta Narcisse ma avete aperto voi le danze. Ci aspettavamo il contrario. A cosa è dovuta la scelta fatta?
I Naphta sono un gruppo nato all’Aquila, ed era giusto che fossero loro a chiudere la serata.

Nonostante la location suggestiva, ho notato, nella parte iniziale soprattutto, non pochi problemi di resa audio. Un problema di risorse limitate degli organizzatori o cosa?
Noi sul palco sentivamo molto bene, poi è normale che a meno che hai un impianto molto potente e costoso non si può sentire benissimo in una piazza

Avete suonato per intero (vado a memoria) Amatoriale Italia e niente dei lavori precedenti. C’è un motivo particolare (viste anche le differenze non solo stilistiche tra il prima e il dopo) o solo scelta promozionale?
Suonare i primi due dischi in questo momento non ha molto senso per noi, prima di tutto perché io suono il basso e non più la chitarra, Carlo canta e basta, quindi i pezzi vecchi non sono fattibili con questa formazione, anche se prima o poi ci piacerebbe rifarli, magari collaborando anche con altri musicisti..vedremo che cosa succederà.

Nello specifico dell’esibizione aquilana, avete dato il massimo (praticamente perfetti, compresa la tua caduta) pur non essendo dei virtuosi dello strumento, quando al basso c’era Carlo e tu alla voce. Nella situazione normale e contraria avete avuto problemi sia tu che lui. Come mai?
Oddio, noi non abbiamo percepito nessun problema in entrambi i casi (ridiamo ndr) (forse un cavo mezzo rotto del microfono che poi è stato sostituito?).

Che differenza c’è tra i Luminal che hanno suonato a L’Aquila e quelli che suonarono anni fa, sempre in Abruzzo, a Sulmona?
I Luminal di oggi hanno finalmente trovato la forma giusta per esprimere quello che hanno sempre pensato e il loro modo sbilenco di vivere la vita.

A proposito di “modo sbilenco di vivere la vita”, nelle vostre canzoni parlate in maniera feroce e dura di Facebook (di un modo malato di usarlo), della critica musicale e di hypster (oltre a tante altre cose). Quanto vedete queste cose come “problemi” di cui parlare? e come vi rapportate a essi?
Internet ha ucciso l’arte, ha ucciso il pensiero critico, impone regole di vita sociale peggiori di quelle della televisione, ha eliminato la noia e la solitudine salvifiche per la creazione, ha reso i giornalisti pigri, i musicisti troppo simili fra loro (almeno quelli della scena dominante).
Sfido chiunque a vivere la stessa vita degli artisti che condividiamo con tanto orgoglio ogni giorno su Facebook credendo di fare la rivoluzione (che non deve essere per forza politica, ma anche semplicemente umana).
Detto questo, vado un secondo sull’homepage di Rockit a vedere che sta succedendo.

Qualcuno ha definito i vostri testi a tratti “adolescenziali”. Non ti dico cosa ho risposto io (ormai hai capito quanto mi sia piaciuto Amatoriale Italia). Rispondi tu.
Se fai discorsi seri ti dicono che sei presuntuoso, se dici cose in maniera chiara e semplice ti dicono che sei adolescenziale, se dici la verità ti dicono che sei qualunquista, se non dici nulla ti dicono che ti lamenti e basta. Consiglio uso massiccio di benzodiazepine, grappa, una preghierina a satana e un vaffanculo a mammà ogni tanto che fa sempre bene.

Domanda “intima” suggerita da un tuo segreto ammiratore. Tu, Alessandro e Carlo siete solo amici?
(ride ndr) Io e Carlo stiamo insieme da 7 anni

Domanda ovvia per chiudere. Prossimi appuntamenti live e studio?
Si ricomincia il 23 giugno da Modena, Agriturismo Cantoni, poi potete trovare tutte le altre date sulla nostra pagina facebook. Credo che inizieremo a scrivere nuovi brani da settembre, ci sono già dei testi e un bel po’ di idee.

Abbiamo finito. Non posso che rinnovarti i miei complimenti per l’ultimo disco, Amatoriale Italia e augurarmi di rivedervi presto. Un saluto anche ad Alessandro e Carlo. P.s. perchè non togliete la vostra pagina da Rockit?
Ma in realtà non la gestiamo noi.  Comunque il senso di tutto è che Rockit è una webzine come un’altra.

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Granturismo

Written by Interviste

Dicono di fare Calypso Punk, con Caulonia Lumbo Ya Ya tornano a fare parlare di loro a tre anni dall’esordio discografico (Il Tempo di Una Danza, per Live Global) e si beccano il massimo dei voti dalla sottoscritta. Claudio Cavallaro (voce, chitarra e autore dei testi) ed Enrico Mao Bocchini (batteria e cori), mi hanno raccontato come è nato il disco, com’è stato il ritorno in studio e quali sono i loro criteri compositivi. Genuini e poliedrici come si intuisce dall’ascolto dei loro lavori, i Granturismo (per lo meno i due terzi intervistati) mi hanno anche confidato un paio di opinioni forti e ben delineate sul panorama musicale attuale, tanto nostrano quanto straniero, sull’eterno conflitto tra live e studio e su Music Raiser

Caulonia Limbo Ya Ya è un gran bell’album e anche un gran bel titolo, che risulta davvero azzeccato dopo aver sentito l’album anche solo una volta. Da dove arriva la scelta del nome?
Claudio: è una specie di formula voodoo che usiamo contro le cattive vibrazioni, contro il maltempo, la grandine, gli avvocati, la calvizie, gli hipster, le malattie veneree, le bollette del gas, gli sbirri, cose così. Una notte mi ha fermato un carabiniere e mi ha chiesto patente e libretto, poi voleva farmi il test dell’alcool ma io gli ho urlato in faccia appena in tempo CAULONIA LIMBO YA YA!!! Così lui si è messo sull’attenti, mi ha fatto il saluto militare e mi ha lasciato andare augurandomi la buonanotte.

Come sono nati i brani dell’album? Chi anticipa l’altro fra musica e testo?
Claudio: Ho scritto le canzoni  principalmente in casa, su una chitarra acustica, in autunno e inverno. Poi quando ci siamo trovati a provare a febbraio del 2012 con l’attuale formazione di Granturismo – che al momento oltre a me, alla chitarra e alla voce, comprende Enrico Mao Bocchini alla batteria e Alfredo Nuti alla chitarra – capitava che ne tirassi fuori qualcuno e lo usassimo come ceppo da modellare insieme come dei veri mastri falegnami. Di solito scrivo prima la musica e poi ci adagio sopra un testo, che oltre a raccontare qualcosa deve avere il sound giusto per poter essere cantato. La parte musicale è molto più intuitiva, appena ho l’idea per una melodia la sviluppo in maniera rapida, mentre i testi mi portano via molto più tempo. Sono capace di aspettare la parola giusta per mesi e mesi. Ho un limbo di una cinquantina di canzoni praticamente finite ma che non tiro fuori da lì perché magari qualche sillaba non mi suona ancora bene.

Non era la prima volta che entravate in uno studio di registrazione. Avete notato qualcosa di diverso rispetto ai vostri precedenti lavori? Mi riferisco tanto a una maggiore consapevolezza tecnica, quanto a una tendenza stilistica diversa.
Claudio: la sostanziale differenza rispetto al primo disco dei Granturismo è che questa volta abbiamo fatto esattamente quello che ci pareva, mentre magari in passato è capitato che mi affidassi a produttori navigati perché pensavo di non avere abbastanza esperienza e di non essere in grado di produrre un disco come si deve. Puoi anche farti produrre da Phil Spector o Danger Mouse, ma se non condividete un immaginario comune, c’è il rischio che il tuo suono e il tuo messaggio vengano stravolti. Registrando questo disco invece avevamo molta fiducia nei nostri mezzi e c’era molta coesione, e questo si sente.
Enrico: Abbiamo arrangiato i pezzi insieme, cercando di usare al meglio il poco che avevamo (una batteria, due amplificatori e due chitarre), abbiamo fatto attenzione a non suonare troppo, lasciando anche molti spazi vuoti. Poi siamo corsi in studio e li abbiamo spuntati in tre giorni.

I vostri testi sono spesso ironici, sia discorsivi, sia frammentari e cinematografici. L’immaginazione sembra essere sì un espediente comunicativo ma anche una via di fuga. Da cosa scappano i Granturismo e il loro pubblico?
Claudio: Di sicuro siamo in fuga, è una cosa che avverto, anche se non ho ben focalizzato da cosa stiamo scappando. Forse scappiamo dalle “perversioni del tempo che fa”. Forse scappiamo da qualcosa che ci ha già trovato.

Tropici, Mambo, giungle urbane, rime più o meno sottili, riferimenti letterari e richiami Pop. C’è sempre una grande attenzione a ciò che è “altro”. Come si inseriscono i Granturismo in questo panorama così variopinto?
Claudio: C’è sempre una grande attenzione a ciò che è altro: bello, hai individuato il punto di tutta la questione. Siamo sempre alla ricerca di nuovi stimoli, cerchiamo sempre di spingere i confini un po’ più in là. Sono una persona molto pigra, quindi se decido di attivarmi di sicuro non mi va di fare la stessa cosa due volte. Bisogna sempre temere quello che può partorire una mente cauta, o peggio, annoiata.
Enrico: Mi è sempre piaciuto il termine altro. Con i Granturismo cerco sempre di suonare in modo lontano forse perché i miei ascolti vengono da lì, sinceramente di musica attuale italiana ne ascolto veramente poca. Però mi sembra che il panorama italiano sia molto frammentato, direi che c’è posto anche per noi.

Nordici come i Kings of Convenience e caldi come Gilberto Gil. Secondo voi c’è un futuro geografico della musica? E quale potrebbe essere il ruolo dell’Italia? Insomma: il nostro panorama musicale attuale può tenere testa a quello estero e magari arrivare a influenzarlo?
Enrico: Forse non riuscirà mai a fare i grandi numeri come quello americano, però può influenzarlo sicuramente, anzi penso che succeda tutt’ora come in passato. Riesco benissimo a immaginarmi un produttore americano che gira su Youtube cercando qualche cosa di italiano che lo possa ispirare… sicuramente non esiste più un solo centro geografico della musica, sempre che sia esistito…
Claudio: Con la rete e canali come Youtube o Spotify non esiste più un tempo né un luogo: galleggiamo tutti nello stesso sconfinato, disordinato oceano. C’è da dire che tendenzialmente all’estero sono più aperti ad ascoltare prodotti di altri paesi. Basti pensare che proprio lunedì scorso la Radio Nacional De España (la RAI spagnola, per capirci) ci ha dedicato un’intera monografia durante uno dei suoi programmi più seguiti. Invece in Italia spesso non consideriamo nemmeno gli stessi italiani.

Il live è la dimensione più importante di ogni produzione musicale, sia per il contatto diretto con il pubblico dovuto alla compresenza di emittente (l’artista) e ricevente (il pubblico), sia per la chiarezza con cui emergono le competenze tecnico-strumentali. Voi vi sentite fedeli alla resa in studio? Come definireste il pubblico di un vostro concerto? Rispecchia il vostro ideale di pubblico?
Enrico: Secondo me lo studio e il live sono due cose abbastanza diverse, esistono tantissime band che dal vivo sono fortissime ma in studio non riescono a fare bei dischi, e viceversa. Noi cerchiamo di stare in mezzo a questo, anche se ultimamente lavorare in studio ci piace tantissimo!
Claudio: Con questo disco la resa studio e live praticamente combaciano, dal momento che abbiamo registrato tutto in presa diretta con quattro microfoni. Il nostro pubblico cambia continuamente, a seconda delle zone d’Italia e dai momenti. A volte il pubblico cambia per motivi che vanno aldilà della musica. Per farti un esempio, nel tour del primo disco abbiamo suonato in un paesino in Toscana, vicino a Lucca. Era pieno di ragazzine, boh. Io quella sera non ero molto in forma e durante il concerto ho vomitato sul palco e poi sono svenuto. Quando siamo tornati a suonare nello stesso posto un anno dopo, il pubblico era composto solo da ultras e punkabbestia.

Tra tutte le diavolerie che ci si è dovuti inventare per emergere, promuoversi, trovare finanziamenti a un progetto musicale, c’è Music Raiser, che è arrivato non solo ad attirare l’attenzione di artisti emergenti ma anche di musicisti che sono emersi da parecchio e che cercano nuovo lustro e festival come ArezzoWave. Che ne pensate?
Claudio: Lo stai chiedendo a uno che per realizzare Caulonia Limbo Ya Ya e promuoverlo si è autofinanziato e ha fatto un buco di svariate migliaia di euro in banca, e non sa se riuscirà mai a recuperarle. La cosa positiva è che la banca mi chiama ogni settimana per sapere come sto, e questo mi fa sentire meno solo, so che qualcuno mi pensa e ci tiene a me. Non sono d’accordo sul fatto che gli artisti promuovano collette per finanziare i propri lavori, le raccolte fondi per me andrebbero fatte solo per beni di prima necessità o per cose tipo i cataclismi e i terremoti. Se ami una cosa e ci credi devi essere pronto a rischiare tutto quello che hai, e anche di più, senza nessuna certezza… altrimenti che amore è? Avevo un amico che si era innamorato di una ragazza che era scappata in India, così lui qualche mese dopo ha mollato il lavoro e tutto quanto, ha comprato un biglietto di sola andata per Bombay ed è andato là a cercarla dappertutto, senza sapere se la cosa sarebbe andata a buon fine o meno, ma solo perché sentiva di doverlo farle. I veri artisti dovrebbero avere un tipo di atteggiamento del genere.
Enrico: Se non ci sono soldi per fare musica sarebbe giusto che la musica venisse realizzata senza quelli, pensa anche a che nuove estetiche musicali potrebbero nascere…

La domanda è scontata ma d’obbligo: in quale direzione muoverete i prossimi passi?
Claudio: è un po’ presto per parlare, però nella pausa tra un concerto e l’altro io ed Enrico ci incontriamo per suonare. Abbiamo improvvisato uno studio casalingo e, dal momento che abitiamo molto vicini, ogni volta che abbiamo qualche ora libera la dedichiamo a lavorare su qualche idea nuova. Abbiamo anche registrato 5-6 nuove tracce. Hanno un suono molto radicale, e un attitudine piuttosto Rock’n’roll: alcune si basano su groove torbidi e scuri, altre sono delle gioiose esplosioni di eccitazione selvaggia. Voglio proprio vedere che testi riuscirò a scrivere sopra delle cose del genere! Ma non è detto: all’ultimo momento potremmo sempre decidere di buttar via tutto e ripartire verso un’altra direzione.

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Borderline

Written by Interviste

Ecco finalmente l’intervista con i vincitori dell’ultima edizione del nostro concorso, AltrocheSanRemo, realizzata da Silvio “Don” Pizzica. Buona lettura:

Ciao a tutti voi. Come state?
Ciao Rockambula, piacere. Noi stiamo bene, un po’ assonnati, ma con tanto lavoro da fare,  tra le riprese del video e le rifiniture dell’album. Insomma, siamo sul pezzo.

Iniziamo con le presentazioni. Chi sono i Borderline? Cosa significa Borderline oltre la traduzione letterale?
Siamo 4 ragazzi alla continua ricerca di noi stessi, Borderline è per noi un viaggio,una guerra e una contraddizione. Un viaggio all’interno di tutte le possibili sensazioni umane, le mille diverse sfaccettature dell’io, e la contraddizione che emerge tra esse. I nostri testi sono pieni di contrasti e a volte controsensi. Noi stiamo sulla “linea di confine”, queste emozioni le viviamo, le osserviamo, e le raccontiamo in musica.

Parlateci del bellissimo singolo Multicolor, il brano che ha vinto AltrocheSanRemo Volume3. Come è nato e cosa ha di speciale? Perché proprio quel brano ha battuto gli altri nove pezzi in concorso?
Perché è quello che è piaciuto di più, semplice! (ride, ndr) è stato un singolo azzeccato che comincia a dare i suoi frutti, ma la promozione vera e propria inizierà con l’uscita del video.

La vostra è musica di chiara ispirazione Brit Pop (ovviamente fino all’uscita dell’album i punti di riferimento sono questi, anche se pochi) anni novanta. È veramente questo che amate, volevate sempre suonare, avete ascoltato e ascoltate ancora?
Noi esprimiamo ciò che siamo. Io sono cresciuto, mi sono avvicinato alla musica grazie al sound d’Oltremanica, e ovviamente questo si riflette nell’idea di musica che abbiamo. Ma ripeto, ora i nostri suoni sono questi perché noi siamo questi. Se poi un giorno dovessimo fare Reggae, sarete i primi a saperlo, ma ne dubito fortemente (ride,ndr)

Perché avete scelto di guardare al passato e prendere una strada sicura ma affollata invece che provare ad aprire nuovi varchi, nel mondo del Rock, anche a rischio di perdervi?
Non esistono strade passate e strade nuove. Esiste la buona musica, e quella meno buona. Noi siamo convinti di ciò che scriviamo e se ci sono evidenti influenze di alcune band, queste vengono rielaborate e riprodotte secondo quello che è il nostro gusto. Siamo riconducibili a un movimento, al Brit Pop, ma non somigliamo a nessuno in particolare. Poi è ovvio, ascoltiamo un certo tipo di musica e questo ci influenza. Se trovi una band che ti dice che non si ispira a nessuno, sappi che ti sta dicendo il falso.

Raccontateci qualcosa del vostro primo disco di prossima uscita. Partiamo dal titolo; e poi, che novità dobbiamo aspettarci?
Il titolo è una carta che ci giocheremo solo alla fine, poco prima dell’uscita. I brani saranno vari, sono diversi tra loro e diversi da Multicolor. La matrice è la stessa, ma ci sarà spazio per molteplici sensazioni: dalla malinconia alla rabbia, dalla gioia alla voglia di urlare e ballare come se non ci fosse un domani.

Se mettete tanto di voi, una parte intima e preziosa, nella musica e cercate di fare soldi cosa distingue una puttana, un poeta e una band come la vostra?
La puttana di intimo e prezioso non ci mette proprio nulla, se non quello che tutti sappiamo. Il poeta ci mette l’anima ma poi va a puttane, solitamente. Una band come la nostra ci mette corpo, parole e anima: e sul palco, a contatto con la gente, è il momento in cui avviene l’estasi, il punto più alto, l’orgasmo definitivo. E gli orgasmi che ti regala una rock band sono più duraturi e soddisfacenti di quelli che ti può regalare una puttana.

La scena indipendente è un oceano di band non sempre di valore considerevole. Difficile emergere e complicato, per il pubblico, scegliere tra i Borderline, gli Albedo, I Milf o una qualunque delle tante formazioni che “ci provano”. Perché un ascoltatore, un nostro lettore, dovrebbe dare fiducia e il suo tempo a voi, prima che agli altri, non potendo darli a tutti?
E’ difficile e complicato anche scegliere chi ascoltare, oltre che emergere. Un ascoltatore medio oggi è bombardato da mille input e quelli predominanti soprattutto in Italia sono ancora quelli di una certa musica, trita e ritrita (questa si veramente vecchia) dei soliti quattro anzianotti che a malapena si reggono in piedi. Chi ha voglia di andare a gironzolare per i mille volti della musica indipendente può trovare alcune sfiziose scoperte. A noi piacerebbe essere una di queste, per iniziare.

Vi capita mai di dare uno sguardo alle classifiche estere, soprattutto anglofone? Oltre a inglesi di lingua, potete trovarci francesi, islandesi quando non insospettabili extraeuropei. Mai italiani. Se (sottolineo se) la qualità del nostro Rock, come dicono alcuni, è oggi alta, perché all’estero continuano a snobbarci? Il problema è in fase compositiva, promozionale o cosa?
Non credo sia in fase compositiva,ma di sistema: il problema è più che altro che all’estero propongono solo  gente come Nek o Ramazzotti tra gli italiani. Che per l’amore di Dio, funzionano bene, ma ci sono tante band che se le riesci a promuovere in Inghilterra o nel Resto d’Europa spaccherebbero non poco.

In quest’ottica, voi cantate in inglese ma mirate al pubblico italiano suppongo. Gli stessi Zen Circus hanno dovuto fare un passo indietro, per avvicinare il pubblico di casa nostra ed evitare di restare senza fan sia dentro sia fuori confine. Perché tante formazioni come voi continuano a cantare in inglese? Quale gruppo italiano che ha sfondato in Italia cantando in inglese è il vostro punto di riferimento, se lo avete?
Noi cantiamo in inglese perché non potrebbe essere diversamente. La nostra musica è fatta per essere cantata in inglese, i testi li pensiamo già cosi, la lingua italiana non avrebbe la stessa efficacia. Non è giusto continuare a chiedersi perché non si canta in italiano, siamo nel 2013 ormai. E’ un concetto da superare, non si deve per forza cantare in italiano. Essendo friulani, potevamo anche cantare in dialetto friulano. Ma non si addiceva molto al sound (ride, ndr)

Tornando alla difficoltà di emergere di una piccola band, ho notato che, quelli che ce la fanno, spesso (oggi più che ieri) ci riescono grazie a gesti che poco hanno a che fare con la musica (vedi 1° maggio) o grazie a pezzi di medio-bassa qualità ma immediati (qui torna in gioco la lingua madre) e di grande impatto (vedi Stato Sociale, I Cani, ecc…) sulla massa (che con la musica intesa come arte ha poco a che vedere). Voi cosa sareste disposti a fare, a cosa rinuncereste e a cosa non rinuncereste mai per una fetta di quel famoso “successo”? Siate sinceri…
Sulla prima parte della tua analisi, non posso che darti pienamente ragione. E’ cosi e basta, e qui ci si ricollega al discorso di prima. Noi ovviamente il successo lo desideriamo, come ogni artista (non credere a quelli che ti dicono che non gliene frega niente) e siamo disposti a tutto per averlo, ma con la nostra musica, le nostre faccione, e la nostra immensa fame. Nient’altro, quello che sarà, sarà.

Per un attimo non parliamo di voi. Come sempre, provo a farmi dare un nome. Quale è la band o l’artista Indie italiano più sopravvalutato in circolazione?
Ho letto che fate spesso questa domanda, e fate fatica ad avere una risposta, ma non ascoltiamo molto indie italiano, sinceramente. Comunque non esistono band sopravvalutate. Sono le band stesse che tendono a sopravvalutarsi a volte. E risultano fastidiose. Come ad esempio noi, che a volte ci diamo fastidio da soli.

Siamo in chiusura. Cosa hanno in programma i Borderline per l’immediato futuro? Album, live, diteci tutto!
Adesso stiamo seguendo i mixaggi per l’album, e ci staremo dietro un po’, perché tendiamo ad essere abbastanza esigenti. Poi sarà da decidere la data migliore per l’uscita. E’ il nostro primo album, vogliamo giocarcelo bene. Per quanto riguarda i live, ci aspetta un’estate abbastanza ricca di concerti, un po’ sparsi nel Nord Italia, anche se partiremo dal Friuli, la nostra terra madre. In autunno poi comincerà la promozione dell’album e li si girerà ancora un pochino di più. E noi, che amiamo visceralmente la dimensione live, non vediamo l’ora di fare ballare il numero più alto di “giovanotti da club” (e non solo) possibile.

Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto? Poi, se volete, rispondetemi.
Se ci viene mai da starnutire mentre suoniamo. Ci pensavamo ieri e credo non sia mai capitato, non che io ricordi almeno. Ma gli altri della band la pensano diversamente. Abbiamo litigato di brutto su questo, ma ora è passata.

Abbiamo provato a conoscere meglio i Borderline, la band che ha trionfato ad AltrocheSanRemo Volume4. Aspettiamo con ansia l’uscita imminente del loro primo full lenght ma intanto gustiamoci ancora una volta il primo irresistibile singolo, Multicolor. Se tutti i brani saranno a questo livello si conquisteranno una bella fetta di pubblico. Voi che ne dite?

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I Am The Distance

Written by Interviste

Giunti sesti al nostro concorso AltrocheSanRemo Volume3, il trio di polistrumentisti lombardo ha comunque mostrato tante qualità e grande carattere. Abbiamo quindi deciso di intervistare gli I Am The Distance (facebook ufficiale) e, come potrete leggere voi stessi, la scelta è stata indovinata. Risposte mai banali e soprattutto parole che andrebbero fatte leggere a ogni giovane che si appresti a iniziare a suonare in una band.

Ciao. Per prima cosa, come state?
Ciao a voi di Rockambula! Al momento non ci possiamo lamentare…

Chi siete musicalmente, come band e come singoli? Perché questo nome?
Ci piace pensare di essere, presi singolarmente, musicisti completi; ognuno di noi ha alle spalle una formazione specifica su un determinato strumento, e successivamente ne ha imbracciati altri, coltivando in parallelo l’attività del canto. Inoltre, prima di incrociare le nostre strade, abbiamo sempre scritto e prodotto “artigianalmente” vario materiale come solisti, ciascuno con un diverso moniker (per Fabio, Split the void, in seguito titolo di uno dei nostri primi brani condivisi; per Jacopo, Someone; per Alessio, An Orchard Next to the Highway). Gli I Am The Distance, visti globalmente, non sono però un mero collage di tre individualità; sono anzi un’entità unica, collaborativa e multiforme, che cerca l’armonia e la coesione prima di tutto. Quanto al nome, è di base una suggestione, tanto fulminea quanto (crediamo) profonda, in cui ci siamo identificati; cercavamo qualcosa che riassumesse la nostra musica, e questo ci ha soddisfatti subito: “Io sono la Distanza”, e cioè la distanza dalle cose, dalle persone, dagli eventi che hanno finito per prosciugarmi; “Io” come essere umano non sono più l’altro capo di una relazione o di un legame, ma divento il vuoto stesso tra le due estremità.

Siete una band particolarmente giovane, con un solo full lenght alle spalle eppure avete già firmato per un’etichetta, seppur piccola. È veramente cosi utile avere un’etichetta alle spalle per una band come voi invece che puntare sull’autoproduzione? Non sarebbe più utile un ufficio stampa con “le palle”?
Il primo EP omonimo, in effetti, era completamente autoprodotto, mentre con Solace abbiamo deciso di guardare a ciò che facciamo sotto una lente più professionale. Il lavoro che la nostra etichetta, After Life Music Dimension, compie per noi e con noi ci è sembrato utile e proficuo: da una parte, la co-produzione ci aiuta a dare la giusta resa alle canzoni in fase di studio, senza però prese di posizione invadenti; dall’altra, ci ha aperto gli occhi sulle possibilità della vendita digitale. Finora, questa partnership si è rivelata essere in pieno spirito “indie” e anche economicamente vantaggiosa per noi; inoltre, cosa non meno importante, ci ha consentito di entrare a far parte di un ambiente giovanile, caloroso, pieno di ottimi musicisti, e di trovare qualche data in più. Uffici stampa e agenzie sono indubbiamente una buona soluzione, ma per adesso non ne sentiamo la necessità.

Domanda banale. Sono convinto però di ricevere una risposta originale. Perché cantate in inglese? Se ci pensate, il pubblico tricolore sembra appassionarsi più alle formazioni che parlano in lingua madre, al di là della qualità musicale della loro proposta.
La motivazione è comunque banale: non siamo mai o quasi mai riusciti a scrivere in italiano, neanche volendo; di contro, abbiamo sempre e solo scritto in inglese, e raramente traducendo una traccia pensata in anticipo in italiano. La nostra lingua non ci sembra in verità adatta alla (nostra) musica, prolissa e abbondante com’è per sua natura: è senza dubbio ottima per la prosa o la poesia letteraria, ma troppo instabile e barocca per la canzone – specie se di oggi; l’inglese è invece funzionale, sintetico, sufficientemente “tagliente” da trasmettere un messaggio nella maniera più diretta possibile, soprattutto nei pochi versi a disposizione in una forma-canzone come la nostra. Dal punto di vista dell’agilità, è la lingua più bella del mondo, assolutamente. Da parte nostra, come autori di testi, cantare in una lingua straniera non vuole affatto essere un’ostentazione di originalità o esterofilia pura, e neanche un tentativo di darci un tono da rockstar britanniche o americane (visto che qualcuno l’ha anche insinuato ascoltandoci); quel che vediamo nell’inglese è, piuttosto, un grande patrimonio lessicale, espressivo e di conseguenza artistico.

Nel descrivere la vostra musica parlate di tradizione acustica, cantautorato, Alt rock britannico e addirittura scandinavo, Folk, Country e Grunge. Ci si aspetterebbe un miscuglio e un complicato intreccio ma in realtà la proposta è estremamente lineare e facilmente godibile. È esagerata la descrizione o quelle influenze riguardano i singoli membri che poi, in fase di composizione, riescono a lavorare come un’entità unica?
La seconda che hai detto. Le nostre singole influenze sono molto differenti fra loro,  e solo dopo aver iniziato a scrivere insieme abbiamo finito per “contagiarci” a vicenda. Fabio proviene dal metal, nelle sue tante sfaccettature, e si è poi gradualmente accostato a generi più soft; Jacopo ha una preparazione pianistica di stampo classico, e durante l’adolescenza ha ascoltato dapprima moltissimo brit-pop, per poi estendere l’interesse a tutto il resto; Alessio ha imparato a suonare sulla scia dei grandi maestri del fingerpicking e di alcuni cantautori importanti, dipartendosi poi a sua volta verso altri lidi. La nostra apertura mentale ci porta a combinare tutto questo senza programmare nulla, con il solo scopo di fare qualcosa che ci convinca e ci faccia innamorare tutti.

A proposito di influenze, se doveste citare tre gruppi del passato dalla quale avete tratto ispirazione e che, effettivamente vi somigliano chi citereste? Se invece parlassimo di gruppi attuali?
Per Fabio, dalla vecchia guardia vanno citati senz’altro i Metallica, i Dream Theater, gli Alice in Chains; per Jacopo, i Fleetwood Mac del periodo Rumors, gli Eagles degli anni d’oro e i defunti Oasis; per Alessio, alcuni virtuosi come Marcel Dadi, Nick Drake, Jeff Buckley. Per i gruppi attuali, rimandiamo alla risposta successiva, che crediamo sia esauriente.

Parlando di band o artisti attuali, chi vi piace in Italia e all’estero?
Sulla musica italiana siamo parecchio selettivi; se dovessimo scegliere qualche nome, menzioneremmo altri chitarristi “sperimentali” attuali come Pietro Nobile e Sergio Altamura; oppure cantautori come Gazzè o Britti. Per quanto riguarda invece la musica straniera, non abbiamo veramente limiti: tra gli artisti che più di tutti ci mettono d’accordo, ci sono però innegabilmente gli Opeth, i Sevendust, gli Alter Bridge, i Pearl Jam; e ancora William Fitzsimmons, i Lifehouse, gli A Perfect Circle. Non mancano, naturalmente, i riferimenti personali di ognuno che possono incidere in misura maggiore o minore sui nostri pezzi: per Fabio i Mumford & Sons, Andy McKee, gli Incubus; per Jacopo gli Hanson, Noel Gallagher, Steven Wilson;  per Alessio i Radiohead, Tommy Emmanuel, i My Morning Jacket;.

Torniamo alla vostra musica? Chi di voi scrive musica e testi? Di cosa vi piace parlare nelle vostre canzoni?
Come detto, siamo un gruppo che ragiona con un’unica testa, quindi contribuiamo tutti attivamente alla composizione. Non c’è mai un meccanismo fisso o uno schema, né per la musica né per i testi, e neanche per gli arrangiamenti; un riff o un’idea possono essere portati in sala prove da uno o due elementi del gruppo, per poi essere arrangiati da tutti, oppure nascere subito da un’improvvisazione collettiva – e lo stesso vale per i testi. Ci viene spesso in mente “Spiral”, l’opener di Solace: l’abbiamo scritta di getto insieme, durante una notte insonne, trovando immediatamente ogni connessione – accordi, arpeggi, parole (divise e cantate fra tutti), struttura… Per questo ha un valore speciale. In realtà, comunque, ogni canzone ha davvero alle spalle un parto e una storia a sé.
La domanda sull’argomento delle canzoni stesse ha una risposta intricata. La bontà di un testo sta nella sua capacità di spingere ogni ascoltatore a immedesimarsi in modo differente: soltanto l’autore del testo stesso, infatti, conosce veramente l’essenza dei propri pensieri, e spiegarla apertamente equivarrebbe a violarla. E’ una complessa questione di privacy, che però non impedisce la condivisione, grazie alla libera interpretazione altrui. La stessa cosa vale per noi: a volte ognuno di noi non sa per certo di che cosa parlino i testi degli altri due, e il più delle volte si lascia semplicemente trasportare dalle immagini che le parole evocano. Se dovessimo proprio inquadrare grossolanamente i nostri contenuti, potremmo dire che le tematiche proposte da Alessio (il migliore di noi, sotto questo aspetto) sono le più sfuggenti, le più difficili da afferrare; Fabio e Jacopo, invece, si rifanno soprattutto a esperienze ben specifiche, da cui hanno ricavato la loro visione delle cose. Quello che lega tutti i nostri testi, in fin dei conti, è perlopiù un concentrato di malinconia, rabbia e frustrazione, espresse in una gradazione diversa a seconda del pezzo.

Oggi, a causa del web, dei maggiori mezzi a disposizione, sia per suonare che per proporsi, c’è un numero di band veramente esagerato. Credo che di tutte quelle che ci sono in giro, almeno il 90% potrebbero suonare per esprimersi senza cercare di proporsi all’Italia intera. (Domanda banale n°2) Voi dove vi trovate? Nel 10% o nel 90%?
Speriamo nel 10%! Girando, ci siamo accorti che la “concorrenza” è molta e la qualità è spesso medio-alta, ma ci auguriamo che la nostra musica – quali che siano i canali attraverso cui la proponiamo – venga vista come un prodotto di qualità.

In quest’ottica cosa cercate dalla musica? Pensate di poterci vivere oggi che i dischi non li compra quasi più nessuno e un concerto gratuito di Cesare Basile a Pescara fa un pubblico di circa 20 persone?
Per noi la musica è un linguaggio, un modo di essere, di descrivere il mondo; la diffusione web è ormai l’unica che conti davvero, e nel mondo underground la condivisione gratuita ha prevalso a scapito del business. A onor del vero, non ci interessa fare di quest’arte – e sottolineiamo il termine arte – un lavoro e nemmeno un hobby particolarmente redditizio: per noi è passione, esigenza biologica, e saremo sempre grati ai pochi che vorranno seguirci, vuoi per fedeltà o vuoi perché avranno ritrovato ogni volta una traccia di sé in ciò che facciamo.

Quale pensate possa essere il vostro ascoltatore ideale?
Di sicuro una persona intellettualmente aperta, ma non spocchiosa; critica, ma non distruttiva; emotiva, ma non smielata. Per entrare nella nostra dimensione, la sola regola veramente valida è lasciarsi trasportare.

Cosa differenzia l’Ep Solace dal vostro album d’esordio I Am The Distance? E cosa distingue i lavori in studio dalle vostre esibizioni live?
Molte delle canzoni del primo album erano fortemente guidate dal pianoforte, un ingrediente che in Solace ha svolto invece un ruolo di accompagnamento; le sonorità erano più acerbe, le soluzioni più ingenue, le dinamiche costruite meno sapientemente. Dovevamo ancora crescere, è chiaro. A volte, al confronto ci sembra che Solace abbia un sound lievemente più grunge in alcuni passaggi, senz’altro “americano” in brani come The Fall Never Comes e Shelter, e più marcatamente folk in Spiral e Butterflies and the black dog. Abbiamo voluto far risaltare maggiormente le differenze tra le nostre tre voci, con Alessio unico interprete nella sua Butterflies, Jacopo e Fabio spesso in duetto e soprattutto l’approccio corale di Spiral; in sostanza, si è voluto giocare più sui cori, sulle armonizzazioni e sui controcanti.
Dal vivo, cerchiamo di ricreare le atmosfere delle canzoni al meglio, con una cura via via più minuziosa per le modulazioni, i cambi d’intensità e gli intrecci vocali; durante le nostre prime esibizioni, fatte da seduti, tutto era più statico, ma da quando abbiamo iniziato a suonare in piedi la qualità dei live – e del nostro divertimento – è decisamente migliorata: il pubblico è più coinvolto, l’esecuzione più precisa e noi ce la godiamo di più.

Cosa viene dopo? Ci sarà un nuovo disco? Ci sarà un tour?
Abbiamo appena terminato un tour che ha coperto varie zone della Lombardia, e al momento quello che ci preme di più è lavorare sul nostro nuovo materiale; di carne al fuoco ce n’è molta, di buoni propositi anche. Tra i nostri progetti c’è sicuramente l’incisione, verso Ottobre, di un nuovo doppio singolo (probabilmente composto da una forma-canzone “canonica” e da una sorta di brano-concept, su cui ancora dobbiamo spremerci), sempre sotto After Life Music Dimension. Questo dovrebbe spianare la strada in vista del nostro primo disco vero e proprio, che si aggirerà intorno alle dodici/quattordici tracce e su cui abbiamo intenzione di concentrarci per buona parte del 2014. L’attività live proseguirà, naturalmente, ma non dovrà ostacolare il lavoro in studio.

Non pensate che la musica italiana sia troppo legata o al solito cantautorato
tradizionale o al Rock alternativo anni’90? Perché nessuno osa?
Il nocciolo è uno: gli italiani non hanno gusto, non hanno apertura, non hanno il senso della sperimentazione e della novità, in niente; tantomeno ce l’hanno nell’arte e nella “comunicazione” (qualunque cosa diamine significhi ormai). Questo non cambierà, perché ogni nostro stimolo culturale è ormai marcito o compromesso. Riconosciamolo e mettiamoci l’anima in pace, cercando nel nostro piccolo di fare qualcosa innanzitutto per noi stessi, e poi per gli altri.

Chi è la grande truffa dell’Indie italiano?
E’ l’indie italiano a essere una truffa.

Romagnoli (Management Del Dolore Post Operatorio) ha provocato tanto al concerto del 1° Maggio fino a tirarsi fuori l’uccello. Pollice su o pollice giù? Voi cosa sareste disposti a fare per decuplicare il vostro pubblico?
Ci pare si commenti da sé… A noi interessa la musica, le troiate da bambini le lasciamo a chi le ritiene opportune per ottenere qualcosa.

Perché da artisti sconosciuti parlano quasi tutti di coerenza, odio verso il mainstream, necessità di esprimersi senza la ricerca del successo? Tutti o quasi giurano che non venderanno mai la loro musica per qualche euro in più ma come la fama si avvicina, l’atteggiamento sembra mutare? Ipocrisia giovanile, ingenuità o è il successo che ti divora e cambia l’anima?
Mantenersi “innocenti” completamente in questo mondo è impossibile, ed è spesso è inevitabile dover scendere a patti con situazioni e sistemi sgradevoli (in ovvia proporzione a ciò che si intende raggiungere); da parte nostra, possiamo solo assicurare che faremo di tutto per mantenerci fedeli ai nostri principi morali, ai nostri sogni (quelli non intaccati dalla merda imperante) e alla musica, che è la sola cosa di cui alla fin fine ci importi.

Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto? Poi, se volete, rispondetemi.
Niente di particolare… Ci auguriamo solo di essere stati esaustivi. Alla prossima e grazie mille!

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Alley

Written by Interviste

Sono i vincitori di AltrocheSanRemo Volume2. Sono gli Alley e avrete ascoltato i pezzi del loro ultimo lavoro sulla notra home. Sono cinque amici che hanno deciso di dare l’anima alla musica e vi chiedono solo di starli a sentire. Ecco l’intervista realizzata con gli Alley da Riccardo Merolli.

Bene, per iniziare fateci capire chi sono gli Alley…
Alley è un progetto che ho fondato io (Davide Chiari), assieme ai musicisti che ora suonano con me: Samuele Pedrazzani, Moreno Barbieri, Damiano Negrisoli e Giacomo Parisio. Il progetto è nato effettivamente quando in una notte ho composto il primo lavoro, “Nag Champa”. In quel momento ha cominciato ad esistere Alley, successivamente il tutto si è realizzato nei live e nella loro preparazione, quando gli amici che ho indicato precedentemente, hanno cominciato ad apprezzare e voler partecipare attivamente nel progetto. A seguito la formula si è ripetuta, anche stavolta funzionante nel secondo album “Tales from the Pizzeria”.

Come nasce la vostra musica?
La nostra musica e le parole sono composte principalmente da me (Davide Chiari) in entrambi gli album finora pubblicati e sarà così anche per i progetti futuri. Il miglior risultato è stato ottenuto lasciando per e durante le situazioni live, carta bianca a tutti gli amici/artisti con cui mi esibisco. Ognuno conosce i propri e gli altri limiti e sa come muoversi di conseguenza, seguendo la traccia principale della canzone, ma ogni volta cambiando rifiniture e addirittura carattere o genere dell’intera canzone. Insomma, ci si intende con gli occhi e si suona, divertendosi un sacco. Speriamo anche di divertire il pubblico.

Avete traguardi da raggiungere?
Tantissimi, anche se il principale traguardo resta quello di far che Alley divenga un mestiere di passione pura sia per me che per tutti nella band.

Quali difficoltà trovate nell’inserirvi nella musica italiana?
Molte, ad esempio il muro mediatico delle tv e dei giornali, che dà un’importanza “imbarazzante” alla musica-spazzatura. Esso costituisce un ostacolo che non solo ci toglie spazio (noi compresi) negli spazi di possibile divulgazione, ma ci toglie anche importanza artistica. Ciò che ci viene tolto finisce per portare più risalto a loro, ovvero gli “anti-artisti”. Noi lo vediamo direttamente dal numero di serate che vengono artisticamente preferite con dj o con coverband. Da menzionare anche le preferenze nei concorsi musicali in cui si suona, all’interno dei quali molto spesso, gli esiti sono già decisi.

Pensate che il sistema indipendente in Italia sia malato? Perché?
No, non penso sia troppo malato, anzi “capillare” ed “intrigante”. Piuttosto, data la crisi, si potrebbe definire in “pausa vegetativa”. C’è comunque un sacco di aria di ripresa.

Quale pubblico potrebbe cogliere in pieno il senso delle vostre creazioni?
Tutti coloro che possono cogliere e godere dei nostri rimandi stilistici. Solitamente le persone al di sopra dei 18 anni, quelle che ascoltano buona musica (hehehehe).

Cosa fareste pur di diventare “famosi”?
La fama non è una condizione che arriva istantaneamente, credo. Sputeremo sangue come tutti e ci si divertirà un sacco.

Avete degli idoli nei vostri ascolti personali che influenzano la vostra musica?
David Bowie, Led Zeppelin, Lou Reed, Pentangle, Electric Light Orchestra, Roxy Music, ecc. , comunque tanto Rock e Glam dei primi settanta.

Cosa odiate della musica italiana (artisti compresi, fuori i nomi!) e cosa invece amate?
Non ci sono degli artisti che odiamo del tutto, a parte Gigi D’Alessio e affinissimi. C’è chi apprezziamo più di altri, tra cui spicca Clem Sacco.

È importante e giusta la diffusione di musica su internet?
Importantissima e se si vuole, quasi completa di tutte le funzionalità di cui un artista dovrebbe disporre.

Cosa c’è nel futuro immediato degli Alley?
Un po’ di date sparse nel nord Italia, soprattutto nella zona di Brescia. E non è da escludere qualche uscita per l’estate.

Qualcosa che tenete a dire e che non vi è stato chiesto. Ditelo qui, sinceramente…
Samuele Pedrazzani, quello alto e biondo, ha davvero una barba così folta (…visto che non ce l’avete chiesto). Secondo noi è importante che la gente lo sappia. (hehehehe)

 

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Albedo Una Sonora Lezione di Anatomia

Written by Interviste

Gli Albedo sono certamente una delle band più seguite e ben recensite di questo ultimo periodo, il loro disco Lezioni di Anatomia sembra essere davvero una figata. A questo punto abbiamo deciso di interpellare il frontman della band Raniero per vedere quanta verità ci fosse dietro questo fenomeno, il risultato è una bella chiacchierata tra Dente che incarna Battisti, ri(e)verberi esageratamente abusati, promoter sbagliati e osterie romane… buona lettura.

Gli Albedo pubblicano Lezioni di Anatomia, il terzo lavoro ufficiale, è quello giusto?

E’ solo un disco. Quando scrivi i dischi pensi che sia sempre quello giusto. La cosa migliore che tu abbia mai fatto. Poi magari te lo risenti ad un anno di distanza e non ti piace più. Sicuramente qua abbiamo dato un taglio piuttosto preciso e cercato di dare un colore uniforme.

Un disco molto intimo, le parti del corpo che cercano di farsi sentire dall’uomo, geniale l’effetto della voce per dare una sensazione di interiorità a chi ascolta, come nascono queste diavolerie?

Il fatto di scegliere a priori un argomento su cui lavorare ci stimola nello svolgere il tema, e non facendo i musicisti di professione e avendo sempre meno tempo da dedicare, credo che ci aiuti a restare concentrati e a trovare ancora delle cose belle in quello che facciamo al di fuori della routine. Anche la scelta dei suoni in fase di mixaggio soprattutto sulla voce l’avevamo già ampiamente discussa tra di noi proprio con quella idea di volerla in un qualche modo renderla innaturale, impersonale, lontana con l’aiuto del reverbero, effetto di cui molto probabilmente abbiamo abusato. Per fortuna abbiamo trovato Adel (il fonico) che si è prestato a quello che per molti potrebbe suonare come un errore.

Testi bellissimi e importanti, colonna vertebrale del disco, la loro creazione segue delle linee precise?

Grazie, non per questo disco. Abbiamo negli anni trovato le nostre formule per scrivere ma oggi come oggi per fortuna trovo delle linee vocali su quasi tutto quello che scrivo, forse perché ascolto tante cose e rubo un po da tutte le parti senza farmi troppi problemi.
Il testo è comunque condizione fondamentale nello sviluppo del brano. Suoniamo gli arrangiamenti in funzione di quello, oppure esattamente al contrario ma non cerchiamo mai di adattare forzatamente l’uno all’altra.

Io vi ho trovato molto post rock con attitudine pop, un genere direi innovativo, molti avrebbero scelto la lingua inglese, voi perché avete scelto l’italiano rischiando e non poco sul risultato finale?

Direi che ci hai preso in pieno. Il pop, inteso come forma canzone e comprensibilità dell’insieme fa parte di noi tutti da sempre. Non abbiamo velleità di sperimentazione alcuna e poi non ne abbiamo le capacità tecniche. Non ci interessa stupire con parti complesse. Ci piace cercare di suonare bene e rendere le parti strumentali interessanti ma non necessariamente prolisse o fini a se stesse. Nella fase di scrittura ho ascoltato molto quello che viene definito post rock ma adattarlo ad una tradizionale forma canzone sarebbe una bestemmia per il genere in sé ed il risultato è quello che c’è in questo disco. Se ci pensi bene i nostri brani potrebbero reggere tranquillamente con una chitarra e voce e così vogliamo che sia. Però non fateci fare più date in acustico perché siamo già abbastanza depressi di natura.

C’è anche un evidente omaggio ai Beatles (A Day in The Life) nel pezzo Stomaco, un legame speciale con le loro canzoni o soltanto una questione di gusto del sound?

Chiunque suoni ha un legame con loro. Al di la di tutto quello che si può dire e che è stato già sicuramente detto, credo che l’attualità del testamento che hanno lasciato alle generazioni future sia soprattutto l’idea di cui parlavamo prima, cioè dell’accessibilità. Quell’incredibile dono per cui quello che scrivi è universalmente riconosciuto straordinariamente bello da tutti. Donne, uomini di qualsiasi età. Non ci piace l’idea che ci si debba chiudere in un genere e cercare di essere riconosciuti in “questo” o “quello”. Per questo aspetto mi sento molto più legato a loro che a tanti gruppi a cui musicalmente siamo più simili. Naturalmente parlo di attitudine e non di risultati artistici. Sapevamo di farla fuori con questa citazione pesante ma noi abbiamo sempre scritto senza il dover pensare al dopo.

Cosa è cambiato dalle precedenti produzioni? Vi sentite artisticamente diversi?

Ci piace pensare di essere maturati,almeno un pochino. Ci piace anche cercare di fare qualcosa di diverso probabilmente perché le cose che facciamo ci stufano presto. A dire la verità, e lo penso sul serio, non crediamo di essere un gruppo fico. Non risento quasi mai i nostri dischi. Non mi piacciono. Semplicemente penso che non siamo tanto peggio di tanti altri. Quando leggi ovunque che Dente è il nuovo Battisti, everything is possible. Albedo i nuovi Bee Hive? Ci sta tutta.

Tutte le recensioni parlano bene di Lezioni di Anatomia, siete consapevoli di aver fatto un ottimo lavoro? Considerando il post di Miro Sassolini che definisce il vostro disco il migliore in circolazione in questo periodo?

Ai gruppi come noi rimangono solo tre cose: le pacche sulle spalle alla fine dei concerti accompagnate da un fragrante “Bravi, cazzo”, i messaggi e i post su facebook dove per fortuna ci insultano ancora pocome le parole di persone che ascoltano tantissimi dischi e che rimangono entusiasti dal nostro e ci danno le 5 stelle Michelin. Certo quando poi ne arrivano di belle da chi ha scritto una parte di musica alternativa italiana allora è tanta roba, perché è interessante scoprire che interessi anche a generazioni musicali differenti in tutto e per tutto,persino e soprattutto in termini fruizione. Questo ovviamente fa onore a lui e non a noi, che come generazione facciamo poco parlando tanto.

Adesso è il tempo di montarsi la testa?

Adesso è il tempo delle mele.

Sono a conoscenza della prossima uscita del video “ufficiale” di Cuore (l’opener di Lezioni di Anatomia), volete parlarci del video?

Un giorno mi ha chiamato Fabio Valesini, mi ha detto che non aveva mai fatto un videoclip musicale, che aveva uno storyboard dove succedevano cose che non si capivano, che era girato tutto al contrario ma montato dritto ma che poi alla fine il risultato sarebbe stato metà e metà, che c’era una scena con delle radiografie che si animavano, e che avremmo dovuto procurarci un carrello della spesa perché con il budget che gli era stato dato non ci prendevamo nemmeno una sedia di legno.
Come potevamo dirgli di no?
Ed in effetti il risultato è sopra ogni nostra aspettativa,come ogni idea malsana che si rispetti.

Gli Albedo quale ruolo potrebbero ricoprire all’interno della musica italiana?

Ci siamo abituati all’idea di essere marginali. Uno di quei gruppi che fa 34 dischi ma li scopri al 33. Quello che facciamo ha bisogno di maturare nel tempo. Il fatto è che non siamo abbastanza originali per spiccare e non siamo abbastanza stronzi per farci odiare… Non ci tingiamo i capelli, non siamo omosessuali, non siamo intellettuali, non ci vestiamo con gli stracci e non viviamo nei furgoni. Non fingiamo di essere quello che non siamo. Menchemeno ci dichiariamo artisti quando tra 4 o 5 anni nessuno si ricorderà più di noi. E nemmeno di tutti gli altri. I tempi sono cambiati. Ci sono troppi dischi e troppi gruppi per cui alla fine non emerge nessuno davvero. E se lo fa, lo fa per un tempo assai breve. Non possiamo essere tutti i Joy Division, dai,siamo seri. Noi  abbiamo una casa, una famiglia un lavoro. Le nostre scelte le abbiamo già fatte. Per questo forse nei nostri dischi c’è una buona dose di realismo. Certo un’ampia cassa di risonanza ci aprirebbe ad un pubblico più grande, ma poi perderemmo il fascino degli eterni incompresi e non sarebbe più divertente per noi lamentarci e parlare male di tutti gli altri.

Avete un disco da promuovere quindi presumo un tour da onorare, c’è qualcos’altro che bolle in pentola?

La verità è che a suonare in giro ti diverti molto solo quando la situazione è perlomeno decente. Quando trovi realtà assurde a 700 km da casa la prima volta ci ridi, la seconda spacchi un disco de I CANI, la terza ti chiedi se ne vale la pena di fare tutta quella strada. Proprio perché abbiamo scelto di suonare solo per divertirci se andiamo a suonare ed è tutto una merda non ci andiamo più. Quindi faremo meno date ma meglio organizzate. Non perché pensiamo di meritare chissà cosa ma è perfettamente inutile per noi andare fino a Bari in un locale che di solito fa suonare cover band al cui pubblico non interessa nulla di noi, perché il promoter non sa fare il suo lavoro. O suonare con la chitarra acustica mentre la gente mangia manco fossimo nelle osterie romane.
Onoro e rispetto chi fa quello ma non è quello che vogliamo fare noi.

La scelta di affidare il disco ad una nuova e freschissima etichetta (V4V Records) è stata una buona idea?

Potrei trollare quei deficienti qui ed ora per diciassette minuti di applausi ma ti dico in verità che trovare persone che investono cosi tanto in un progetto come il nostro facendolo bene, è ad oggi in pratica impossibile.
Ci perdono soldi ma soprattutto tempo. Lo sanno e lo fanno consapevolmente. Se ci pensi è assurdo. Allora quello che ci lega davvero sono le stronzate che ci scriviamo in chat e l’idea di condividere insieme qualcosa di tanto nostro quanto loro. Va oltre le aspettative di vendita o di successo mediatico. Posso solo dire che se avessero i mezzi e fossero persone come loro a capo di importanti case discografiche non staremmo adesso nella situazione in cui siamo. La competenza in questo settore sembra essere una chimera.

Adesso che siete ricchi e famosi e scopate da Dio potete dire tutto quello che vi passa per la testa, questo è il vostro spazio…

Se questo fosse il mio spazio direi a tutti i lettori di non drogarsi e di avere rispetto per gli alberi e di non farli pisciare dai cani. Comunque come tu sappia certe cose rimane per noi un mistero.

 

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Crowdfunding: questo sconosciuto. Analisi di un fenomeno -musicale e non- in evidente espansione e intervista al team di Musicraiser e alla band Il Terzo Istante

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Il crowdfunding è una forma di autofinanziamento che gli artisti utilizzano per realizzare i loro progetti. Sembra molto chiaro, detta cosi. Non è un’idea nata in Italia, ma da qualche tempo si sta diffondendo fortemente nel nostro paese. Per dirla in breve e molto semplicemente, il meccanismo è questo. Una band decide di realizzare un album, un Ep, un video oppure di andare a suonare all’estero (come nel caso dei Christine Plays Viola) ma non ha soldi per realizzare questo progetto. Prima del crowdfunding la band, generalmente emergente, cosa avrebbe fatto? Si prova a suonare nei locali della zona, cercando di mettere da parte qualcosa, magari vendendo qualche gadget. Si risparmia in proprio o si chiedono i soldi a papà o a chiunque abbia la possibilità di elargire dei mini prestiti senza fare lo strozzino. C’era da sudare, insomma. Ora invece, le stesse band possono presentare il loro proposito a piattaforme specializzate che valuteranno la validità dell’idea. Una volta che il progetto è scelto, il gruppo realizza un video, dove può spiegare le proprie ragioni, promuovere il materiale in vendita oppure semplicemente far ascoltare la propria musica. Alla band è quindi assegnata una pagina all’interno della piattaforma, dove è presente quel video. Si fissa un budget da raggiungere che chiunque può visionare tramite un apposito contatore, un tempo massimo e vengono elencate tutte le offerte della band. L’utente potrà quindi acquistare uno dei prodotti e, alla fine del tempo indicato, se la somma prefissata è raggiunta, la band incasserà il tutto, meno una percentuale che resta nelle casse della piattaforma ospitante. Come vi dicevo è tutto molto comprensibile ma solo all’apparenza. Tale sistema ha generato un’infinità di polemiche legate a diversi aspetti. Chiariamo una cosa. Le band non si limitano a vendere Cd, file audio, T-shirt e spille. Possono far pagare un euro in più un Cd autografato, commercializzare una loro telefonata a casa o la presenza a cena con voi. Cose che non c’entrano molto con la musica. Tutto questo, per alcuni, somiglia a una disperata elemosina web. Inoltre, pone le band in un atteggiamento antipatico (dovresti essere te sconosciuto, a essere felice di farmi un autografo e non io a pagarti) nei confronti del pubblico. Inoltre, molti progetti mirano alla realizzazione di un disco che è anche l’oggetto in vendita. Quindi il pubblico paga qualcosa che non esiste ancora, in realtà. Insomma, la cosa non è proprio cosi naturale e sul web potete leggere infiniti articoli contro. Io ho le idee molto confuse. Non vedo nulla che riporti al concetto di elemosina perché, in fondo, si vende qualcosa. E anche quando si chiede un semplice sostegno economico, non vedo perché debba essere chiamata elemosina, visto che in chiesa si chiama offerta. Le parole sono importanti. In merito al rapporto col pubblico, anche qui non penso che possa essere il crowdfunding elemento di allontanamento. Primo perché, trattandosi di band spesso sconosciute ai più, chi partecipa al progetto è di solito già fortemente fidelizzato con il suo piccolo pubblico. Inoltre, molte delle cose (in senso ampio) in vendita sono proposte in maniera ironica (vedete la pagina dei Twiggy è Morta, ad esempio) e divertente, senza arroganza. Anche sul discorso dell’acquistare qualcosa che non esiste, non è certo pratica nuova. Succede con le case, le auto e in fondo, se il progetto non si realizza, mi sono restituiti i soldi. Nessun rischio. Su questi punti sono riuscito a farmi un’idea ma evidentemente non ho ancora molto chiara la visione generale. Inoltre ci sono altre questioni che non vi ho posto e che, tra gli articoli che ho letto, nessuno ha sollevato fino ad ora. Ho fatto quindi la cosa migliore che potessi. Mi sono rivolto direttamente all’agenzia italiana più importante del genere: Musicraiser. Ecco cosa mi hanno risposto.

P.s. Il crowdfunding non è un concetto applicato solo alla musica, ma a Rockambula questo interessa

Crowdfunding. Di cosa si tratta? E Musicraiser?
Il crowdfunding é la web resource culturale, finanziaria e politica che permette a qualunque cittadino di poter contribuire a una causa in cui crede o di proporre il proprio progetto al vaglio della rete al fine ottenere finanziamenti in cambio o meno di un corrispettivo proporzionato all’impegno economico sostenuto da chi partecipa alla campagna che può consistere in:
–           Quote societarie (nel caso di una società di capitali) o percentuali di guadagno su un progetto che ha l’obiettivo di conseguire profitti. (Equity based crowdfunding)
–           Ricompense che possono consistere in qualsiasi bene materiale o immateriale, fisico o digitale che i creatori dei progetti offrono in cambio del contributo a chi crede nella realizzazione del loro progetto. (Reward based crowdfunding) Questa tipologia di crowdfunding riguarda prevalentemente progetti di carattere artistico (cinema, musica, fumetti, design, editoria etc.)
–           Nulla di materiale se non la soddisfazione di aver contribuito ad aiutare una causa che riguarda una situazione di difficoltà di un singolo o di un gruppo di persone (Donation based crowdfunding). Progetti di raccolta fondi per lo più lanciati da ONLUS, associazioni no profit o cittadini privati appoggiati da piattaforme dedicate.
Il crowdfunding può essere “diretto” ovvero se lo si crea sul proprio sito autonomamente, oppure può essere “ospitato” su una piattaforma che offre il servizio di raccolta. Il crowdfunding può prevedere un obiettivo economico che, solo se raggiunto, da diritto a ricevere il finanziamento (altrimenti i contributi vengono restituiti a chi li ha versati) il cosiddetto “All or nothing model”, oppure può prevedere che, nonostante il non raggiungimento dell’obiettivo di raccolta, i fondi restino al creatore del progetto, il “Flexible model”.
Esistono al mondo circa 600 piattaforme web di crowdfunding di cui il 60% negli USA e il restante 40% nel resto del mondo. In Italia sono una ventina circa.
Le piattaforme di crowdfunding possono essere “orizzontali”, nel caso in cui ospitano progetti di diversa natura (dalle cause umanitarie alla lista di nozze a progetti creativi), oppure “verticali”, cioè focalizzate in un settore specifico. Es. cinema oppure musica oppure sport etc.)
Il presidente degli USA Barack Obama ha usato il crowdfunding per finanziarsi la campagna elettorale del 2008 attraverso una campagna di crowdfunding.

Musicraiser è una piattaforma di crowdfunding di tipo reward based verticale sulla musica che adotta l’All or nothing model. Musicraiser offre il servizio di raccolta fondi ai musicisti e agli altri operatori del settore musicale (case discografiche, promoter, festival, agenzie di booking, videomaker etc.) e non detiene alcun diritto intellettuale né d’autore sui contenuti ospitati sul sito.
In questo momento ospitiamo sul nostro sito un numero di campagne di crowdfunding attive per progetti musicali che ci colloca tra le prime tre piattaforme in Europa per raccolta in valuta Euro.

Chi garantisce al pubblico che i soldi raccolti saranno spesi interamente per il progetto indicato? Coloro che creano un progetto su Musicraiser, che noi chiamiamo Creators, cosi come quelli che lo fanno in qualunque altro sito di crowdfunding, s’impegnano a onorare i propri impegni. Se il progetto riceverà più fondi di quelli richiesti, sarà cura del creatore del progetto comunicare ai finanziatori come utilizzerà le ulteriori somme ricevute.

Ad esempio ho visto una band che cercava di finanziarsi la partecipazione a un festival in Austria. L’acquisto del disco e del merchandising è legato direttamente a questo?
Vorrai dire che cercava fondi per sostenere le spese di viaggio per partecipare a un festival in Austria… In ogni caso la risposta è sì, se vuoi contribuire alle spese di un importante step di una band che crede in se stessa e soprattutto in cui TU credi, puoi contribuire al progetto per avere in cambio una copia del loro disco o quello che hanno destinato come “ricompense”. Si tratta di un finanziamento con destinazione d’uso in cambio di una ricompensa.

Se la band, per un motivo o per un altro, non può più andare a quel festival, deve restituire i soldi, anche se in realtà ha venduto il prodotto?
Premettendo che per fortuna (soprattutto per le band) una cosa del genere non è ancora capitata, ti dico che in queste estreme eventualità sarà l’artista che provvederà a contattare i propri finanziatori e a chiedere loro se pretendono un rimborso o se, avendo ricevuto la propria ricompensa, saranno soddisfatti in ogni caso.

Alcune band propongono, in cambio di soldi, la possibilità di scegliere, ad esempio, abiti di un concerto oppure la scaletta. In questo caso chi garantisce che la band mantenga le “promesse”?
Ogni artista è libero di offrire le ricompense che vuole (l’unico limite è la legge e la propria creatività) in cambio dei contributi dei suoi sostenitori così come i suoi sostenitori sono liberi di contribuire al progetto o meno. E’ una questione di fiducia e ne risponde sempre il creatore del progetto che si assume l’onere di provvedere alla consegna delle ricompense una volta che il progetto è stato finanziato con successo. Musicraiser é solo uno strumento e il rapporto legale, fiscale e fiduciario che lega il creatore del progetto al proprio finanziatore è deputato all’artista che crea il progetto. Tutto questo è indicato chiaramente nelle F.A.Q. e nei Terms of use della nostra piattaforma.

Tra le diverse critiche, quella che mi ha colpito di più non è tanto di chi ha definito il crowdfunding “l’elemosina del terzo millennio”, ma piuttosto di chi afferma che qualche anno fa, se chiedevi a una band emergente un autografo, la stessa ne era entusiasta mentre con questo sistema un gruppo di sconosciuti ti fa pagare anche una telefonata. C’è il rischio che le band si allontanino dal pubblico invece che il contrario?
Sarebbe elemosina se in cambio del proprio sostegno i finanziatori non ricevessero nulla in cambio del proprio contributo. Ma se con il crowdfunding impegni € 10 per ricevere l’album di una band che ami, sapendo che nel caso il progetto non raggiungesse l’obiettivo economico prefissato, i tuoi soldi ti saranno restituiti, non è esattamente come comprare in prevendita una copia del loro prossimo album?  Che c’è di strano in questo?
Quanto all’atteggiamento di alcuni artisti dipende solo dalla loro personale maturità umana.  Non siamo attrezzati per effettuare controlli in merito alla dose di egocentrismo dei musicisti che si propongono sulla nostra piattaforma, ma assicuriamo uno scrutinio scrupoloso sulla credibilità artistica e professionale prima di accettare i progetti. E poi anni fa noi non c’eravamo, la piattaforma è on line da appena cinque mesi.

Mi pare di aver capito che l’artista si tiene i soldi solo se viene raggiunto l’obiettivo.
Esatto, in caso contrario l’artista non riceve nulla, Musicraiser non guadagna nulla e i finanziatori del progetto verranno interamente rimborsati della cifra impegnata. Zero rischi. Come dicevo prima il nostro sistema si basa sul modello “All or nothing” (tutto o niente).

Voi vi tenete il 10%. Quindi una band che non raggiunga l’obiettivo avrebbe vantaggio ad autofinanziarsi, cosi da intascare quanto versato fino a quel momento dalla gente. Obiettivo 1000€, la gente versa 500€, manca un giorno. La band aggiunge i 500€, piuttosto che fallire lo scopo e restituire tutto. Meccanismo un po’ ipocrita e pericoloso, forse?
Ci teniamo il 10% più iva. È il minimo indispensabile per reggere le spese del sito. Inoltre addebitiamo anche le spese di transazione tramite carta di credito (che a nostra volta ci sono addebitate da paypal). Pensiamo che sia una percentuale onesta e che può non incidere economicamente sull’esito di una campagna. Aggiungo che tre campagne finanziate su quattro terminano la raccolta con percentuali di riuscita superiori al 110% (il record è stato fatto dalla campagna di Gianni Maroccolo che ha raggiunto il 304% raccogliendo più di € 27.000, la maggior parte si attesta intorno al 130%) quindi se l’artista è bravo a promuoversi può ripagarsi in parte o del tutto le competenze di Musicraiser. Considera che il nostro servizio prevede anche una promozione on line e off line che permette a una campagna di crowdfunding di diventare anche un’ottima occasione per far parlare di se e acquisire immediata visibilità soprattutto sul web ma anche sulla carta stampata. Molti artisti che sono passati da Musicraiser hanno raddoppiato i loro contatti social alla fine della campagna. Questo grazie anche al nostro widget gratuito, un’applicazione che permette di replicare la campagna di raccolta fondi direttamente sulla pagina facebook degli artisti. Inoltre Musicraiser promuove a proprie spese i progetti che reputa più interessanti o più originali.
Per quello che riguarda l’ipotesi che un creatore di progetto che si auto finanzi la campagna per la parte residuale della somma che gli serve a centrare l’obiettivo e ricevere così il denaro, posso dire che ciò non accade spesso ma può capitare e non possiamo impedirlo tecnicamente né noi di Musicraiser né qualunque altro sito di crowdfunding. Questo perché le piattaforme di pagamento on line (tipo paypal, che ci fornisce il servizio) sono costruite con codici di programmazione che non prevedono eccezioni di tipo etico purtroppo.  Potrebbe essere discutibile centrare l’obiettivo versando soldi propri ma potrebbe anche essere che il creator li abbia raccolti off line o li abbia anticipati per qualcuno e li versi a suo nome per chiudere la campagna. In questi casi non ci vedo nulla di pericoloso o d’ipocrita.

Sicuramente la situazione è migliorata rispetto a qualche giorno fa, ma per chiudere il cerchio ho chiesto a Marco Lavagno di fare qualche domanda in merito ad una band che ha deciso di utilizzare questa forma di finanziamento (che io preferirei chiamare vendita). Quello che ci hanno risposto lo leggerete giovedì prossimo, nella seconda parte del nostro articolo.

to be continued…

Ecco un esempio di video di presentazione:

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Roberta Carrieri

Written by Interviste

Roberta Carrieri è tante cose. Simpatica, disponibile, alla mano, ma soprattutto una bravissima cantante e un’autrice divertita e divertente. La raggiungo via mail per un’intervista sul suo ultimo disco, Relazione complicata, ma anche sulle donne in musica, sul valore delle collaborazioni, sulle sue esperienze all’estero e sull’importanza delle proprie radici.

Partiamo dal nuovo disco, Relazione Complicata, uscito da pochissimo. So che è un concept, ce ne vuoi parlare?
Sì, è un concept che si muove intorno al tema delle “relazioni complicate”, idea che mi è venuta a seguito della lettura del libro della psicoterapeuta americana Robin Norwood che affronta la questione delle dipendenze affettive. Ho pensato: perché non provare a scrivere canzoni raccontando in modo ironico varie tipologie di relazione complicata? E sono venute fuori le canzoni di questo disco.
Per relazione complicata non intendo solo quella sentimentale tra uomo e donna, naturalmente. Bari Vecchia, per fare un esempio, parla della relazione complicata nei confronti della propria città… nel mio caso, Bari.

Com’è nato, e come si è sviluppato, Relazione Complicata? Ho letto che partecipano al disco i Rock’n’Roll Kamikazes e i Selton. Come sono nate queste collaborazioni e quanto hanno influito sul prodotto finale?
I Selton sono i “Pirati” de Il Valzer dei 3 giorni. Nutro una grande stima per loro sia come musicisti sia come persone, perché sono sempre solari e ben disposti, dote rara. Mi è piaciuto in questo disco sottolineare l’incontro tra maschile e femminile utilizzando interventi di voci maschili disseminati qua e là… oltre ai Selton, infatti, ci sono anche altre voci maschili, tra cui Aldebran dei Bloody Mary e Andy Macfarlane dei Rock’n’Roll Kamikazes. Con loro ho voluto sperimentare un incontro musicale atipico, visto che io vengo dal folk e e queste canzoni erano, per scrittura, abbastanza pop (nel senso dei ritornelli facili). Volevo vedere cosa sarebbe successo suonandole con un gruppo rock’n’roll/rockabilly e quello che ne è venuto fuori è questo suono un po’ western, surfeggiante a tratti, “Paris, Texas”. Quindi devo dire che sono più che soddisfatta dell’esperimento.

Quanto conta l’elemento femminile nelle tue canzoni? Più in generale: credi che “la donna in musica” sia in qualche modo “condannata” a cantare della propria (o altrui) femminilità, a farci sempre, e comunque, i conti? Secondo te questo è un valore o un limite, o entrambi?
Questa domanda la trovo molto interessante… la donna a mio parere non canta la propria femminilità, né è condannata a farlo… è semplicemente, naturalmente e inevitabilmente quello che è, cioè donna. Quindi non deve farci i conti, non è un valore e non è un limite. È quello che è.
Hai mai fatto la stessa domanda a un uomo? Anche gli uomini cantano inevitabilmente quello che sono come persone, portandosi dietro inevitabilmente la loro mascolinità. (Lo stesso vale per tutte le altre sfumature di identità sessuale naturalmente). Nessuno però se ne pone mai la questione… prova a chiedere agli Zen Circus se si sentono condannati a cantare la loro mascolinità! O agli Afterhours… o a Capossela… Il limite vero, nella realtà dei fatti, è che in Italia le autrici, rispetto agli autori, sono ben più rare, ed è per questo che ci viene da fare questo tipo di domande… bisognerebbe che ce ne fossero di più! Ma vedrai che pian pianino succederà.

Ti seguo abbastanza, e vedo che suoni spesso all’estero (da sola, ma anche “ben accompagnata”, con Voltarelli, ad esempio). In passato hai anche fatto tournée negli States e altrove. Com’è suonare musica italiana per il mondo? Come vengono recepite le tue canzoni nei Paesi in cui sei stata? C’è qualche episodio particolare che ti ha colpito?
Accompagnata benissimo direi! Peppe è un mio grande amico e dividere il palco con lui è veramente uno spasso. Qualche giorno fa siamo stati insieme a suonare a Bruxelles e quest’estate abbiamo condiviso l’intensissima esperienza del Festival di Avignone con anche Gabriella Grasso. L’esperienza all’estero è cominciata per me con i Fiamma Fumana con i quali ho avuto la possibilità di girare in lungo e in largo per Stati Uniti, Canada e Nord Europa. Devo ammettere che la cosa è molto gratificante, soprattutto perché all’estero ho sempre cantato in italiano (le mie canzoni) o addirittura in dialetto, con i Fiamma Fumana. Il pubblico apprezza proprio questo, la nostra identità culturale, e comunque rispetto all’Italia è un pubblico un po’ più curioso rispetto alle novità e alla musica, probabilmente perché meno succube della televisione… un episodio particolare che mi ha colpito è stato quando in America, e precisamente quando ho aperto per Rita Coolidge all’auditorium della Riserva Navajo a Shiprock, N.M., mi volevano pagare i cd più del loro prezzo, insistendo e dicendo che valevano di più!

Ho visto che su Youtube, nella descrizione del teaser inglese del tuo ultimo disco, viene specificata la tua provenienza pugliese. Che rapporto hai con le tue radici, dalla Puglia, al Sud, all’Italia intera? Come accennavi prima, hai anche cantato nei Fiamma Fiumana, uno dei più importanti gruppi di “italian world music”. Quanto conta, nella tua esperienza, la musica popolare?
Sono stata appassionata di musica popolare per anni, poi la mia attenzione musicale si è spostata verso altri lidi, conservando naturalmente quell’imprinting. Sono del Sud e orgogliosa di esserlo, anche se mi è piaciuto assorbire le cose belle dei posti che ho incontrato. Una certa attitudine mediterranea, soprattutto nei rapporti con gli altri, la porto e la porterò sempre con me, cercando di non dimenticarla mai. Un po’ come il mare. La canzone Bari Vecchia contenuta in Relazione Complicata parla proprio di questo, e della relazione conflittuale che si può avere con la città nella quale si è nati e cresciuti, e dalla quale poi, per un motivo o per l’altro, si è dovuti andar via, portando però sempre dentro di sé quel mare a cui si è stati abituati da quando si è nati.

So che vieni dal teatro, e in generale da esperienze attoriali, e che occasionalmente questa tua passione riaffiora (ti ricordo nel ruolo di ballerina indemoniata nel video – molto bello – di Farà Cadere Lei de Il Pan Del Diavolo). Quanto ti porti dentro di queste esperienze, sul palco e nel tuo modo di scrivere?
Quando lavoravo al Teatro Kismet a Bari avevo imparato (grazie agli insegnamenti della mia maestra Teresa Ludovico) a pensare per immagini o azioni più che per parole: se con i Quarta Parete questo si traduceva concretamente in azioni o immagini in uno spettacolo a metà strada fra la musica e il teatro in cui i due frontmen cantanti si muovevano come in un “videoclip dal vivo”, ora che vado in giro a suonare accompagnandomi con la chitarra e ho le mani occupate (!), ho spostato questa attitudine nei testi e nell’interazione col pubblico… in quest’ultimo disco un po’ di teatralità la si può ritrovare anche nel lavoro fotografico del booklet, opera del fotografo (nonché amico) Stefano Ruzzante. Del video de Il Pan del Diavolo conservo un ricordo molto forte… sono tornata a casa con le gambe completamente scorticate ma contenta perché era stata una danza liberatoria (un po’ come la pizzica tarantata).

Per finire, mi accorgo, facendoti tutte queste domande, che collabori tantissimo con altri artisti (se dovessi fare un elenco ci metterei due giorni). Quanto credi sia importante fare “rete”, nel mondo musicale italiano? Credi sia fondamentale per la crescita di un artista, o pensi sia spesso solo un modo per farsi più pubblicità possibile (senza esserci, in questo, necessariamente qualcosa di male)? Nella tua storia personale, quanto ti ha aiutato come artista e come persona? Sono state occasioni casuali o progettate?
Fare rete è importantissimo, soprattutto se si tratta di persone con le quali si condividono intenti e immaginari. Facendo rete si cresce insieme nello scambio di vedute, esperienze e abilità peculiari messe in condivisione. Non penso sia un fatto di pubblicità, io personalmente credo che non potrei condividere il mio tempo e la mia energia vitale con qualcuno che non stimo e che non mi stimoli, solo per farmi pubblicità. Sarei infelice se lo facessi. Certo la collaborazione con Van de Sfroos mi ha dato molta visibilità, ma se alla base non ci fosse stata la simpatia musicale (e personale) e la curiosità reciproca, la cosa non sarebbe avvenuta sicuramente, o comunque non sarebbe durata quanto è durata. Le collaborazioni in generale mi hanno aiutata nel senso che mi hanno dato la possibilità di imparare da chi ne sapeva più di me (o anche semplicemente in maniera diversa da me) e di arricchirmi della sua esperienza, sia dal punto di vista artistico che personale, come, giustamente, dici tu. Questo è successo anche quando nella collaborazione ricoprivo io il ruolo di quella più “brava” o più “conosciuta”, perché è nell’incontro che ci si arricchisce ed è reciproco. Poi secondo me è necessario sempre essere aperti e umili, altrimenti l’incontro non avviene. Quindi, insomma, concludendo, le collaborazioni che mi è capitato di avere non sono mai state progettate, ma per usare una parola importante… sono forse stati “incontri karmici”.

Relazione Complicata è disponibile su iTunes qui.

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Two Guys One Cup

Written by Interviste

Quando credi che la serata sia già finita e ti appresti ad affrontare il bicchiere della staffa, di norma non ti aspetti più di tanto dal resto della giornata. Invece, a volte, succede qualcosa che può sorprenderti piacevolmente e che può portarti a prolungare ancora la serata (ed anche a continuare a bere, ma questa è un’altra storia). Disilluso e stanco mi trovo per caso ad ascoltare, nel buio del Qube di Pescara, un duo di power rock veramente valido ed a me fino ad allora sconosciuto, i Two Guys One Cup. Stefano Galassi, il batterista, picchia sodo e pare non perdere mai la concentrazione mentre Federico Falconi suona come un invasato la sua chitarra e coinvolge con le sue liriche anglofone. Ma dove sono finito? Non volevo farmi un solo bicchiere ed andare a casa? Invece, dopo una ventina di bicchieri della staffa, ecco che parte inevitabilmente la chiacchierata.

Two Guys One Cup. Dove nascono, cosa fanno e dove vogliono arrivare?
Noi veniamo da Teramo, ed il nostro genere può essere associato al rock indipendente, anche se di preciso non sappiamo classificarci. Riguardo a dove voler arrivare beh, vorremmo diventare famosi solo per avere una giustificazione nel portare gli occhiali da sole di notte. È da artisti. Con le lenti specchiate, magari.

Parliamo un po’ della vostra musica. Quali sono le vostre influenze? Vi ispirate a band come Japandroids o Death From Above 1979 che vi somigliano molto sia per formazione che per musicalità o le vostre scelte sono diverse?
Noi non abbiamo propriamente delle ispirazioni, a parte magari Hives, Mojomatics e roba simile. Facciamo semplicemente quello che ci piace e cerchiamo di farlo nei nostri limiti. Puntiamo molto suoi suoni, essendo un duo dobbiamo spingere su quest’aspetto per creare un sound compatto.

Il panorama italiano musicale al momento: vi appassiona o vi fa schifo? Come vi ponete al suo interno o meglio, c’è un posto per voi al suo interno?
La scena italiana è morta anni fa. Non c’è spazio per i giovani, per le band underground o per chi cerca semplicemente di fare musica che non sia mainstream. Però siamo ottimisti: forse, un giorno, qualcosa si ricostruirà e noi saremo lì, pronti ad occupare il nostro posto.

Quanto pensate che la formula del duo sia vincente? Come nasce l’idea di suonare con una line-up così scarna?
È sicuramente un’idea vincente al 100%, poiché ci aiuta ad essere più liberi ed indipendenti. Essere in due ci aiuta molto in questo, non ci sono fronzoli e cerchiamo di essere più diretti possibile. La difficoltà arriva soprattutto durante i live: in due devi spingere per cinque, cercando di trovare il suono e la potenza giusti per non far rimpiangere una formazione classica di più elementi. È difficile anche perché il pubblico nota molto più i tuoi errori: se sbagli in una band “canonica”, non risulta così evidente come quando si è in due.
La scelta poi nasce fondamentalmente dall’amicizia e dalla voglia di cercare qualcosa di veramente impegnativo che ci soddisfacesse a pieno: in due è più facile far collimare le idee, ma un altro conto è farle suonare bene quando si hanno a disposizione solo chitarra e batteria.

A proposito di cose difficili: la scena musicale della vostra regione è già di per sé scarna ma anche inficiata da un mare di cover/tribute band. È difficile suonare per voi nella vostra regione?
La musica ormai è solo una questione di soldi. A chi gestisce questo mercato non importa la qualità o la novità, ma la quantità di gente che porti. Ed il problema non è solo in Abruzzo, ma in tutta Italia ed anche all’estero: a Londra abbiamo visto che suonano una marea di cover band, anche se chi ha proposte originali ha molto più spazio rispetto che da noi.

I vostri testi sono in inglese. È una scelta portata esclusivamente dalla musicalità del prodotto finale o legata alla voglia di uscire fuori dall’Italia?
Non abbiamo mai pensato di fare testi in italiano perché fermarsi qui vuol dire morire. Se vuoi campare e farti conoscere qui con la musica è meglio fare del pop, e non è di sicuro il nostro caso. Cerchiamo di andare avanti con i nostri pezzi per espatriare, restare unicamente qui è deleterio. Prima c’era più spazio per gruppi emergenti o originali, sia nei centri sociali che nei locali si suonava parecchio, forse perché c’era anche più cultura musicale. Oggi Dj Set e cover band spadroneggiano e fanno molti più numeri che una band sconosciuta; questo ti porta a desistere, ma allo stesso tempo ti sprona ad andare avanti per dimostrare che la tua è comunque una proposta valida.

A questo proposito: cosa manca alla cultura musicale italiana rispetto a quelle anglosassoni o mitteleuropee?
Il valore della musica è differente. Si è perso il gusto di ascoltare rock o punk qui in Italia, non si trasmette più il fatto di ascoltare musica come cultura ma solo come forma di disimpegno. Poi ricerca e cultura in ambito musicale sono scomparse. Tutto questo si riflette anche sul pubblico, che cerca sempre di più una forma di intrattenimento “leggero” piuttosto che fermarsi ed ascoltare. La gente forse non sa che esistono band che spingono allo stesso modo davanti a quattro o quattrocento persone. Noi siamo così, abbiamo limiti di carattere tecnico ma sul palco diamo tutto e lo facciamo per passione, di certo non per darci delle arie. Poi c’è chi va a suonare, prende i suoi soldi ed il giorno li usa per mangiarsi una pizza. Noi non siamo così.

Parlateci un po’ del vostro disco Life Beyond the Door e dei vostri progetti futuri.
Life Beyond the Door è uscito da un mese ed è completamente autoprodotto, ascoltatelo, ne vale la pena. Inoltre siamo già in studio con altre idee, anche se è prematuro parlarne. La prossima data sarà a Roma, seguiteci su facebook per scoprire tutti i nostri live.

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REVERENDI

Written by Interviste

Grandi novità in questo 2013. E Rockambula cerca con santa pazienza di curiosare dove qualcosa si muove nel sottosuolo. Appiccica un orecchio al terreno per cercare di captare le vibrazioni più interessanti e viscerali. Quello che il buon vecchio Pino Scotto chiama “Il grido disperato di 1000 band”.
La vibrazione interessante di oggi è rappresentata da una band nata poco più di un anno fa a Torino da tre ragazzi che di palchi e di studi di registrazione in realtà ne hanno già calpestati. I Reverendi oggi si presentano senza mezzi termini e profetizzano: “il rock non lo fanno mica solo gli americani”. Escono ora con “Meno è sempre di più”, EP-concept di sette pezzi. E allora noi di Rockambula pigliamo la palla al balzo e ci facciamo due chiacchiere con il cantante/bassista Daniele.

Ciao Daniele, siete nati da pochissimo e vi presentate con un progetto molto ambizioso e determinato. Un concept di sette pezzi, tutti attaccati tra loro senza pause. Forse un’attitudine che tiene a valorizzare più l’intero pacchetto che i singoli brani. E’ poco pop o sbaglio?
Ciao!
Questo EP esce come nasce. Avremmo potuto scrivere una canzone unica, anche perché unico è il messaggio di questo esperimento: “meno è sempre più”, tutti i pugni che quotidianamente incassiamo sono stimoli per lottare, crescere e puntare al cambiamento.
Ciò che è sempre differente è il punto di vista e lo scenario del nostro messaggio. Ecco che prendono forma 7 canzoni, ognuna rappresentazione delle nostre debolezze.

Nelle vostre canzoni raccontate il vostro vivere in una band al giorno d’oggi. Il brano di apertura del vostro disco si chiama “Metafora sociale”, davvero fare parte di un gruppo musicale è una presa di posizione “sociale”? Ci fornisci una piccola guida per l’ascolto?
Metafora sociale è una canzone che è finita al primo posto nel disco non si sa per che motivo perché iniziare un disco così è una bella mazzata di allegria..
Abbiamo scritto questa canzone cercando di rendere con il testo e con la musica la violenza psicadelica che stiamo vivendo. La canzone parte dalla conclusione, quindi svelando già il significato metaforico della canzone accostando il momento storico/sociale che viviamo ad un ubriacone che vuole smettere di bere, ma che finchè non schiatta nel suo vomito alcolico non si nega l’ultimo bicchierino.
Nell’estasi border-line dell’”ultimo bicchiere”, in questo oblio postsbornia, persino il movimento, minimo, della terra è insopportabile, soffocante, omicida.
Parte nel bridge una presa di consapevolezza che termina con lo special “Questa è l’ultima tempesta prima della fine spaccami la testa, basta”.
Lo special cerca di rendere il concetto di confusione assoluta all’interno del nostro tempo, una tempesta alla quale preferiamo porre fine con una martellata, breve e indolore.

“Meno è sempre di più”. Riflesso di band eternamente insoddisfatte oppure presa di coscienza della fortuna di poter suonare (comunque vada) buona musica in una città viva come Torino. Insomma bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?
Il bicchiere è sempre mezzo pieno, se no l’avremmo chiamato Più è sempre meno 😉
Meno è sempre più nasce da una chiacchierata con un amico, Paul Greenwell dei 2 Fat Men. Una sera a casa dopo cena si parlava di musica, di quanto “togliere” nella musica sia arricchire, una nota data nel punto giusto, un colpo al momento giusto vale più di mille larsen o rullate.. Ad un certo punto Paul disse: “Sai Dani, nella musica meno è sempre più” SBAM.. In quell’istante mille lampadine cominciarono a illuminarsi e dissi a Paul che questo sarebbe stato il titolo dell’EP. Lui mi rispose: “EEh!”

L’EP è prodotto in modo magistrale da Marco Liba (Liba Recordings). Tutti insieme siete riusciti a mantenere il prodotto grezzo e vivo (nel senso che ha il sapore “live”) ma allo stesso tempo dilatato, in certi momenti quasi onirico. Come sono nati i pezzi e come si è svolta la produzione con Liba?
Si Liba è stato un elemento fondante per noi e per il nostro disco.. A tutti gli effetti si può dire che lui sia uno di noi, parte integrante della band, tanto che gli ultimi due live ha pure suonato con noi. Le canzoni sono nate da svariate idee melodiche, riff, qualche brandello di testo e un lungo week end insieme a Sauze D’Oulx. 48 ore di creazione all’Osteria dei Vagabondi e poi qualche giorno in studio con Liba a ragionare sugli arrangiamenti, sulle melodie, sulle ritmiche. Insieme siamo riusciti a trovare la quadra di questo EP che è cambiato in continuazione durante la sua realizzazione e che sarebbe cambiato ancora..
Abbiamo fatto delle ottime prese di rec. Non ci sono replace, non ci sono trigger, né parti elettroniche, tutto ciò che c’è è suonato con batteria, basso e chitarra. Abbiamo poi lavorato sui reverb, delay e reverse per dare spazio. Si, nell’onirico mi riconosco, fa parte di noi. Violenza e alienazione a fasi alterne.

Portate un nome dissacrante, irriverente e per questo di grande impatto, a mio avviso pure originale e divertente. Da dove arriva la “vocazione”?
Ahah bene!!! Pensa che la critica più costruttiva arrivata ad oggi è stata “sembra i ministri”….
Anyway…  Siamo e sono personalmente molto legato a questo nome. Proprio per un dicorso di vocazione e di contraddizione. L’ispirazione nasce da una novella di Verga che si chiama appunto “Il Reverendo” nella quale si delinea questo personaggio spirituale, corrotto e materialista che non ha la minima coerenza con le vesti che porta.
Pensiamo che questa sia la situazione nella quale ci troviamo oggi. Un mondo fatto di santi e di diavoli, in cui i santi e diavoli banchettano insieme e si giocano a poker fino all’ultima indulgenza.
Il nome, quella giacca, l’immaginario è come se le avessimo piratescamente strappati di dosso alla carcassa di qualche blasonato santone.

Stupida osservazione da pignolo: sostenete di suonare “grunge italiano” (e in effetti torna) ma tra le vostre influenze leggo tutti i grandi nomi dell’alternative rock internazionale: Pearl Jam, Rem, Radiohead, Coldplay. Non pensate di dover pregare anche qualche santino italiano, tipo Marlene Kuntz, Afterhours e Verdena o addirittura qualche vecchio oracolo come The Beatles (io dentro i vostri pezzi li sento sempre ondeggiare in sottofondo)?
UUh assolutamente… Noi ci definiamo grunge rock per l’attitudine live e per il mood dei testi e delle atmosfere.. Poi in realtà musicalmente siamo un focolaio di ispirazioni, tutti quelli che hai citato… Beatles tutta la vita.. ma ti dirò.. anche Pink Floyd, Cure, Foo Fighters, Smashing Pumpkins, Blur, Who…
Non si può definire la matrice del nostro stile, Fabio (il batterista) per esempio ascolta tutt’altro.. Rock e crossover americano. La cosa curiosa è che non siamo dei grandi ascoltatori di musica alternative italiana.. Marlene, Afterhours, Verdena, li stimo moltissimo e ci sono delle canzoni che mi piacciono, ma ne conoscerò 6 o 7 tra tutti e tre.. Faccio un mea culpa, ma la verità è che non mi hanno mai attratto magneticamente.

In “Sempre di notte” dite una frase molto realista: “questa pioggia non è l’Inghilterra”. L’unità di misura per fare musica rock rimane sempre la Gran Bretagna, ma credete davvero che stiamo proprio un gradino sotto? A Torino poi mi pare che non ci sia carenza di band che (senza mezzi termini) spaccano il culo. Tu cosa dici?
Assolutamente! L’Italia ha dei grandissimi talenti e Torino è prima fila, anche se i Milanesi a volte sono più furbi.
Sempre di notte è una suggestione, un Flash back di emozioni provate durante le mie esperienze Londinesi, con riferimenti molto concreti a fatti accaduti.
“Questa pioggia non è l’Inghilterra” è un modo per dire l’acqua è sempre acqua ma non puzza di zolfo come a Londra.. Odori, emozioni, sprazzi di colore, nubi fumose, vestiti umidi, contrasti di grigio, l’inghilterra ha delle caratteristiche rispetto all’Italia nelle quali mi riconosco, in ogni caso sono ancora qui.. Nonostante le ultime evoluzioni politiche credo in questa nazione e soprattutto credo nella musica di questa nazione.

Come vi ponete nei confronti dei social network? Oggi pare siano di una importanza fondamentale per emergere, ma non bisogna perdere di vista il vero cuore della musica underground, ovvero il palco. Che obiettivi avete sul fronte live?
Ah beh.. Certo! Con i social networks ci poniamo come qualcuno che cerca di usare gli strumenti che ha per fare quello che può..
Sicuramente il web è una grande risorsa, ma è dispersivo, in continua evoluzione e tutt’altro che immediato nel suo utilizzo corretto.
Cerchiamo di valorizzare i contenuti che proponiamo creandoci una fan base vera e interessata che speriamo cresca in funzione della nostra crescita.. Siamo al primo EP e la nostra musica è proprio neonata, quello che abbiamo fatto in questo EP è stato vomitare argomenti e musica così come ci sono venuti. Ci sono già idee per il primo album che sono curioso di vedere che forma prenderà..
Live siamo in attesa di alcune conferme, soprattutto fuori Torino, nella nostra città invece faremo una piccola cosa a fine marzo e poi un concerto con gli amici del collettivo OPPOSITE il 26 aprile  al Lapsus.
Nel frattempo CONTINUEREMO A SUONARE ANCHE COVER, in giro per l’universo mondo perché ci diverte, ci fa fare palco e vita di gruppo ispirandoci sempre qualcosa di nuovo.

Daniele, un bel saluto ai lettori di Rockambula e dicci un po’ cosa vorresti di “meno” e cosa di “più” nel vostro futuro.
Cari lettori di Rockambula un giorno faremo una rivoluzione insieme, vi saluto e vi stimo perché vi incuriosite di musica e di persone. Vi ricordo di andare ad ascoltare i Waste Pipes, se non l’avete mai fatto perché spaccano e anche i Nadàr Solo.
Per il nostro futuro vorrei “meno” Maria De Filippie “più” Rockambula. La messa è finita, andate in pace.

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Intervista (video e non) ai De Rapage. Delirio Totale!

Written by Interviste

I nostri Silvio Don Pizzica (il cameraman) e Riccardo Merolli (l’intervistatore?!) sono andati a Chieti, nella sala prove dei De Rapage (https://www.rockambula.com/de-rapage-sberle/) per realizzare con loro una video intervista. Avrebbero potuto chiedere della loro musica demenziale, del nuovo disco in preparazione, delle loro influenze, dei loro live spettacolari ma se mettete insieme due pazzi come Riccardo e Don Pizzica con una band fuori di testa come i De Rapage, non poteva che succedere questo:

Qualche giorno dopo, Don Pizzica ha reincontrato i De Rapage e ci ha provato ancora. Secondo voi come è andata? Leggete voi stessi:

INTERVISTA AI DE RAPAGE (Francesco-voce, Pasquale-basso, Marco e Maurizio-chitarra)

Don
Ciao a tutti. Per prima cosa, come state? Vi siete ripresi dall’ultima volta che ci siamo incontrati?
M.Z.: perchè ci siamo incrociati? Oddio la testa….
F.: io ho avuto una leggera diarrea ma in fondo bene.
M.S.: mai più (naso di pinocchio)
F.: naso di Pinocchio?
M.S.: nel senso che mento.
M.Z.: vabbè francè..lassa sta! Mento o naso? deciditi cazzo!

Don
Diarrea anche io e un mal di testa da paura. Non vi chiedo perché il nome De Rapage (la risposta è nel video) ma chi cazzo sono i De Rapage potreste spiegarlo al pubblico.
M.Z.: i De Rapage sono un gruppo fregno!
F.: i De Rapage sono la summa dello scarto e del fai-da-te, che come obiettivo hanno quello di distrarre, offendere ed essere offesi.
M.S.: i De Rapage sono un gruppo musicale che hanno iniziato a suonare proprio per essere un gruppo musicale. all’inizio erano molto, molto diversi.
P.: secondo me è uno stato mentale che noi rappresentiamo in musica, una sgommata al posto del cervello, un modo di rendere un po più marrone il reale

Don
Perché avete scelto di fare musica ironica, a tratti demenziale e non provare a fare qualcosa di veramente nuovo?
F.: perché è uno sfogo, principalmente. Non si tratta di affrontare temi universali, ma di sviscerare tutto quello che hai di malato dentro, senza falsi pudori o inibizioni. E poi ce l’ha suggerito satana.
M.Z.: fare qualcosa di nuovo? tutti ci provano, a noi non interessa (forse non siamo capaci)
M.S.: qualcosa di nuovo? il qualcosa di nuovo che ho in mente io non si può suonare con strumenti musicali tradizionali. Si divertono tutti, ma il disco non è il medium primario per noi, noi siamo da concerto.

Don
Ho letto da qualche parte (inutile dirvi dove) che vi divertite più voi che non chi vi ascolta. Pensate sia vero? E pensate che manchi qualcosa alla vostra musica per colmare il divario?
F.: è vero. Noi siamo divertiti da noi stessi ma anche dalle reazioni degli altri: c’è chi si indigna ma anche chi ride a crepapelle. Nello scambio siamo noi i maggiori beneficiari e vogliamo resti così.
M.Z.: l’importante è che ci divertiamo noi, del pubblico non ce ne frega un cazzo! Alla nostra musica potrebbe mancare tutto o niente, ma ce l’ha detto satana di fare così!
P.: be i De Rapage che suonano tristi è cacofonico
M.S.: io mi divertivo da spettatore ai loro concerti, e dopo anni di corte mi hanno chiamato a suonare. dobbiamo essere spettatori di noi stessi sennò diventiamo autoreferenziali senza avere le capacità tecniche e l’ideologia per farlo.

Don
Schillaci, sempre ultimo.
M.S.: perché ci penso.

Don
In pratica non vi frega se chi vi ascolta dà poco peso alla musica pensando piuttosto a divertirsi sulla base dei vostri testi. Non avete paura di essere presi poco sul serio come musicisti?
M.Z.: bhe..come musicisti siamo i primi che ci pigliamo poco sul serio! (a parte Schillaci)
P.: pure io mi divertivo ai concerti dei De Rapage; Jo di Tonno è musica seria?
F.: infatti io urlo, non canto. È questo forse il segreto del nostro divertimento e della nostra visione poco competitiva della musica in genere.
M.S.: il problema di essere preso poco sul serio come musicista non mi affligge nel momento in cui cerco di fare risaltare ciò che suono, su disco e live. abbiamo dato spazio a parti musicali molto più che in passato, se senti gli ultimi due dischi. Infatti l’idea di suonare in situazioni di volumi e sonorità differenti mi attira. il 23 febbraio suoneremo diversamente dall’ultima volta per volumi dinamiche e cazzi vari.
P.: essere preso sul serio facendo rock scostumato è sintomatico di una società alla frutta
M.Z.: poi ai concerti più che suonare mi diverte insultare Schillaci!!! Ahaah.

Don
Ottime esecuzioni e buona musica. Eppure i dischi vi tocca regalarli ai concerti. Chi ve lo fa fare?
M.Z.: credi che qualcuno veramente comprerebbe i nostri cd? Allora noi li freghiamo e glieli regaliamo!
M.S.: li comprerebbero pure, ma poi saremmo alla stregua di altri gruppi tipo i pr°°lax.
P.: bella marco! la musica non ha prezzo stavamo pensando di vendere i dischi a 2500€ a copia o gratis..abbiamo scelto la seconda non siamo attaccati al denaro
F.: Perché la musica è condivisione. Non me ne frega un cazzo di prendere la 5 euro dallo spettatore del concerto. Quello che facciamo è per la gente e non per noi stessi. Ci stiamo promuovendo ed il modo migliore di farlo è spargere più seme possibile. Il giorno in cui pagheranno per un nostro disco diverrà un lavoro. E satana si incazzerebbe.

Don
Perchè ce l’hai coi Prophilax?
M.Z.: perchè lui non può usarli!
M.S.: non ce l’ho con loro. non siamo così, punto.
P.: conosco gente che si fa le seghe con i profilattici
M.Z.: non fate incazzare satana
M.S.: dopo veramente la valigetta con le parolacce.

Don
Dunque l’unica via d’uscita per le band emergenti sembra essere l’esibizione live. Ma anche in questo, avete scelto la strada più difficile. Non solo vivete in una regione (Abruzzo) che sembra aver dimenticato l’esistenza della musica (salvo rare eccezioni) ma, visto che nei vostri testi siete spesso diretti, volutamente volgari, vi tocca pure prendervi le porte in faccia dai centri sociali che vi accusano di maschilismo o dai locali che non vi ritengono adatti ad un certo tipo di pubblico. Non vi va proprio di scendere a compromessi?
M.Z.: ricordati di Satana! A noi piace fare questo e questo facciamo!
M.S.: dei centri sociali ho altri ricordi di altre epoche. questi sono cresciuti con internet, mi sucano il cazzo loro e le loro teorie di complotto.
F.: mai. Che gusto ci sarebbe altrimenti? A quel punto meglio fare la tribute Band!
P.: sono i radical chic che non volano più in alto del loro nanismo
M.Z.: per quanto riguarda i centri sociali, sono fascisti! Come possono accusarci di maschilismo se io e Ficurilli un concerto si e uno no ci baciamo in bocca?
F.: Io bacio chi mi pare, ma tu…
M.S.: per quanto riguarda i locali, noi il pubblico ce lo sappiamo gestire abbastanza. il problema sono i gestori, finchè non contano i soldi in cassa sono (giustamente) diffidenti. ma non infanghiamoci con il discorso delle merdose coverband e di come abbiano rovinato il suonare live.
P.: sto fatto che vi baciate mi fa ribrezzo

Don
Meglio non esprimermi. Abbassiamo un po’ i toni. Che cosa ascoltavate dieci anni fa e cosa ascoltate oggi? Quali artisti vi hanno maggiormente influenzato? Nella mia recensione ho accostato la vostra musica a Oneida, Rage Against The Machine e Beastie Boys, Nirvana, Litfiba, Radiohead, Exploited, Skiantos e addirittura Benigni. Ditemi pure che cazzata ho detto?
M.Z.: aggiungi pure i SexPistols e stiamo a posto!
F. : nessuna. Personalmente aggiungo Sex Pistols e Massive Attack
M.S.: io sono cresciuto con il rock classico, tipo quello inglese. nel disco ci sono un sacco di citazioni al limite della caricatura: tutto voluto, eh…

Don
Massive Attack? Non l’avrei detto.
M.Z.: bhe… ascolta SEGEDOUT del primo album!
F.: e certo. Se ascolti bene al contrario il nostro primo disco scoprirai che suona esattamente come Mezzanine
P.: penso che per fare musica così bisogna aver ascoltato molto, sinceramente alcune volte sembra che si sia veramente un po di tutto, a parte Nilla Pizzi e Tiziano Ferro
F.: che comunque ascoltiamo da soli in macchina.

Don
Vediamo se vi faccio incazzare. Questi continui passaggi da un genere all’altro non vi sembra possano impedirvi di dare un’impronta personale alla vostra musica? Forse c’è qualche citazione (voluta come dice Maurizio) di troppo? (parlo soprattutto a lui).
F.: è colpa di Maurizio
P.: si ostina a sentire i Litfiba, scusa Maurì ma Ghigo Renzulli fa cagare

Don:
Concordo. Su Renzulli.
M.Z.: infatti….è un casso con la chitarra!
F.: il peggiore
M.S.: le citazioni possono scomparire, non è un fatto involontario. ci penso spesso quando un brano sa già di già sentito.
F.: Maurizio è comunque meglio di Renzulli. Fisicamente

Don
Prendiamo Nkul Frekt Aua (l’ho scritto bene?). C’è tanto Creep dentro. Forse troppo?
F.: è veramente colpa di Maurizio e dei suoi arpeggi gay, ma ci piaceva così e chi se ne frega.
M.Z.: bhe, su Creep non sono d’accordo, ma l’idea era di fare qualcosa alla Radiohead
M.S.: non è che ci pensavamo più di tanto. gli accordi erano diversi all’inizio, ho modificato il sol e il la mettendoli in minore. c’è anche l’accordo indie per eccellenza, il do 7+!
P.: a parte gli scherzi nell’ultimo live, con il nuovo set, abbiamo migliorato di molto questo aspetto l’approccio ora è più denso e uniforme
F.: Pasqua ma a che domanda hai risposto?
M.Z.: Pasquale sta a fumà robba pesante!!
P.: ahh me che ci stanno le domande!?
M.S.: ngulo freket è stato scritto dal pubblico della lampara che assisteva ad un concerto indie di un gruppo indie. Erano tutti come nella canzone.
P.: sgamato

Don
Andiamo avanti e parliamo della situazione Live della penisola. Parlando con un ex musicista ora membro di una cover band (non tribute ma pur sempre parte del Male) mi ha detto che le difficoltà ad emergere delle nuove realtà è soprattutto conseguenza dei gestori dei locali e del pubblico, poco avvezzo alle cose nuove. Chi ama suonare, vuole suonare e per farlo, in alcune piccole cittadine, può solo fare cover. Peggio i gestori che della musica non gli frega un cazzo ma le tasse le pagano, peggio il pubblico, che della musica non gli frega un cazzo ma ha sgobbato una settimana e un rum lo paga 5 euro o peggio i musicisti che si riducono a fare cover ma della musica gli frega eccome ma non vogliono continuare a suonare in uno scantinato?
M.Z.: per me il problema è sopratutto dei gestori. Io credo che si può creare un bel giro di gruppi originali e comunque riuscire a lavorare. E’ una questione culturale. Se crei un bel giro la gente ti ci viene al locale. d’altronde negli ani novanta c’erano molte band originali e non mi pare che i localli chiudessero tutti. Naturalmente ci vuole anche un minimo di selezione! Anche perchè scusate, noi alla fine siamo anche un piccolo esempio, i locali li riempiamo più delle cover band!
P.: questa si che è una domanda…la risposta è difficile, è tutta una questione di background culturale…siamo in italia e qui il pdl ha governato per 20 anni e rischiamo che piglia più del 16% a febbraio. Vabbè l’ho buttata sul pesante però c’è gente li fuori con le hogan
F.: se al musicista gliene frega di suonare le situazioni le può anche creare, è inutile mordersi la coda, i problemi sono quelli che hai appena citato ed è innegabile che le cose, per ora, non cambino. Ma se non le cambia chi la musica la fa allora cosa dovremmo fare? Aspettare in silenzio l’apocalisse? Se ci fosse una rete di musicisti vera o una struttura che li collegasse si potrebbero scambiare, oltre alle idee ed si musicisti anche locali e pubblico, ad esempio, i cercare spazi adatti al live che non siano locali. O crearli. All’inizio, inoltre, noi non chiedevamo una lira per suonare: la voglia è quella che conta! Così ci di diverte.
M.S.: hai presente la depressione quando da una persona passa ad un’altra, poi un’altra, poi un’altra come una pianta infestante e rovina una famiglia intera? è così, non è peggio nessuno, siamo tutti peggio. così la penso io. dove c’è gente sana, anche in piccolo circuito di una piccola comunità, trovi ancora creatività, fantasia e senso degli… affari (brutta parola!)

Don
Non deprimiamoci pensando troppo a questo paese del cazzo e alla sua gente del cazzo. Parliamo del vostro ultimo disco. Sberle. Che roba è? Fatelo capire a chi non ha idea di che musica facciate.
F.: io neppure l’ho capito, non ancora.
P.: è un disco tipo calendario francescano
M.Z.: Sberle è un capolavoro!
P.: aiuta il raccolto, è un rito propiziatorio alla inseminazione naturale
F.: ma nessuno risponde seriamente? Dai Mauri!
M.S.: “quello che cazzo ci pare”, perchè andava detto. non lo dice nessuno, sono tutti a spompinare il pubblico. siamo partiti dai titoli e poi abbiamo costruito i pezzi sopra, abbiamo applicato in musica la cementificazione selvaggia. ad esempio “sberle” è uscito fuori perchè da una ripresa audio delle prove fatta con uno smartphone il suono del ride della batteria sembravano schiaffi dati belli forte.
M.S.: ecco, ho scritto una risposta mega sgrammaticata…
F.: bravo cazzo

Don
Mi rivolgo a chi legge. Difficile parlare serio con i De Rapage. Forse solo con Schillaci. Ascoltatevi il loro pezzo sotto se volete capire di che parliamo. A proposito,ora mi rivolgo a voi quattro. Come è nato quel pezzo, Inquilino Sexy?

https://soundcloud.com/derapageband/10-inquilino-sexy
F.: da un volantino!
 Don
Cioè?
P.: la storia del pelo di cazzo io la so

Don
Spara.
M.S.: c’era un flyer nella pizzeria vicino alla sala prove in cui si pubblicizzava un tipo del grande fratello che faceva una ospitata in una discoteca:”L’inquilino sexy della casa del grande fratello”. La storia del pelo di cazzo è mia. ho immaginato di trovare un pelo di cazzo altrui nel letto della mia ex, magri c’era davvero. “Magari”
P.: la prima strofa parla di un tipo che mendicando un letto si è fatto ospitare dalla ex, durante la notte ha trovato un pelo di cazzo sul cuscino.

Don
In pratica è “tratto da una storia vera”. Immagino la scena.
P.: aaa eri tu? Scusa Mauri
F.: Ahahahah
P.: tutti i pezzi sono storie vere
F.: tranne tarzanello
M.S.: cioè, dopo mesi che non ci dormivo in quel letto poteva essere accaduto qualcosa che non mi coinvolgesse. in realtà la storia diventa gay, oppure l’io narrante è femminile, ma questo la sa francesco.
P.:  faccio una domanda io: Francesco parlaci di Megawatt
F.: è femminile, certo. Perché?

Don
Oh mio Dio. Lasciamo perdere. Abbiamo capito che la dimensione live è quella nella quale vi sentite più a vostro agio. Grazie ad un pubblico di fedelissimi che vi segue ovunque, intavolate uno spettacolo fantastico. Il vostro live non è solo esecuzione ma puro teatro partecipato col pubblico. “Fikurilli sei una merda”, “tua sorella è una troia”, una sfida all’offesa più originale con chi vi ascolta. Ma se doveste suonare dove nessuno vi conosce? Nessuno!
M.Z.: sarebbe bello! Il pubblico capirebbe subito!
P.: pagheremmo qualcuno per la clack, sicuramente, 200 € di buono e sano investimento
M.S.: avremmo bisogno di più tempo per entrare in confidenza col pubblico. siamo capaci di fare più di due ore di concerto filate, mica come quei poveri scheletri chitarra e barba tipo Dente.
F.: Stai sicuro che sapremmo comunque come farci offendere di brutto. Inoltre il nostro pubblico cresce ad ogni concerto e gli sconosciuti che ci offendono si moltiplicano di volta in volta. Alcuni sono degli acrobati della parolaccia, insospettabili per giunta! Maurizio stai infangando questo mondo e quel l’altro, sei un hooligan!
M.Z.: maurì pure tu sei uno scheletro chiatarra e barba
P.: montgomery
M.S.: ma siamo anche musicisti, non mortifichiamoci da soli con la storia dei testi. Se suoniamo bene attiriamo l’attenzione a prescindere dai cazzi e dai culi.
F.: che c’entra? Tu sei davvero il cognato del diavolo

Don
Appunto…vedi domanda numero tre.
Un giorno si potrà tornare a vivere della propria arte? Oggi il conto in banca sembra inversamente proporzionale alla qualità proposta.
M.Z.: solo se usciamo dall’euro! ahahahahhaha
M.S.: ottima domanda, io la girerei ad Umberto Palazzo. mi scriveva che quasi tutti i musicisti in italia sono poveri. effettivamente fai, mettiamo, 100 serate all’anno, ma se non arrivi a fare tipo 1500 euro al mese ddò cazzo vai? la gente lascia, smette… orrore.
F.: altrove è possibile, anche per quelli che non propriamente c’è la fanno, ma la deriva culturale, perché di questo si tratta fondamentalmente, coinvolgerà tutti. E noi potremo dire “te l’avevo detto”. Speriamo che aprano una banca gestita da solo artisti. Forse allora…
M.S.: ma TUTTI i musicisti,anche gli orchestrali!

Don
Tutti gli artisti, non tutti i musicisti.
F.: mauri concentrati

Don
Siamo in dirittura d’arrivo. Quale è il vostro sogno di musicisti e la vostra paura più grande?
P.: secondo me si e pure molto presto, è rimasto troppo poco in giro e tutto stramaledettamente appiattito e simile per il semplice fatto che non può tornare un neomedioevo
M.Z.: il mio sogno e poter continuare a suonare il più allungo possibile.
F.:  da musicista vorrei fare l’astronauta. La paura più grande è quella di dover rinunciare per andare altrove. Ma anche un po’ quella di rimanere incinta.
M.S.: vorrei definirmi artista senza paura di usare questo termine per non usare “disoccupato”. ci sono tre categorie di artisti.
P.: il mio sogno è diventare ambidestro e l’incubo è perdere la mano destra
M.Z.: la mia più grande paura è suonare per sempre con schillaci
M.S.: quelli veri veri veri, quelli definiti tali solo perchè hanno l’enpals e i nullafacenti che non sanno come altro definirsi.
F.: Mauri stai due domande indietro
M.S.: la mia più grande paura siete voi

Don
Ahahahahhaha. Una brutta domanda, alla quale praticamente non mi ha mai risposto nessuno. Chi è la grande truffa dell’Indie italiano? E perché?
F.: l’indie è una truffa, perché non esiste. Cosa significa ancora nel 2013 indie?
M.S.: guarda, Rockit promuove certi campioni da sette spettatori a concerto… “il rock è cazzo, e il tuo è morto” (The Doors, il film)
M.Z.: continua la crociata di Schillaci contro Rockit
F.: Maurizio sei il peggio
M.S.: la truffa è il pubblico. non ne capiscono un cazzo di musica.
M.Z.: quindi quando sei tu pubblico, sei tu a non capire un cazzo! Maurì, smittil a di cazzate!

Don
Giusto. Comunque, niente nomi. Come preferite.
P.: per me indie è una modalità alla musica, la truffa è attribuirgli un genere musicale specifico

Don
Invece c’è qualcuno che vi assomiglia? E qualche nome nuovo che pensate abbia tanto da dire? Sia italiano che straniero, ovviamente.
P.: i Bachi da Pietra
M.Z.: I Managment del Dolore Post Operatorio (solo perchè so abbruzzesi!!!)
M.S.: Pilar, MA.DE DO.P.O., Maria Antonietta, Paolo Benvegnù, e altri…

Don
Nessuno che vi somiglia però…
M.Z.: siamo unici!
P.: pensando a qualcuno che ci somiglia mi sta a venire l’emicrania, comunque inglesi gli Holyfuck ce garbano..ma io aspetto la risposta di Francesco
M.S.: ce ne sarebbe qualcuno ma è davvero borderline e il nome non ti direbbe nulla. il vincitore della coppa Rimetti del 2012, ad esempio, Francesco Niente.
F.: gli squallor. Escludendo che sono quasi tutti morti rappresentano indubbiamente il futuro. In questo momento sto seguendo molto anche gli Indian Jewelry, ma io non capisco un cazzo.
P.: Holyfuck so canadesi cafò…
F.: ah e aggiungo pure, dall’Italia, Gianfranco Marziano, nostro precursore sconosciuto a noi fino a qualche anno fa.
P.: lo sapevo che sbancavi bella Frangè
M.S.: ah, i Progetto Panico, grandissimi!

Don
Nomi non molto noti. Difficile diventarlo quando si fa musica come la vostra. Siamo in chiusura. Dove potremo ascoltarvi nei prossimi mesi, dal vivo?
F.: meno male. Avremo meno concorrenza.
M.S.: il 23 febbraio al Fictio di Chieti
P.: il 6 marzo a Berlino, in piazza vicino al bar che vende le birre alla spina
F.: il 23 febbraio al Fictio, a Chieti, dove giochiamo in casa e il 30 febbraio al macellaio di via cazzimma, a Caserta.

Don
E il prossimo album. Quando dovrebbe uscire? Che differenza ci sarà con “Sberle” ?
M.Z.: top secret
F.: il prossimo album sarà un ep in cui raccoglieremo delle cose che suoniamo in questo periodo è che ci piacciono in modo particolare. Ma prima ci sarà un DVD con il documentario sulle nostre origini e sulla nostra fine.
P.: forse qualche anticipazione potremmo farla..dai parlate. Ieri abbiamo finito le riprese..hehehe, manca il montaggio robba grossa.
F.: firmato dal nostro videomaker preferito Startakko.

Don
Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto? Poi, se volete, rispondetemi.
F.: oggi hai fatto la cacca? – si, ma sono stato così tanto a leggere sulla tazza che mi si sono paralizzate le gambe e, quando mi sono alzato per aprire la porta di casa da dove qualcuno suonava insistentemente, sono caduto. Ho strisciato fino alla porta, erano dei testimoni di Geova, vi lascio immaginare il seguito.
M.S.: ci sto pensando ma mi vengono in mente domande assurde del tipo “perchè dovreste essere dei ventenni e invece ne avete più di 35?”
M.Z.: Maurì tu ne hai più di 40

Don
Ahahahah
P.: tipo jimmy dovè?
M.S.: più di 35, infatti. vado per i 43 e sto in giro con una fender a fare casino anziché stare in pantofole a subirmi le scoregge dei bambini e le ascelle di mia moglie.
P.: jimmy scopa … noi stiamo qui a sparare le cazzate
M.S.: onesto
P.: hahhahaha un frame del DVD!

Don
Non vi chiedo chi è Jimmy. Ciao a tutti, allora. A presto.
F.: a presto, cazzo!
M.Z.: buonanotte
M.S.: a presto , e grazie

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Intervista Mombu

Written by Interviste

I Mombu tornano a farsi sentire, ormai sono una realtà concreta e vogliono dimostrare quanto fanno sul serio, tanto da rivedere il loro debut album e riproporlo con dei miglioramenti. I segreti e l’ andazzo della band sono svelati in questa ghiotta e gustosissima intervista. Ai microfoni abbiamo Luca T. Mai  che tra una chiacchiera e l’ altra ci toglie diversi dubbi.

Ciao ragazzi e bentornati su Rockambula. Direi di cominciar subito a parlare di “Zombi”, il vostro nuovo disco, che effettivamente è un miglioramento, una modifica del vostro debut album. Perché non ci illustrate le differenze tra i due lavori?
LUCA: Ciao e grazie per ospitarci di nuovo . Mombu , il disco omonimo, è nato in corsa, parlo delle registrazioni e quindi non siamo riusciti a ricreare il suono che volevamo e poi mettici pure che lo abbiamo prima pubblicato e poi suonato live, di solito, con i rispettivi gruppi ( Zu e Neo ) abbiamo sempre fatto il contrario. ‘Zombi’ è nato dopo praticamente quasi un anno di continui live dove il suono generale della band si è rafforzato e di conseguenza abbiamo capito come doveva suonare il disco. Solo che un remix non bastava secondo noi, e cosi abbiamo chiesto ad alcuni amici di partecipare sui brani e con questa occasione di una nuova uscita, abbiamo deciso di mettere una bonus track, nello specifico ‘Zombie’ di FelaKuti, che è diventata ‘Zombi’ dei Mombu con ospiti Giulio The Bastard dei CrippleBastards, Marco “Cinghio “ Mastrobuono, chitarra dei Buffalo Grillz, basso dei Hour of Penance e dei The Orange Man Theory, MbarNdiayeGriot senegalese alle percussioni . Il disco suona decisamente più duro ed è quello che volevamo .

Invece delle registrazioni e del mixaggio cosa ci dite ?
LUCA: Come ti dicevo la fretta ha un po inficiato il risultato generale del primo disco, diciamo che ‘Zombi’ è anche il risultato di un anno e mezzo di lavoro in cui ci si sono chiarite un sacco di idee a livello sonoro cosi che le abbiamo integrate .

Nella prima intervista mi accennaste di una vostra ammirazione per FelaKuti, finalmente in questo disco siete riusciti a rendergli omaggio. Cosa vi trasmette questo personaggio, come mai FelaKuti?
LUCA: FelaKuti non è stato solo un musicista , è stato anche un attivista per i diritti di tutti gli africani sotto il giogo del colonialismo , sia quando era esercitato in maniera diretta sia in maniera  indiretta , cioè sotto quella forma più subdola che è la forma mentis , ragionare , vivere e credere come vuole il colonialismo . Ha riscoperto le sue radici religiose , ritualizzandole nella musica che componeva . Ammiro profondamente quest’uomo , che ha unito nella musica tutto ciò in cui credeva e ne ha pagato le conseguenze a tutti i livelli . Viveva tra i poveri a Lagos , ha rifiutato contratti milionari perché seguiva una sua coerenza , picchiato selvaggiamente ha passato svariati anni in prigione per le sue idee. Credo che ‘Zombi’ non sarà l’unico pezzo che faremo di FelaKuti.

A questo punto, dato che siete impegnati anche con altre band, vi chiedo: i Mombu sono un progetto momentaneo o hanno un seguito saldo e programmato? Insomma continueranno ad esserci i Mombu?
LUCA: Attualmente come Zu siamo fermi. Antonio continua con i Neo, ma diciamo che Mombu è la priorità del momento. A febbraio 2013 uscirà il nostro nuovo disco, sempre su ‘Subsound’ che si chiama ‘Niger’, questo a dimostrazione che siamo una realtà stabile del panorama musicale italiano e che sta sondando il terreno europeo. Il nostro discorso musicale è appena agli inizi e necessita di un bel po’ di tempo per dispiegarsi completamente.

In “Zombi” troviamo anche ospiti di un certo rilievo: in primis Mike Watt degli storici Stooges, poi Giulio “The Bastard” ed infine Marco Mastrobuono. Come sono nate queste collaborazioni e soprattutto come avete pescato Mike Watt?
LUCA: Le collaborazioni nascono principalmente dal rispetto come musicisti che abbiamo ognuno nei confronti dell’altro. C’è anche l’amicizia che non fa altro che consolidare la prima cosa . Con Mike ci conosciamo perché  nell’occasione di un tour Zu e un tour Neo negli Stati Uniti ci ha dato una mano e supportato. Mike è un’altra persona di cui proviamo rispetto per la sua storia musicale e la coerenza dimostrata negli anni.

Con tutti i vostri progetti ed i vostri impegni artistici riuscite a campare di sola musica o anche voi avete lavoro?
LUCA: Si, hai detto bene, campare, campiamo con la musica, dignitosamente. Se si annullasse la forbice che vede da una parte un ruba canzoni come Zucchero (e come lui tanti altri) che prende uno sproposito immorale di soldi per quelle farse dei suoi concerti e dall’altra gruppi che si fanno 500 km per una pizza fredda e rimborso spese, allora ci sarebbe posto per tutti e vivremmo meglio, ma purtroppo non stando così le cose, a qualcuno tocca fare il lavoro sporco …

Dove potremmo venire a sentirvi nei prossimi giorni, dove suonerete? E’ prevista una data a Napoli?
LUCA: Suoneremo in Campania alla fine di aprile tra Caserta e Salerno, ma Napoli ancora niente. Vedremo per l’estate se ci saranno delle buone proposte.

Della scena Underground della vostra zona cosa ci dite? C’è affluenza oppure anche li si sopravvive?
LUCA: È difficile da un po tutte le parti , ma credo che andrebbero ricercate le cause di questo momento di “stanca” dei live. Sono vari i fattori, dal proliferare di tanti gruppi senza qualità, l’essere omologati alle mode che vengono da oltre oceano e non cercare una via propria . questo riguarda sia i gruppi che i magazine e le agenzie di booking. Poi mettici pure che un certo tipo di musica campa sulle proprie spalle senza che si sia mai pensato di farci se non cultura almeno un business da parte di chi può investire. E questo alla fine incide sulle varie scene musicali, specie in questo periodo storico dove tutti sono costretti a risparmiare su tutto. Molti posti fanno i live programmando sia subito dopo il concerto, sia nella settimana successiva la discoteca sapendo che con i live non ci rientreranno delle spese, e questo va a minare i cachet, già risicati di piccole band.

Bene ragazzi, l’ intervista si chiude qui, concludete come vi pare…
LUCA: Mombu si rinnoverà nel 2013 con l’uscita di ‘Niger’, il nuovo devastante disco edito da SubsoundRecords. Se pensate che la musica non siano solo i Pooh, Amici, X Factor, se credete che la musica non sia fatta solo da posers come i Modà, Marrakesh e i Negroamaro, questo disco fa per le vostre orecchie, per il vostro corpo e il vostro spirito. Consigliato da ascoltare prima di andare a messa. Grazie Rockambula.

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