Maria Petracca Author

Ricercatrice di parole appropriate per la descrizione di esplosioni emotive. Ha una grande passione per il rumore.

Gelfish – Hungry

Written by Recensioni

Sarà che sono le tre di notte. Sarà che non sto per andare a dormire. Sarà che mi sono appena svegliata dopo tre ore di sonno. Sarà che sono le tre di notte, sono affamata (hungry) e sono anche folle, ma non quella sana follia che tanto acclamava il buon vecchio Steve Jobs. Sono follemente incazzata. Ed è per questo motivo che sono attratta da questo titolo: Hungry, e decido di scegliere i Gelfish come colonna sonora di quest’alba anticipata, di questo risveglio forzato. Hungry (letteralmente affamato  e Angry, la sua pronuncia, letteralmente arrabbiato, per l’appunto) – Ep d’esordio della band di Pescara – arriva infatti a stuzzicare, amplificare ed infine esorcizzare le sensazioni di incazzatura cosmica del momento. Sulla copertina del disco, disegni essenziali su uno sfondo total black, un bambino riccioluto rimane a guardare la rabbia che viene fuori da un televisore vecchio stile. Ci rimane davvero allora così poco? Ci resta solo restare a guardare questa rabbia uscire dagli schermi delle nostre esistenze ed invadere le nostre case, le nostre vite, i nostri pensieri?

Premo play ed il suono rauco di un basso, subito raggiunto dalla batteria, introduce  “Inside the Everything”, pezzo potente che fa tanto affidamento su voce ed effetti vocali nel tentativo di far valere il concetto di rabbia che è filo conduttore dell’intero disco. Ed proprio l’utilizzo che si fa della voce uno degli aspetti più ricorrenti in tutto l’Ep. Infatti “No Power No Resposability” segue la stessa scia della precedente “Inside the Everything”, anche se chitarre e distorsioni hanno un ruolo maggiore.  “Night of the Living Dead” alterna parti più cariche di ritmo a parti più lente, un’antitesi che rievoca il concetto di vita e morte del titolo. “Arkham Asylum” chiude il disco, e lo fa in una maniera perfettamente in linea con i pezzi precedenti, senza apportare particolari variazioni o colpi di scena.

Hungry è il disco d’esordio dei Gelfish, un esordio che a mio parere non stupisce particolarmente, ma che ha comunque i presupposti per diventare qualcosa di più accattivante, basta forse solo arrabbiarsi per il motivo giusto e nel modo giusto.

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Kaleidoscopic

Written by Interviste

Ciao ragazzi, cominciamo dall’inizio. Chi sono i Kaleidoscopic, e cosa hanno a che vedere con quell’apparecchio ottico capace di generare svariate forme geometriche grazie ad un sapiente gioco di riflessioni?
Kaleidoscopic sono un gruppo rock di Arezzo composto da Fabio Meucci, Marco Ciardo, Francesco Magrini e Francesco Mazzi. Il nostro nome, che ha poco a che fare con il concetto di psichedelia tanto di moda in questo momento, è nato dal nostro bisogno di poter suonare musica senza dover necessariamente rispettare alcun “genere” o “filone”. Di fatto Onironauta, il nostro disco, è il prodotto delle molteplici influenze e sfaccettature che ci caratterizzano. Crediamo che sia vario e non facilmente etichettabile, vogliamo pensare che nel far musica ognuno debba essere libero come lo siamo stati noi nel creare Onironauta. Kaleidoscopic, in questo senso, era il nome più adatto perché crediamo i nostri pezzi abbiano forme, colori e sfaccettature diverse uno dall’altro.


Il vostro album d’esordio ha il suggestivo titolo Onironauta, traducibile con “sognatore consapevole”. C’è anche un significato nascosto dietro al titolo che avete scelto? Quale?

Per dare un indizio direi che c’è un percorso d’ascolto che tocca temi di vita comune, che vengono raccontati dall’aspetto superficiale fino ad uno stato di introspezione più profondo. L’Onironauta è il protagonista che compie un viaggio per ogni singolo aspetto, riuscendo a coglierne il vero significato e a vivere l’insieme delle sfaccettature della vita come esperienza anche interiore. Il percorso lo si può intuire facilmente ma è un segreto (ride ndr)


Il vostro album è un cocktail di sonorità oscure e rumorose, a tratti epiche, senza dimenticare ritmo e melodia. Quanto è stato influenzato il sound da Nicola Manzan (Bologna Violenta), che ha lavorato al disco come produttore artistico e arrangiatore? Come sarebbe stato Onironauta senza Bologna Violenta?

Nicola Manzan è un musicista professionista che abbiamo conosciuto suonandoci insieme. Da lì è nato un profondo sentimento di rispetto, ammirazione ed amicizia che ci ha condotto ad incrociare le nostre strade lavorando insieme. Nicola ha notevoli capacità in fase di arrangiamento e un gusto musicale che ci ha entusiasmato: insieme a lui siamo riusciti a mantenere un “tiro” costante in tutti i pezzi e a lavorare in funzione del risultato finale. Di fatto abbiamo imparato a guardare una canzone nella sua omogeneità, musica e testo, che devono uscire come una cosa sola. Abbiamo messo da parte virtuosismi lavorando esclusivamente sull’atmosfera e il messaggio che ogni singolo brano avrebbe dovuto trasmettere e il risultato ci ha entusiasmato: crediamo che Onironauta sia un buon disco e quantomeno era quello che volevamo, come lo volevamo. Nicola non ha stravolto nulla ma ci ha aiutato a indirizzare il disco nella giusta direzione. Del resto abbiamo imparato più in un mese di lavoro con lui che in molti anni a suonare in un garage. Un esperienza che ci ha lasciato tantissimo, dal punto di vista artistico e soprattutto umano. Onironauta senza Nicola? Sarebbe uscito ugualmente, molto simile ma sicuramente.


Per l’esordio avete scelto (su indicazione di Manzan) di passare alla lingua italiana. Qual è stato il vero motivo di questa scelta? Quanto questa è da ritenersi una necessità per essere apprezzati dal pubblico della penisola visto che in pochi sono riusciti a crearsi un buon seguito puntando su altri idiomi o sullo strumentale?

La scelta di cantare in italiano è stata una nostra esigenza appoggiata, in primis, dallo stesso Nicola. Arrivati al punto dove eravamo sarebbe stato impossibile trasmettere certi concetti, messaggi senza l’utilizzo della nostra lingua. Vogliamo che la gente possa ascoltare e magari riflettere anche solo un secondo su quello che vogliamo dire, cosa che sarebbe stata impossibile cantando in inglese. Siamo un gruppo che fa rock ma che vuol suonare per trasmettere un qualcosa, non cerchiamo e non abbiamo mai cercato di far canzoni con l’intento di mettere allegria attraverso versi senza contenuto, canticchiabili e magari rendendoli “danzerecci” con una buona base musicale. Quello lo lasciamo ad altri. L’ intento dei Kaleidoscopic è tutt’altro e pensiamo che ascoltando Onironauta, il nostro impegno in questa direzione, sia chiaro.


Quanto è importante il testo e la sua comprensione all’interno dei vostri brani e quanto è rilevante nella musica contemporanea?

Il testo ha un’importanza fondamentale perché è tramite questo che possiamo comunicare chiari concetti ma è solo grazie agli altri strumenti che queste parole possono impattare sul lato più profondo dell’animo umano creando la musica appunto. Si può comunicare anche solo con le note ma le parole durante un concerto possono essere un grande aiuto per entrare in contatto con il pubblico. Oggi come sempre nella musica le parole sono usate con una importanza molto variabile. Più che altro c’è da dispiacersi di come proprio nei generi più ascoltati e con audience colossali non si usino le parole per parlare di cose più profonde ribelli o nuove. Solite situazioni, falsi problemi e ultimamente sempre più spesso false soluzioni. E pensare che con la musica si potrebbe cambiare il mondo…


C’è qualche aneddoto o curiosità riguardante Onironauta che vi va di raccontare?
Durante la composizione di Onironauta ne sono successe tante di cose. Le migliori la sera: finite le sessioni di registrazione Nicola Manzan ci allietava, fino a notte fonda, con canzoni di cantanti neomelodici (di cui è un grande fan). A forza di ascoltare ci siamo appassionati anche noi e, tutt’ora, ci informiamo e ci scambiamo  brani, cercando di rimanere sempre aggiornati sui nuovi tormentoni. Vi diciamo solo che Fabrizio Ferri è davvero il nostro nuovo idolo.


Racchiudere le note dentro generi e definizioni è feticismo da giornalisti più che strumento utile alla comprensione dei brani. Come descrivereste la vostra musica senza usare paletti come Noise, Alt Rock, Stoner o simili?
Come già dicevamo la nostra musica è essenzialmente rock, un rock caratterizzato da suoni duri e distorti. Ci piace aver sempre ben presente una certa energia, soprattutto live, da poter convogliare verso il pubblico. Gli alti volumi e dosi massicce di sudore sono due cose che ci caratterizzano. La nostra musica non fa parte di niente e non è di nessuno, è libera come lo siamo noi, ognuno può ascoltarla e trovarci dentro quello che più gli piace o non piace.


Il Tour promozionale di Onironauta ha ormai toccato diverse tappe. C’è un’esibizione live che ricordate particolarmente? C’è un elemento al quale date maggiore importanza nelle vostre esibizioni live?
Sicuramente per essere una band emergente con poco seguito, al momento, come è logico che sia abbiamo fatto diverse date che, ognuna per motivi diversi, ci ha davvero caricato. Quindi una data che ricordiamo in particolare non c’è, ci teniamo solo a ringraziare tutte le persone che ci hanno permesso di poterci esprimere e tutte quelle che lo faranno in futuro, perché i Kaleidoscopic come mille altri gruppi validissimi hanno bisogno di poter suonare live davanti a delle persone. Fare dischi è stupendo ma la band vera e propria si riesce ad apprezzare solo quando è sopra al palco, secondo noi. Per quanto riguarda le performance cerchiamo sempre di dare il 150%, cercando di far arrivare al pubblico il messaggio che vogliamo dare, come detto precedentemente. Per noi non fa differenza suonare davanti a 10,100,1000 persone, è di vitale importanza che la gente sia attirata da quello che diciamo e che riesca a rimanere attenta durante la nostra esibizione. È la cosa che più ci rende contenti.


C’è un brano del vostro disco che ho trovato di una bellezza disperata e straziante. Da dove arriva “Sensitivo”?
Sensitivo è un pezzo che sento molto vicino. Parla di come un uomo quando si ferma ad osservare la realtà della vita finisca per accorgersi della sua assurdità e di impulso ne reclami una ragione. E’ da questa disperazione che può e deve nascere la voglia di esplorare il lato più profondo della nostra coscienza per dare il giusto senso a tutto e tornare a vivere da soddisfatti padroni del proprio destino. Ma nulla può essere appreso se non tramite i sensi . Usarli è il miglior modo per cogliere e capire l’assurdità del sistema in cui viviamo e di conseguenza le menzogne che ci circondano.


Siamo alla fine dell’intervista, vi ringrazio, e per concludere vi chiedo di parlarci dei vostri progetti futuri.
I nostri progetti futuri sono poter riuscire a suonare Onironauta il più possibile in giro perchè, come dicevamo, la dimensione live è troppo importante per una band emergente. In seguito vedremo cosa ci riserverà il futuro.

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La tradizione che rivive al suono di una chitarra.

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Two Fates – /tree

Written by Recensioni

Chi crede che il Fato abbia a che fare con l’essere sottoposti a volontà ignote che appaiono casuali  quando in realtà non lo sono, ma guidano il susseguirsi degli eventi secondo un ordine non modificabile, sarà d’accordo con me che probabilmente non è un caso nemmeno il fatto che il destino dei Two Fates, duo elettro-acustico composto da Loredana Di Giovanni (LorElle) e Giuliano Torelli (Tiresia), li abbia portati a percorrere insieme la strada della musica. Probabilmente non credono nemmeno loro alla casualità dell’evento, vista la scelta del nome del gruppo. Il loro primo EP porta il titolo di /tree, un albero che affonda le radici nella terra della conoscenza e nell’esperienza in ambito musicale, ma che ha le fronde e lo sguardo rivolti verso un cielo ed un futuro ricco di sperimentazioni. Più che di un albero, si tratta di una foresta di suoni, capace di evocare le atmosfere magiche e surreali che ruotano attorno al mondo della Natura. Tecnicamente, il segreto di questa moltitudine sonora, sta nell’utilizzo della Two Fates’ Machine, una “macchina” assemblata dallo stesso duo, che senza l’utilizzo di basi precostituite, permette di registrare al momento stesso dell’esecuzione le varie parti che compongono i brani e di assemblarle in tempo reale. È chiaro quindi che l’ascolto di /tree possa assumere ancora più valore durante le esibizioni live.

L’evocazione al mondo della natura e all’alone di mistero che l’avvolge è chiara già dalle prime tracce del disco, “Blu” e “Verde”; la prima, del colore del cielo, si eleva sempre più in alto verso una serie di inquietudini in un crescendo sia di tonalità che di suoni che si vanno aggiungendo man mano; la seconda invece si lascia trasportate principalmente dalla voce di LorElle e si compone di suoni che richiamano atmosfere decisamente più calme. Con “My Story Is not My Destiny” subentra la lingua inglese; la protagonista è ancora la voce di LorElle che traccia la melodia sulla quale si articolano i suoni elettronici caratteristici del duo. “Il Sogno, l’Addio” è il brano che meglio esprime le caratteristiche principali dei Two Fates, dal richiamo a dimensioni surreali, alla predominanza dell’Elettronica, alla realizzazione di testi di un forte impatto emotivo, (che in altri pezzi perdono però di intensità), alla forte presenza vocale della cantante. “It’s the Rain”, secondo brano in inglese è ancora una chiara evocazione alla Natura, che avviene stavolta in modo palese introducendo suoni come quello della pioggia al quale si intrecciano le sonorità elettroniche caratterizzanti il duo. “Sangue”, il brano a chiusura del disco, si differenzia dal resto con l’introduzione di un ritmo “spagnoleggiante” portato avanti da chitarre acustiche.

Se di esordio vogliamo parlare (anche se questo è il loro primo EP, il duo è impegnato da anni nel mondo della musica, durante i quali ha privilegiato maggiormente le esibizioni live) quello dei Two Fates è sicuramente degno di nota. Un buon inizio che inizio non è, vista l’esperienza di entrambi i componenti. Comunque sia andata, mi voglio fidare del proverbio che dice chi ben comincia è a metà dell’opera. Per la seconda metà dell’opera, non possiamo far altro che aspettare il loro prossimo lavoro.

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Franz Ferdinand

Written by Live Report

Alle volte per me è inevitabile associare certi concerti ad una gravidanza. So che con questa affermazione rischio la morte per decapitazione da parte di tutte le donne che hanno passato ore ed ore in sala travaglio, ma abbiate pietà di me e delle mie libere associazioni, che in questo caso fanno riferimento principalmente al sentimento dell’attesa che governa entrambi gli eventi. Compri un biglietto, aspetti per nove interminabili mesi l’arrivo del concerto, consapevole che in quel lasso di tempo può davvero succedere di tutto. Poi il giorno del concerto quasi per magia arriva, e ti trovi improvvisamente catapultato in un Regionale Veloce con destinazione Milano, dove ti aspettano i tuoi compagni di numerose battaglie; quelli forti, valorosi e temerari, che non si spaventano nemmeno all’idea di dover passare una notte da barboni nella stazione di Milano Centrale per andare direttamente a lavoro l’indomani freschi, riposati e soprattutto profumati, per la gioia dei colleghi. Per fortuna la sorte non ci è stata così avversa: il nostro “sopporter” ufficiale avrà pietà di noi ancora una volta e ci riaccompagnerà a casa. Dopo aver sbagliato treno alla fermata Famagosta (ma secondo voi potevamo farci mancare anche questo tipo di emozioni?), arriviamo finalmente al Forum Assago per essere letteralmente assaliti, sin dalla banchina della metro, da un numero incalcolabile di bagarini che offrono biglietti a prezzi modici e stracciati (a detta loro), tanto che mi chiedo se sono l’unica scema ad averlo comprato. Sono le 21.00, il Forum è pieno, ma dei Franz Ferdinand nemmeno l’ombra. Dal palco, l’occhio stampato sul fronte del cd Right Thoughts Right Words Right Action, riproposto sulla grancassa della batteria, ci osserva: uno sguardo divino sulle nostre esistenze? Un Grande Fratello che ci scruta dall’alto? Non lo sapremo mai. Noi lo interpretiamo come un occhio severo che, pur senza proferire verbo, è capace di farci arrivare un cazziatone interiore che dice più o meno “Che cazzo ci fate ancora senza birra in mano?”. Tranquillo occhio sulla grancassa, provvediamo subito.

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Con una birra in mano le 21.30 arrivano senza problemi, e finalmente si comincia. I Franz Ferdinand si palesano in tutto il loro splendore sul palco. Alex Kapranos guadagna la posizione centrale, ed io lo amo già solo per la sua giacca di pelle, per il suo modo di saltellare sul palco e per come dice “Buonasera Milano”. La scenografia retrostante non è di grandi pretese, ma essenziale: uno schermo centrale e due grandi schermi laterali per proiettare immagini, luci ed effetti. Si comincia con “Bullet”, dall’ultimo album, e si prosegue con pezzi degli album precedenti, per un mix letale tra vecchio e nuovo. Tutto procede a meraviglia, l’energia che si sprigiona è tanta, come da previsioni: dentro, fuori e intorno è tutto un gran saltare. Intuisco l’arrivo di “Do You Want To” e mi preparo ad una carica nelle ginocchia da salto sulla luna, ma stranamente il ritmo rallenta, e così accade anche per “Walk Away”. Mi sa tanto che ci toccherà preservare l’energia potenziale per il seguito. Infatti a partire da “Take me Out”, seguita da “Love Illumination”, sarà uno scatenarsi di emozioni, voci e mani al cielo senza tregua, che solo “Jacqueline” e “Goodbye Lovers and Friend” riusciranno a mettere a freno, lasciandoci intravedere in controluce la fine del concerto. Mentre canto Goodbye lovers and friends, so sad to leave you, when they lie and say this is not the end… la mia voce si unisce a quella di altre “millemila” voci, ma mi ritrovo infine abbracciata a coloro che poco prima in metro mi facevano ridere in una maniera così spensierata, e penso che no, non ci dovrebbe mai essere una fine a tutto questo; non dovrebbe mai avere fine la Bellezza.

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Nicola Manzan (Bologna Violenta)

Written by Interviste

Sta girando l’Italia in lungo e in largo per il tour legato al suo ultimo album. Si porta dietro un’esibizione live dal forte impatto emotivo. Dopo aver partecipato al concerto tenutosi a Torino, era inevitabile porsi delle domande su Uno Bianca. A domande fatte, Bologna Violenta (Nicola Manzan) risponde. Eccovi serviti.

Ciao Nicola, cominciamo dal principio. Com’è nata l’idea di Uno Bianca? Voglio dire, in Italia purtroppo si sono verificati un gran numero di fatti di cronaca nera. Come mai la scelta degli avvenimenti legati proprio ai fratelli Savi?
La scelta è ricaduta su questi fatti perchè si sono svolti in larga parte a Bologna e provincia (per quanto la banda abbia operato anche lungo la costa adriatica fino a Pesaro). Volevo fare un disco su Bologna, un po’ come era successo nel 2005 con il mio primo album. Lì era più una questione di istinto, di sensazioni trasformate in musica, filtrate attraverso l’immaginario dei film poliziotteschi degli anni Settanta (ma con sonorità moderne, ovviamente). Qui il lavoro è stato diverso, sentivo il bisogno di raccontare Bologna, ma volevo farlo partendo da una storia vera che secondo me ha sconvolto e cambiato sotto molti aspetti la città di Bologna e le persone che ci vivono.

Ti sei dovuto documentare molto per la realizzazione di questo album? Di che tipo di materiale ti sei servito per poter riscrivere in musica questa storia? Hai trovato difficoltà nel reperirlo?
Ho cominciato ad interessarmi a questa storia una decina di anni fa e quando mi sono messo al lavoro per scrivere e registrare il disco mi sono reso conto di avere parecchio materiale utile senza dover impazzire per reperire molte altre informazioni. Tengo anche a precisare che il mio intento è sempre stato, fin dall’inizio, quello di “sonorizzare” i peggiori crimini della banda, quindi la cosa fondamentale per me era capire come si erano svolti i fatti per poter poi creare una sorta di sceneggiatura che sarebbe diventata la struttura del pezzo. Quindi mi sono concentrato più che altro sulla ricerca di libri o documenti con fonti attendibili che raccontassero cos’era successo (o cosa si presume possa essere successo) e poco altro. Non mi è mai interessato affrontare tutte le questioni e le ipotesi riguardanti le azioni della banda (qui le teorie si sprecano), per me l’importante era mettere in musica dei momenti di follia e terrore.

Nelle tue esibizioni live di Uno Bianca la musica è accompagnata da immagini, scritte e video  essenziali, molto diversi da quelli che accompagnano le esibizioni dei tuoi precedenti pezzi. Una formula che aiuta a descrivere i fatti e a meglio comprendere la tragicità degli eventi, senza però far passare in secondo piano la musica. Più che un concerto i tuoi live sono una sorta di esperienza multisensoriale dal forte valore emotivo. Ci racconti com’è nata l’idea di un live di questo tipo?  
Devo innanzitutto dire che avrei voluto avere i visual anche per i tour precedenti, ma alla fine per un motivo o per un altro (a dire la verità sono tantissimi fattori messi insieme) non sono mai riuscito a mandare in porto questo aspetto dei live. Per questo disco, però, la questione “visual” non poteva essere ignorata. Non a caso anche nel disco si trova una guida all’ascolto in cui vengono raccontati i vari episodi, dando così la possibilità all’ascoltatore di poter capire cosa stia succedendo a livello musicale. Quindi ho deciso di creare un video per ogni pezzo del disco, ma non volevo fare dei videoclip veri e propri (anche perché le immagini di repertorio non sono comunque moltissime), mi interessava più che altro raccontare attraverso poche immagini, poche parole e alcuni simboli ricorrenti (come i flash degli spari e le croci). Se non ci fossero i visual penso che nessuno capirebbe cosa sto facendo durante i concerti, i pezzi sarebbero fini a se stessi e ci sarebbe addirittura il rischio che venissero ascoltati con le stesse “intenzioni” di quelli dei dischi precedenti, dandone una interpretazione grottesca e quindi sbagliata. I video della seconda parte del concerto (i cui suono appunto pezzi presi dai dischi precedenti) sono addirittura spesso più truci di quelli di Uno Bianca, ma tutto sommato vengono vissuti con più leggerezza dalla gente.

Uno Bianca è stato oggetto di critiche per una sbagliata interpretazione dei tuoi intenti; se ne è parlato molto sul web. Te l’aspettavi una cosa del genere? Cosa hai pensato quando hai letto l’articolo in questione su “Il Resto del Carlino”?
Ho pensato che a questo mondo non c’è proprio speranza… L’articolo (quello che ho condiviso su Facebook è solo uno dei tre usciti anche sul cartaceo) è stato scritto dopo essere stato un’ora al telefono con uno dei loro giornalisti a cui ho spiegato per filo e per segno tutto di me, del mio progetto e di quello che ho fatto nella vita, giusto per non lasciare delle zone d’ombra. Però niente da fare, evidentemente avevano già deciso tutto prima di contattarmi e nonostante io abbia mandato il disco alla redazione del giornale, è palese che l’articolo fosse in pratica tutto già scritto prima ancora di contattarmi. Come è palese che nessuno ha ascoltato gli mp3 che ho mandato. Questi articoli poi hanno sollevato degli strascichi di polemiche molto fastidiose, a dirla tutta. Io ho solo raccontato in musica una storia, ma evidentemente questa cosa non si può fare. Davvero non capisco.

Questa è una domanda personalissima, o forse no. Nelle tue produzioni musicali ti sei quasi totalmente discostato dal concetto di “canzone”. In Uno Bianca i testi sono quasi del tutto assenti. Tuttavia ho sempre avuto difficoltà a scollegare totalmente la tua musica dalle parole, perché non immagini la quantità di parole che viene fuori dalla mia penna dall’ascolto di Bologna Violenta. Come la mettiamo con questo aspetto della tua musica?
Eh… bella domanda… Penso che il tutto nasca dal fatto che sono cresciuto con la musica classica, soprattutto quella sinfonica e da camera (quindi molto poco cantata) e non sono mai stato molto legato ai testi delle canzoni. Mi sono sempre perso nell’ascolto dei suoni più che nel capire il significato dei testi. Quando devo fare musica mia non mi viene mai l’idea di metterci una voce o un testo per così dire “tradizionali”. Non amo cantare (e non riesco a ricordare i testi delle canzoni), ma mi piace mettere delle piccole parti parlate per dare un senso più compiuto a ciò che sto cercando di comunicare (vedi ad esempio “Morte” o “Maledetta del Demonio). Nell’ultimo disco ci sono poche parole, ma c’è la guida all’ascolto che è comunque una parte fondamentale dell’intero lavoro. Come dire, di testi ce ne sono, a volte sono poche parole, ma devo dire che spesso celano dei mondi molto più grandi di quello che può sembrare. Forse è semplicemente perché nella vita tendo ad essere logorroico, quindi nella mia musica cerco di essere sintetico.

Forse è troppo presto per parlare di bilanci, Uno Bianca è uscito da poco e tu sei a metà del Tour di promozione. In ogni caso, te la senti di dirci come sta andando? Si tratta di utopie o di piccole soddisfazioni?
Penso di poter tranquillamente parlare di grandi soddisfazioni. Il disco, pur nella sua complessità, piace molto alla gente e i concerti sono un momento molto forte, in cui il pubblico se ne sta in silenzio per quasi un’ora a guardare con attenzione e a subire la violenza che esce dall’impianto. Spesso a fine concerto scattano dei lunghi applausi a cui non sono davvero abituato e questo mi fa pensare di aver fatto un buon lavoro, che nonostante sia lontano da quello che la gente ascolta normalmente, riesce comunque ad arrivare al cuore di è presente al concerto.

C’è un’esibizione live che più ti ha emozionato finora o alla quale tieni particolarmente?
Questa è una domanda difficile… Ogni data è speciale per molti motivi e devo dire che questo tour mi sta portando anche in posti dove non avevo mai suonato, trovando un forte riscontro di pubblico anche nelle serate nei posti meno tradizionali. Le prime date, quelle all’interno del Woodworm Festival sono state molto impegnative da un punto di vista emotivo, almeno per me, visto che non sapevo assolutamente cosa avrebbe recepito il pubblico e se sarebbe piaciuto il nuovo spettacolo.

Rileggendo una tua intervista di un paio d’anni fa su Rockambula, ho sorriso di fronte alla tua risposta alla domanda “La tua paura più grande?” (Cito:  Ho paura che tutto possa cambiare da un momento all’altro e dover ripartire. Di nuovo (…) Vorrei un po’ di tranquillità). Sei riuscito a trovare la tranquillità che ti eri augurato qualche tempo fa?
Ricordo quell’intervista e ad oggi non mi sembra che le cose siano molto cambiate. C’è da dire che sto lavorando molto, quindi il periodo è assolutamente positivo, ma ho anche capito che quel tipo di tranquillità che ricercavo un paio di anni fa non è ancora così vicino come pensavo. Però molte cose sono cambiate nel frattempo, ho un’idea più chiara di chi sono e di cosa voglio e posso fare nella vita, quindi sono più tranquillo da questo punto di vista. Mi sono anche reso conto che le ripartenze fanno parte della mia vita (e penso anche di quella di molti), quindi ogni volta vado avanti senza pensare troppo al passato o a quello che è stato e cerco di dare il meglio ogni giorno.

Hai già nuovi programmi per il “post” Uno Bianca? Ci sono già dei progetti futuri in ballo?
Ho sempre molte idee che mi girano in testa, e sto anche pensando al “post” Uno Bianca, ovviamente. Attualmente sono impegnato su parecchi fronti, collaborando con vari artisti come arrangiatore, violinista o produttore, quindi tra il tour e questi vari lavori non ho molto tempo per pensare al futuro di Bologna Violenta, ma sto già cominciando a raccogliere materiale per quello che potrebbe essere il prossimo disco.

Grazie mille Nicola. Per concludere, c’è qualcosa che non ti ho chiesto, alla quale ti sarebbe piaciuto rispondere?
Grazie mille a te per lo spazio che mi hai concesso. Tengo solo a precisare che non uso synth e tastiere varie per ricreare il suono degli archi. Faccio delle lunghe session di registrazione in cui registro tutti gli strumenti. Giusto perché qualcuno parla di “tastiere” riferendosi agli archi…

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Bologna Violenta 15/03/2014

Written by Live Report

Il 15 marzo era una data che aspettavo da molto tempo; da almeno due anni infatti (a meno che la memoria non mi faccia brutti scherzi) Nicola Manzan alias Bologna Violenta non si faceva vedere da queste parti. A dare un ulteriore valore a questo week-end si è aggiunta, inoltre, la visita inaspettata in uno special guest ti tutto rispetto con il quale ho il piacere di avere in comune parte del patrimonio genetico, ma questa è un’altra storia. Come spesso accade mi trovavo al Blah Blah, ed il pubblico che animava i portici e l’interno del locale, quella sera, era davvero molto variegato: abbigliamenti “normali” affiancati a look sovversivi da pirata, con comparse sporadiche di chiome dal colore cangiante, dal blu elettrico al rosso vivo.

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Mi sento comunque di dire che il colore predominante era il nero, nella sua variante di nero con borchie. Anch’ io per l’occasione ho deciso di sfoderare il mio finto pellame da combattimento lasciando però le borchie a casa; non avrei mai voluto esagerare con la sobrietà. Tra i look “estremi” che mi circondano, vince il primo premio quello del tizio capellone e cotonato che mi ritrovo davanti durante il concerto, e che per l’occasione ho deciso di ribattezzare “Mufasa” (chi come me ha passato parte dell’infanzia a piangere durante la visione del Re Leone sa di cosa parlo). Il concerto è aperto dai Seitanist, ma l’attesa è tutta per Bologna Violenta che presto si palesa sul palco carico di strumenti accompagnato da Nunzia, carichissima anche lei. Un brevissimo soundcheck  per Nicola, e poi subito si riparte.

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Uno Bianca, l’ultimo album di Manzan, viene suonato per intero, senza interruzione: 27 brani di pura violenza emotiva per raccontare uno dei peggiori fatti di cronaca nera avvenuti in Italia, accompagnati da immagini di repertorio, video di quegli anni e scritte essenziali che meglio aiutano a descrivere i fatti e a comprendere la tragicità degli eventi. Si tratta di video minimalisti, essenziali nella loro forma, di contorno alla vera protagonista che rimane sempre e comunque la musica, che da sola riesce davvero a narrare e ad esprimere tutta l’angoscia, la violenza ed il terrore legato a quegli anni tristissimi. Terminata la performance legata ad Uno Bianca, Manzan procede con alcuni pezzi memorabili tratti dagli ultimi suoi due album; in questo caso i video di accompagnamento alla musica si fanno decisamente più espliciti sia nelle immagini che nei contenuti (Manzan non ti perdonerò mai per avermi fatto assistere alla decapitazione di un toro! Sappilo!). Terminato il concerto, Mufasa ed il suo branco assalgono BV con le loro domande. Io passo a salutare Nunzia nell’area “merch” e subito dopo raggiungo anch’io il mio branco. Mentre mi perdo in un interminabile monologo interiore di cui questo live report è figlio, penso che stavolta Manzan abbia superato sé stesso dando vita non solo and un album degno di nota, ma mettendo in scena un vero e proprio “spettacolo” dal forte valore emotivo, capace di coinvolgere anche i meno amanti del genere; un qualcosa che va oltre un semplice concerto, e che è legato in qualche modo col concetto di Memoria, per non dimenticare ciò che è stato, per fare in modo che non accada più.

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Antonio Allegro – Black Tuff

Written by Recensioni

“Panta Rei”. Tutto scorre. È questa la traccia iniziale, l’incipit di Black Tuff, il primo album del musicista e compositore Antonio Allegro; un concept che narra i primi trent’anni di vita dell’artista. “Panta Rei”. Tutto scorre. È impossibile non tornare con la mente ai tempi del Liceo, quando la teoria del Divenire di Eraclito mi faceva riflettere sul continuo e perpetuo mutamento delle cose, del loro perenne nascere e morire. Sarà questo moto perpetuo a condurmi verso la scoperta della vita di un uomo, del quale non so nulla, e del quale dovrei sapere molte cose arrivata alla fine dell’ascolto? Racchiudere trent’anni di vita in un disco, lo ammetto, mi sembra un progetto alquanto ambizioso, ma intrigante allo stesso tempo. Lascio il freno della ragione, accelero con l’immaginazione e premo play.

Una chitarra sinuosa che pizzica a tratti le note del Blues, mentre scrosci d’acqua e percussioni le fanno da sottofondo: è questa “Panta Rei”, il vagito iniziale del disco, un’introduzione strumentale che dice già molto sulla qualità di ciò che sto per ascoltare. È da qui che ha origine tutto. Il vagito si trasforma subito in voce possente con “Madness of Metropolis”, pazza come il titolo che si porta dietro, come la metropoli che descrive; è qui che si alternano momenti di lentezza e malinconia Blues a lunghi assoli estremi e deliranti.  Le tonalità Blues si perdono nella violenza emotiva di  “Violence is Cold” che si apre ad un Rock più duro al quale però non riesce a stare dietro con la voce, decisamente più adatta per altre sonorità, come quella di “Like a Jewel”, perfetta negli arrangiamenti e nella melodia malinconica, estremizzata da assoli di chitarra struggenti. “Goodbye” è leggera, come l’ arrivederci di chi parte in punta di piedi per non fare rumore e sente già la mancanza di ciò che ha lasciato dopo il primo passo; è il sassofono che stavolta  entra in campo a dar voce a questa tristezza. Sembra esser questo il sentimento prevalente nel disco (e nella vita di Allegro) a partire da questo momento; in “Come Down” si arrivano a sfiorare sonorità Jazz, mentre un senso di confusione e frustrazione sono accentuati in “I’m Not Here”, dove il suono si frammenta in irregolarità deliranti. “In or Out”, strumentale, è invece di passaggio tra l’inquietudine dei pezzi precedenti e la serenità di “She Saved Me”, ballata d’amore per chitarra e voce, segno di una ritrovata felicità. “Punchinello’s Moonlight”, il chiaro di luna di Pulcinella, è il pezzo strumentale che chiude l’album, o che comincia una nuova storia, in virtù di quella famosa teoria del Divenire, del nascere e morire, per poi magari rinascere ancora.

È stato interessante viaggiare nella musica e nella vita di Antonio Allegro. A volte è stato semplice entrare nei suoi stati d’animo, a volte un po’ meno; sempre e comunque ho trovato una chitarra come valida compagna durante questo percorso. Credo sia la stessa che abbia accompagnato lui durante il suo.

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Gallo de Panama. Il Musical inedito made in Puglia.

Written by Articoli

“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati.”
“Dove andiamo?”
“Non lo so, ma dobbiamo andare.”
Jack Kerouac – On the Road

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Mi arrivano sempre come uno schiaffo in faccia queste parole di Jack Kerouac; uno di quegli schiaffi che non nascono per ferire, ma piuttosto per scuotere gli animi assopiti ed intorpiditi. Partire e non fermarsi, senza sapere esattamente quale sia la destinazione del viaggio, presuppone una massiccia dose di sana follia ed una vagonata di coraggio che a volte è difficile trovare. Eppure sono ingredienti fondamentali per intraprendere un nuovo cammino, per cominciare un nuovo progetto e per capovolgere una volta per tutte il bicchiere anziché limitarsi a decidere se  sia mezzo pieno o mezzo vuoto. Sono certa che i sentimenti sopra descritti siano gli stessi che hanno permesso il viaggio di Maner Brivèl, uno dei protagonisti di Gallo de Panama, il Musical interamente inedito concepito in Puglia, sul Gargano, che nasce grazie ad una fitta rete di collaborazione tra giovani professionisti locali ed alla condivisione delle loro competenze in materia di musica, danza e teatro; non si tratta di una semplice condivisione di passioni e mestieri, ma di una vera e propria sfida a trasformare tutto questo in progettualità per il territorio. A mio avviso, sana follia e coraggio sono anche una prerogativa di chi ha deciso di produrre Gallo de Panama (produzione condivisa che vede come capofila il MAD – Music Art Doing di Mattinata), che ha puntato e creduto alla realizzazione di un Musical interamente inedito per i suoi contenuti, per la sua storia, i testi, le musiche, i costumi, la scenografia e chi più ne ha più ne metta. Era da anni che in Italia qualcuno non si assumeva una tale responsabilità e non rischiava così tanto in nome dell’originalità di un progetto. Prima ancora che ai produttori però, il “Gallo” deve la vita a Michele Bisceglia, autore dei testi, delle musiche, delle liriche e della storia che viene narrata. È prima di tutto nella sua mente che il viaggio di Maner ha inizio.

Figlio di una nota famiglia di armatori bretoni, Maner Brivèl decide, dopo gli studi, di tentare la  sorte provando a misurarsi con il Mare. Dopo aver ottenuto da parte dei suoi finanziatori la possibilità di  navigare a capo di un’ imbarcazione tutta sua, la Luisita, in cambio della promessa economica di creare una nuova rotta commerciale tra la Francia e le Americhe, si imbarca dirigendosi verso Ovest. Comincia così il viaggio di questo moderno Ulisse, che non avrà però nessuna Penelope ad attenderlo al suo ritorno; la bella Lorn’Anne, la donna da lui tanto amata, decide infatti di non seguirlo in questa impresa. Il viaggio sarà ricco di peripezie, avventure ed imprevisti che lo porteranno a Panama, dove da poco è stato inaugurato l’attraversamento del famoso canale. È in questo luogo che Maner diventa l’eroe del popolo locale che lo acclama come “Gallo de Panama” (“Gallo” per via della sua provenienza): la reincarnazione di un loro antico avo e condottiero per la libertà.

Altra grande protagonista è senza dubbio la musica, che sarà suonata rigorosamente dal vivo e on stage da parte di una band diretta da Angelo Gualano (pianoforte e tastiere), e composta da Pasquale Arena (batteria), Alberto Mione (fiati), Leo Marcantonio (percussioni), Marco Tricarico (basso), Guglielmo Tasca (chitarra) e Luigi Pagliara (chitarra). Nell’intervista all’autore, sotto riportata, c’è qualche anticipazione su ciò che dobbiamo aspettarci circa questo aspetto. Le voci che faranno parlare ma soprattutto cantare i personaggi principali, saranno invece quelle dell’attore foggiano Michele Iorio (Maner) e delle cantanti professioniste Veronica Granatiero (Lorn’Anne) e Cristina Bisceglia (Verano). La regia è stata affidata ad Antonio Torella, storico collaboratore di Giovanni Maria Lori, (già direttore musicale di numerose produzioni della Compagnia della Rancia, famosa società di produzione di Musical); a quest’ultimo è stata affidata la direzione e la coordinazione del casting. Con il coinvolgimento di più di cinquanta figure tra cantanti-attori, ballerini, musicisti, scenografi, coreografi, artisti e tecnici, Gallo de Panama ha tutti gli ingredienti per diventare un “prodotto” all’insegna dell’originalità. Non ci resta che “testarlo” insomma, e a questo punto la curiosità è davvero tanta. Il Musical andrà in scena per la prima volta al Teatro del Fuoco di Foggia, il 29 e 30 aprile 2014. Non so perché, ma credo proprio che ne valga la pena esserci. Ci sarà da divertirsi.

Di seguito riportiamo l’intervista a Michele Bisceglia, autore di Gallo de Panama.

Ciao Michele, ci racconti com’è nato Gallo de Panama? Intendo dire, quando e in che circostanze è stata pronunciata la frase “Ok, dài, facciamolo” che può aver messo in moto tutto?

Ciao e grazie Maria, a te e a tutti i lettori di Rockambula Webzine! Abbiamo deciso di produrre questo Musical circa un anno fa, a cavallo tra marzo e aprile del 2013. Gallo de Panama, questo grande progetto del nostro territorio, nasce dall’incontro tra il sottoscritto, Pasquale Arena e Toni Noar Augello, rispettivamente direttori artistici e fondatori del MAD – Music Art Doing di Mattinata e dei Laboratori Urbani Artefacendo di San Giovanni Rotondo. Da allora, Gallo de Panama si è trasformato in una vera e propria “rete” artistica che abbraccia artisti e collaboratori da nove Comuni dell’intera Provincia di Foggia.

Tu sei l’autore di testi, musiche, liriche e della storia che viene “narrata”, il tutto è completamente inedito. È un progetto al quale lavoravi da molto tempo, una specie di sogno rimasto chiuso in un cassetto troppo a lungo? Oppure è un progetto figlio di un’ispirazione più recente?

Prendendo in prestito le parole dalla tua domanda, credo che Gallo de Panama, inteso come Musical, sia figlio di un’ispirazione più recente. Le musiche sono state scritte in periodi diversi della mia vita a cavallo degli ultimi vent’anni. Ogni brano ha chiaramente subito delle modifiche sui testi per essere adattati alla storia ed ai relativi dialoghi. Tuttavia è dalle musiche che sono partito per “scrivere” i personaggi. La mia sfida stilistica è da sempre stata quella di riuscire a racchiudere nei canonici tre minuti di una Rock song il profilo completo di un particolare caracter. E questo mi ha aiutato tantissimo quando poi mi sono accostato alla scrittura della sceneggiatura. Di fatto i personaggi esistevano già nelle mie canzoni: Gallo de Panama, naturalmente! E poi Lorn’Anne, Zeleste, Ma’Belle Verano, Fida d’Anice e Agathes, come pure alcune location del Musical sono ispirate a dei luoghi descritti e presentati in altri miei brani, come: Isla Pratt, Freakish, Levante e Prigioni. Non mancano momenti più introspettivi, in particolare sui temi delle ballate: “Il Sogno Vive Qui”, “Velata Profumata Essenza”, “Vita Facile”, “Persuade”, “Preghiera”, “L’Uomo e la Perla” e la conclusiva “Musica Migliore”. Parafrasando l’interpretazione che di Gallo de Panama ha dato il nostro regista, Antonio Torella, posso dire che forse c’è un po’ di me in ogni personaggio e mi piace pensare che questa storia “rimetta al proprio posto i pezzi della mia vita”!

In attesa di ascoltarle dal vivo, puoi darci un’anticipazione sulle musiche che verranno eseguite? Che cosa ci dobbiamo aspettare?

Grazie per questa domanda! Parlo sempre molto volentieri di questo argomento. Musicalmente nasco Rock e questo nelle canzoni del Musical si sente, eccome! Angelo Gualano, il nostro direttore musicale ha arrangiato i brani con uno straordinario rispetto nei confronti delle mie versioni precedenti, non tradendo mai lo stile originale. Lavorare con Angelo ti rimette a posto con te stesso, è un uomo ed un professionista davvero in gamba. Gli sono davvero grato! Ha preso per mano la mia musica e l’ha resa più bella. Mi auguro davvero che l’impatto sonoro che i sette musicisti della band presenti sul palco sapranno mettere in campo, possa davvero accattivare tutti.

La regia di “Gallo de Panama” è stata affidata ad Antonio Torella che si è formato alla SDM de La Compagnia della Rancia, famosa compagnia italiana di produzione di Musical. Ci racconti com’è andata?

Antonio Torella è un professionista con un curriculum così! Non lo scopriamo certo noi. A lui va tutta la mia gratitudine per aver accettato di confrontarsi con questo progetto, assumendosi addirittura la responsabilità della regia del Musical. E’ prima di tutto un musicista eclettico e versatile con un caleidoscopio di sensibilità artistiche e umane notevoli. Il suo aiuto è stato fondamentale in tutti gli stadi della produzione ed in particolar modo nella fase di trasformazione della mia sceneggiatura nel copione vero e proprio.

Il Musical può definirsi una vera e propria produzione made in Puglia, e principalmente made in Gargano. Come ha reagito il territorio locale di fronte a questa iniziativa?

Il nostro territorio ha risposto e sta continuando a rispondere in maniera a dir poco sorprendente. Come ti dicevo prima, a Gallo de Panama stanno lavorando più di cinquanta persone: 17 performer (attori/cantanti), 12 ballerini, 7 musicisti e altre venti persone tra coreografi, scenografi, assistenti di produzione e tecnici. Nella produzione sono coinvolte sette associazioni culturali, tra le quali scuole di musical, danza, musica, teatro e arti sceniche. Oltre ad un numero importante di mecenati e sponsor che economicamente stanno sostenendoci, abbiamo raccolto il consenso fattivo di diverse istituzioni pubbliche e di realtà artistiche e culturali importanti della nostra Terra, mi riferisco a FestAmbiente Sud e al LUC – Laboratorio Urbano Culturale “Peppino Impastato”, che sono nostri partner artistici.

Il “Gallo”, a bordo di una nave tutta sua parte della Bretagna verso le Americhe ma il destino lo porta a Panama. Voi dove vi aspettate che arrivi?

Che aspettative avete nei confronti di questo Musical?

Noi stiamo puntando a fare di questo Musical un ottimo lavoro da ogni punto di vista. La sfida artistica che hanno accettato tutte le persone coinvolte è semplice ma al tempo stesso rischiosa e piena di sacrifici. Gallo de Panama è una storia mai raccontata, non è un brand forte e affermato nel mondo del Musical. Questo, e ne siamo consci dall’inizio di tutta questa splendida avventura, potrebbe essere un limite. Ma stiamo buttando il cuore oltre l’ostacolo perché siamo convinti della bontà della nostra proposta. Mettere in scena opere collaudate permette a chi le allestisce di ispirarsi a canoni stilistici già consolidati evitando di commettere errori. Portare alla ribalta una storia nuova porta in se tanti rischi ma conserva intatto tutto il sapore dell’avventura che è alla base della vicenda umana e personale del nostro protagonista Maner Brivèl. E noi tutti, a nostro modo, siamo dei Maner Brivèl!!! Chiaramente sarà il pubblico e solo il pubblico e tributare o meno il successo di Gallo de Panama.

Grazie Michele. Se c’è una domanda che speravi ti facessi e non ti ho fatto, falla pure, e rispondi se ti va.

Grazie a te nuovamente! Non mi resta che ricordare a tutti che Gallo de Panama – il Musical andrà in scena per la prima volta e in anteprima nazionale il 29 e 30 aprile prossimi al Teatro del Fuoco di Foggia e che i biglietti stanno per terminare. È possibile scegliere i propri posti direttamente dal nostro sito web www.gallodepanama.it oppure chiamando il 328.3231537.  Gallo de Panama, se non insegui i tuoi sogni sei morto!

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Boxerin Club 27/02/2014

Written by Live Report

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Ci sono giorni in cui tentare di programmare la propria vita equivale a mettere in moto una serie di eventi funesti e nefasti  il cui obiettivo è quello di annientare ogni forma di organizzazione, proprio quella volta che hai deciso di fare tutto con calma, e ti sei addirittura spinta a segnare gli appuntamenti in agenda con tanto di “cerchiolino” rosso sull’orario. Ma se al termine di queste peripezie ti ritrovi ad assistere ad un concerto dei Boxerin Club, che arrivino pure tutti gli stravolgimenti di orari e tutte le sfighe del mondo. Siamo al Blah Blah di Torino e la serata non è da birra, ma da amaro. Sono con una delle mie persone preferite ed entrambi, tanto per dare un tocco di originalità alle nostre esistenze, abbiamo mal di gola; la missione è quella di riuscire a mettere qualcosa di forte in circolo bevendo la minor quantità di liquido ghiacciato. Mentre aspettiamo che i Boxerin facciano il loro ingresso e siamo immersi in discorsi metafisici di gossip recenti, ecco che lo vedo, proprio lì, appoggiato al muro, vicino alla consolle: Max Casacci dei Subsonica. Chiedo conferma a chi è con me, sfoderiamo i telefoni e facciamo una rapida ricerca di immagini sul web; ci sembra proprio lui! Tuttavia c’è da dire che entrambi, oltre ad avere lo stesso segno zodiacale e lo stesso ascendente, siamo anche dei miopi irreversibili e vantiamo un numero non trascurabile di figure di merda in merito alla questione “Quello somiglia a…”. Il locale inoltre è molto buio, insomma, non ce la sentiamo di confermare questo scoop; questa però potrebbe essere una buona occasione per lanciare un nuovo giallo capace di annientare una volta per tutte la supremazia di  Jessica Fletcher e della sua Signora in Giallo: quello appoggiato al muro, era o non era Max Casacci? Ai posteri l’ardua sentenza.

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Finalmente i Boxerin Club arrivano, e non appena si posizionano sul palco per me hanno già fatto un miracolo; se i miei occhi architettonici non mi ingannano, il palco/pedana del Blah Blah misura all’incirca 10 mq (ho visto bagni di dimensioni maggiori), nei quali riescono a starci in sei insieme a tutti gli strumenti, che non sono pochi. Chapeau! I Boxerin Club sono di Roma (ce lo ripetono più volte nel corso della serata) e nessuno di loro è mai stato a Torino; questa è la loro prima volta sotto i portici che hanno protetto dalle intemperie per molto tempo il “real” cranio savoiardo di re e regine. La band è arrivata in ritardo e non è riuscita a fare il sound check; il concerto pertanto ci mette un po’ a decollare, i primi pezzi sono  una vera e propria prova del suono. Risolti i problemi tecnici i Boxerin prendono il volo ed è subito fiesta. I brani sono quelli tratti dal loro album d’esordio, Aloha Krakatoa, che il mio collega Lorenzo Centrangolo nella sua recensione definisce freschissimo, dove finalmente possiamo vedere un gruppo (italiano) che evita la trappola dei generi e delle etichette per regalarci undici tracce di variopinta festa sonora, trovandomi pienamente d’accordo. Mentre loro procedono con la loro esplosione di suoni, mi accorgo che senza volerlo ho cominciato a muovermi a ritmo di musica, e non riesco a smettere. I Boxerin ci coinvolgono, ci invitano ad avvicinarci, e noi ci avviciniamo; ci invitano a battere le mani, e noi battiamo le mani; penso però che se ci avessero chiesto di andarcene non lo avremmo fatto così facilmente, Non so perché, ma l’atmosfera che si viene a creare mi ricorda un po’ quella di un concerto degli Honeybird & the Birdies, romani anche loro che io sappia, ma di adozione, provenienti da diverse parti d’Italia e del mondo. Chissà se Boxerin e Honeybird si sono mai incontrati. Quando è il momento di ascoltare “Carribean Town”, mi accorgo che ormai sono in molti a muoversi e a ballare; in tanti hanno lasciato i loro pensieri pesanti a terra e si sono messi a volare insieme a questi ragazzi romani. Subito dopo, quando ormai siamo quasi a fine concerto, qualcuno dello staff passa tra la folla e ci mette in mano fischietti, trombette, maracas ed ogni sorta di strumento musicale, rigorosamente in plastica; ci improvvisiamo tutti musicisti e cominciamo a fare baldoria. Lo stesso soggetto che ha distribuito strumenti in giro per la sala ha in mano un pacco di coriandoli che comincia a lanciare per aria facendoci tornare bambini per un attimo. Ovviamente me ne svuota mezzo pacco in testa, tornerò a casa piena di coriandoli fin dentro le mutande. È quello il tocco finale del concerto, seguito da un ultimo pezzo richiesto dai presenti.

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Al Blah Blah, in alto, più o meno sulla testa dei musicisti, c’è un cartello che riporta una domanda: “c’è qualcuno felice?”. Per me non è mai stata solo una domanda, ma anche una specie di monito, un qualcosa che sta lì, fermo, a ricordare quale dovrebbe essere il fine ultimo di ogni esistenza. Io non so ancora bene cosa sia la felicità. Penso sia qualcosa di effimero, volatile; una parola che si ha il timore di pronunciare per paura che scappi via. Non so nemmeno se a fine serata c’era davvero qualcuno felice, però ho visto tanta gente andar via con un sorriso enorme stampato in faccia, che non è poco.

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Le Fate Sono Morte

Written by Interviste

Ciao ragazzi, cominciamo dal principio: chi sono le Fate? E come sono morte?

ANDREA: ciao, Le Fate Sono Morte sono cinque ragazzi che vivono tra Milano e Varese e hanno deciso di fare musica e di creare un progetto personale che potesse esprimere al meglio i propri sentimenti e pensieri. Andrea (voce e chitarra), Giuseppe (batteria), Daniele (violino), Riccardo (basso), Federico (chitarra). Le fate, in fondo, non sono mai morte per noi; il nome sta a rappresentare la fine delle illusioni giovanili, ma allo stesso tempo l’inizio di una crescita interiore. La band si è formata nel 2008 con svariati cambi di formazione che ha portato sino a quella attuale. In realtà per noi la parola morte nel nome non deve esser presa come negativa ma un pensiero positivo che ti possa far pensare che la fine non sia una vera fine ma un nuovo inizio.

Il vostro ultimo album s’intitola La Nostra Piccola Rivoluzione. Di quale piccola rivoluzione stiamo parlando? Che cosa è realmente cambiato dopo l’uscita di questo disco?

PEP: il titolo del nostro album ha un duplice significato. Il primo inteso come rivoluzione nel senso di riuscire a registrare un disco in modo indipendente, senza l’appoggio di nessuno se non delle persone che da anni ci seguono, ci supportano e ci vogliono bene. Il secondo ha un significato più profondo. Quest’album tratta di rivoluzioni personali che, seppur piccole, possono cambiare le nostre vite. Ognuno di noi ha dei sogni e il fare di tutto per realizzarli può portare a una svolta epocale nelle nostre piccole esistenze. Dopo l’uscita del disco è cambiato l’interesse della gente nei nostri confronti, che di giorno in giorno capisce il nostro messaggio e ci supporta e di questo siamo loro sempre più grati. Speriamo di vederli sempre più numerosi ai live.

Leggo sul vostro sito che attingete il vostro suono dal Cantautorato, dal Rock nostrano, dal Post Grunge e dal Pop. Ci fate qualche nome in particolare? Chi sono i vostri riferimenti?

ANDREA: noi veniamo da svariate influenze essendo persone molto diverse una dall’altra e avendo anche età molto varie (18,23,24,32,35). I riferimenti a cui m’ispiro o da cui vengo influenzato posso dire siano band come: Le Luci della Centrale Elettrica, Giuliodorme, Marlene Kuntz, Afterhours, Giorgio Canali, Nadar Solo tra le band della scena underground ma non disdegno neanche i vecchi cantautori che hanno fatto la storia del nostro Paese o quelli contemporanei.

PEP: io amo tutti i gruppi sopra citati da Andrea ma al contempo sono un grande appassionato di elettronica/strumentale (Aucan o Tyng Tiffany per citare qualche band italiana, Crystal Castles, 65days of Static, ecc). Diciamo che dall’incontro di tanti generi differenti è nato questo disco.

Leggo inoltre che traete ispirazione anche dai libri letti. La cosa è molto interessante. Anche in questo caso, di che libri stiamo parlando? In che modo entrano a far parte della vostra musica?

ANDREA: esatto. Penso sia normale che ogni cosa ci possa influenzare, noi diamo molta importanza ai testi e alle parole; questo ci porta anche a leggere spesso libri e a vedere film, mostre ecc, Un po’ tutto aiuta, il cervello è una gran bella macchina che assorbe tutto, lo rielabora e crea uno stile personale. Penso sia così per tutti. Nello specifico, ho inserito il nome di Alda Merini a cui ho dedicato la prima canzone “A Parte il Freddo” in quanto per un periodo le sue composizioni sono state una specie di colonna sonora della mia vita. In un altro brano “In Ogni Mio Sorriso” mi riferivo alla poesia di Giovanni Pascoli “10 Agosto”.

Nel corso del tempo avete cambiato più volte la vostra formazione. Questo ha portato anche a un cambiamento del vostro sound? Se sì, in che modo?

ANDREA: durante gli anni le priorità delle persone e le vite chiaramente cambiano e così, a volte a malincuore, a volte per scelte differenti, abbiamo cambiato elementi della band. Il sound è cambiato perché siamo cresciuti, gli elementi che sono arrivati dopo hanno solo arricchito e reso possibile quello che era il sound a cui volevamo arrivare quando siamo partiti. In futuro cambieremo ancora ed è giusto sia così perché l’esperienza e la vita aiutano anche a migliorarsi o a seguire diverse idee.

La bonus track del vostro ultimo disco s’intitola: “La Storia Non Siamo Noi”. Si tratta per caso di una dichiarazione di guerra a De Gregori?

ANDREA: Ahahah, no direi di no. De Gregori è uno di quei cantautori a cui mi riferivo nella terza risposta. Più che altro è una presa di coscienza del fatto che in questo periodo siamo troppo presi da noi per riuscire a fare qualcosa, ognuno ha la sua storia che va troppo veloce e si fa fatica a pensare ad altro, siamo diventati tutti molto più egoisti negli ultimi anni, delusi, disillusi, si salvi chi può insomma. Il titolo dell’album poi riprende anche questo messaggio. Se ognuno di noi facesse qualcosa di buono nel proprio piccolo per questa società, sarebbe un altro mondo. Spero non sia solo utopia.

PEP: come dice Andrea il messaggio di questo disco è racchiuso soprattutto nei due pezzi finali “La Storia Non Siamo Noi” e “Niente”, al quale sono particolarmente legato. Dire “La Storia Non Siamo Noi”, non significa “non possiamo fare nulla per migliorare il futuro”, ma anzi “la storia non sta nell’individualità e nell’egoismo dei NOI intesi come singoli, ma nella collaborazione, bellissima parola ormai in disuso”.

Dalla vostra musica, dai vostri testi, dai vostri video, emerge un pessimismo denso, una nebbia fitta nella quale è avvolta tutta una generazione, quella che voi e qualcuno prima di voi ha collocato negli “anni zero”. Oltre a constatare questa dura realtà, c’è un modo in cui pensate di combatterla?

ANDREA: più che pessimismo cerco di esser realista. Con gli anni e crescendo sono diventato molto più positivo e credo in un possibile miglioramento di questa situazione, ma su larga scala non saprei in che modo poter migliorare questo mondo, quindi mi limito a cercar di fare il mio ed esser sempre il meglio di quello che posso essere. Cerchiamo di trasmettere, per noi è fondamentale arrivare alle persone e riuscire a far provare qualcosa.

PEP: diciamo che ci limitiamo a descrivere una situazione, quella nella quale noi e tanti altri giovani vivono oggi. Non è un pessimismo fine a se stesso, come detto prima. C’è sempre un soffio di speranza in ogni canzone, una luce alla fine di questa fitta nebbia.

Il vostro logo rappresenta una fata trafitta da una penna che, immagino, le tolga la vita. Il messaggio che ne traggo è che date molta importanza alle parole; per voi possono avere anche un significato mortale. Qual è il messaggio che invece volete trasmettere?

PEP: come dici tu, per noi le parole hanno una potenza incredibile. Sono più forti di un pugno, più violente di qualsiasi gesto, quindi possono fare male. Ma questa potenza può essere usata anche per aprire gli occhi alle persone. Trafiggere la fata vuol dire uccidere le illusioni giovanili. Ma penso che anche dalla disillusione non debba automaticamente nascere un pensiero pessimista (anche se può sembrare quello più scontato). Questo però è un discorso ampissimo, se volete andiamo a prenderci una birra e ne parliamo per ore!

Siamo giunti alla fine. Per concludere, quale domanda importante non vi ho fatto, alla quale avreste voluto rispondere?

PEP: “Siete davvero convinti che non diventerete niente?” Forse, ma noi ce la stiamo mettendo tutta per diventare grandi e forti insieme, alla faccia di chi continua a lanciarci fango addosso.

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Anna Calvi 21/02/2014

Written by Live Report

Il venerdì notte è la mia notte. È un momento carico di una strana euforia, di una stanchezza che ubriaca, di un’energia potenziale che dilata il tempo e gli conferisce un aspetto simile all’eternità. È venerdì notte, e tutto può accadere. Vi starete chiedendo se siete stati catapultati improvvisamente alla Sagra delle Banalità, dato che questo pensiero accomuna buona parte della popolazione planetaria ed è già stato ampiamente espresso, anche in maniera più eccelsa, da altri prima di me (un certo Robert Smith ad esempio, nei suoi momenti di rara esaltazione, cantava “Friday I’m in Love”). Ma cosa che volete che vi dica? A me basta così poco per essere felice stasera, un bicchiere di vino con un panino, ed un concerto di Anna Calvi. L’Hiroshima Mon Amour è stranamente calmo e poco affollato all’esterno; il pubblico è già tutto all’interno, tranquillo, in attesa, C’è ancora il tempo per tutto: una birretta al bancone, due chiacchiere per riassumere le sfighe della settimana appena trascorsa e due chiacchiere per anticipare quelle della settimana che verrà, commenti di varia natura su questi bicchieri di birra che hanno drasticamente ridotto la loro capacità pur avendo lasciato inalterato il prezzo, discorsi vari ed eventuali. Poi si guarda l’ora, ed è meglio avvicinarsi al palco, perché tra un po’ le danze avranno inizio, e così succede. Anna Calvi arriva e sembra uscita da una foto, una di quelle che compaiono quando si digita il suo nome su Google: stessi capelli color miele, stessa acconciatura, stesso rossetto (rosso), stesso colore (rosso) per la maglia, stesso look per farla breve. Dal vivo sembra  piccola, una Lolita pura nelle espressioni ma accattivante se le metti una chitarra in mano. Invece ha trentatré anni. Penso che ho ancora tre anni di tempo fare qualcosa di buono nella vita.

Il pubblico accorso all’evento è un pubblico sensibile e colto; lo si capisce dal fatto che davvero in pochi, pochissimi, hanno il coraggio di sfoderare gli Smartphone per improvvisarsi fotografi delle migliori riviste di musica. Tra i non colti vince il primo premio colei che, presa da un raptus feroce di intelligenza, mi chiede: “Ma si può fumave qui dentvo?” (Ha pure la “r” moscia, cosa volete da me?). L’animale che mi porto dentro avrebbe voluto rispondere “Cogliona. Sono  anni che in Italia non si fuma nei locali, e poi, ti sembra che qualcuno stia fumando qui dentro? Non ti accorgi che quella nebbiolina che vedi in controluce sul palco altro non è che un effetto scenico ormai in uso (e in disuso) da diverso tempo?”. Tuttavia mi volto lentamente con uno sguardo che chi era con me ha definito da madre incazzata, misuro l’ampiezza cerebrale della mia interlocutrice, e decido di limitare al minimo il mio consumo di energie rispondendo: “Non credo proprio…”. “Peccato” mi dice. È inutile, non ha proprio speranza. Ritornando al pubblico, trovo che sia anche molto eterogeneo: giovani, meno giovani, adolescenti, rockettari incalliti ed attempati con segni di calvizie in stato avanzato, uomini serrati in maglioncini Tommy Hilfiger con tanto di camicia abbottonata fino all’ultimo bottone, madri di famiglia forse in cerca delle figlie scappate di casa per l’ennesima volta, hipsteromani che invece non cerca nessuno; di tutto di più insomma.

Una volta sul palco Anna mette subito le cose in chiaro: in questo concerto si darà spazio nient’altro che alla musica. Pronuncia poche, pochissime parole, rigorosamente in inglese (anche se da una che si chiama Anna Calvi almeno un grazie in italiano ce lo aspettavamo),  rigorosamente sussurrate al microfono, in netta contrapposizione con la potenza che la sua voce può raggiungere. A fine concerto sussurra qualcosa che quasi nessuno riesce a capire. Potrebbe aver detto Thank you so much, ma anche Fuck you so much, è un aggrottarsi di sopracciglia generale. Facci capire, Anna,  facci capire se dietro tutta questa ricercatezza nascondi un innato spirito Punk, facci capire se ci hai mandati tutti a fanculo con la dolcezza della tua voce melliflua, facci capire che peso dare alla serata; non abbiamo paura degli stravolgimenti, non abbiamo pregiudizi, ci piace voltare le carte in tavola e cambiare strada all’improvviso. Ma lei continua a pronunciare parole sottovoce, e noi continuiamo a non capire. L’intera esibizione è come un giro sulle montagne russe. Anna ci porta in alto, con la voce, con il suono, è un’esplosione di chitarre e vocalizzi (forse ce ne sono anche troppi). Poi un attimo dopo siamo in basso, in profondità, siamo acqua stagna che cerca un varco per entrare in luoghi segreti. Ci prende in giro Anna, a metà serata, tra alti e bassi. Accelera, arriva in alto, poi frena di botto, rasenta il silenzio. Crediamo sia finita lì, parte un applauso fuori luogo mentre lei riprende ad accelerare, sale di nuovo veloce e poi riscende in picchiata, e noi ci ricaschiamo una, due, tre volte. Penso che siamo un pubblico di merda; non sappiamo nemmeno quando applaudire. Poi però penso anche che non siamo a teatro, ma in uno di quei posti dove si suda, e che certe formalità le abbiamo volutamente lasciate chiuse a chiave nelle nostre case.

Siamo a tre quarti di concerto e tocchiamo l’apice quando Anna si perde in un assolo da capogiro. È là, sul palco, ci sono solo lei ed il suono, ha i fari puntati addosso ed il collo teso verso l’alto, mentre le dita inseguono corde ad una velocità inaudita. È in estasi. Mi guardo intorno. Mi chiedo cosa pensano gli uomini quando vedono certe donne impugnare la chitarra in quel modo. Sei o sette rockettari stempiati di cui sopra la osservano a bocca aperta, con lo sguardo inebetito e la faccia persa nel vuoto, ed inutilmente cercano di stare dietro a quelle dita accennando movimenti con la testa. Io invece penso che sia cazzuta, ed il fatto che non ha bisogno di dimostrarlo con gesti e parole eclatanti, con cavalcate faraoniche del palco e movimenti eccessivi mi piace parecchio. Siamo fin troppo pieni di fronzoli in questo mondo, un po’ di sostanza non può che farci bene. Dopo il teatrino uscita-applauso-uscita si levano le ancore e si torna a casa, con un bella scorta di Bellezza per i giorni futuri, che sono sempre un punto interrogativo troppo grande, ma non è il momento di pensarci ora, non me ne frega niente in questo momento. Sono le 3.30 di un venerdì notte qualsiasi, è vero, ma è quella la parola magica, Venerdì, è quella che conta. Sorriso in bocca ed occhi che cedono al sonno. It’s Friday I’m in Love.

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