Maria Petracca Author

Ricercatrice di parole appropriate per la descrizione di esplosioni emotive. Ha una grande passione per il rumore.

Brunori SAS – Vol.3 Il Cammino di Santiago in Taxi

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Quando ascolto un nuovo disco, tra le prime cose che faccio, mi soffermo sul titolo e spingo l’acceleratore sull’immaginazione per vedere fino a dove mi riesce a portare. Il titolo che ho davanti in questo momento è Vol.3 – Il Cammino di Santiago in Taxi della Brunori SAS, fondata da Dario Brunori. Non ho mai avuto modo di fare l’esperienza del Cammino di Santiago, ma dai racconti di chi si è cimentato in questa impresa colgo che la bellezza di tale cammino sta nel viaggio in sé, nelle tappe intermedie che lo compongono, negli incontri casuali che lo caratterizzano. Con questa premessa, la lentezza del mezzo di locomozione diventa una condizione necessaria e sufficiente per assaporarne appieno tutte le tappe ed arricchirsi interiormente sotto diversi aspetti. A piedi, in bicicletta, in autostop o in bus, immagino un viaggio a volte più lento, a volte più veloce, ma che dà sempre la possibilità di creare legami con gli esseri viventi circostanti: piccoli pezzi di vita messi nelle mani di altre vite. Cosa posso aspettarmi invece da un Cammino di Santiago che avviene in Taxi? Certo la comodità del viaggio è un aspetto allettante, ma il solo pensiero di una conversazione più o meno sterile con il tassista che riguarderà nel 90% dei casi il Meteo e nel 10%  la Crisi mi fa venire un’ansia assurda. Premo play, forse è meglio.

“Arrivederci Tristezza” arriva dopo una breve introduzione al piano. Più che un titolo è un monito: la tristezza si saluta solo con un arrivederci e mai con un addio. Il brano, che si sviluppa in un graduale crescendo, mi porta alla consapevolezza che la Brunori SAS funziona sempre più come una piccola orchestra: gli strumenti si moltiplicano, il suono si completa di sfumature che lo rendono più caratteristico, gli arrangiamenti sono più articolati, anche se non mancano brani più intimi. Tra questi ci sono “La Vigilia di Natale”, dove bastano voce e piano per raccontare l’angoscia di certi giorni festivi, dell’ obbligo alla felicità dettato dal numero rosso di un calendario, oppure “Kurt Cobain”, che introduce il tema del suicidio partendo da una serie di riflessioni sul senso della vita, e che perde di intensità nel ritornello dove vengono tirate in ballo le morti di Kurt Cobain e Marilyn Monroe come esempi emblematici (il motivo di tale scelta rimane per me ancora un mistero). La conclusione alle riflessioni sul senso della vita si risolve in un forse troppo superficiale: vivere è come sognare ci si può riuscire spegnendo la luce e tornando a dormire. “Mambo Reazionario”, dal ritmo quasi caraibico, è un modo ironico di criticare la decadenza di certi ideali di rivoluzione. I temi scottanti arrivano con “Pornoromanzo” che si rifà al tema dell’amore tra adulti ed adolescenti, dei novelli professor Humbert e delle moderne Lolite, che confondono sesso e amore, il tutto cantato con un ritmo rockeggiante ed un linguaggio esplicito che esclude ogni fraintendimento. “Le Quattro Volte” mette in risalto lo scorrere inevitabile del tempo e la routine che accompagna la vita affrontandone con tono semplice e leggero le tappe che la caratterizzano, dalla scuola elementare alla pensione, senza però considerare che il corso della vita è ormai cambiato, e che in pochi si rivedono nelle tappe descritte. “Il Santo Morto” è una sorta di zapping televisivo di immagini contrastanti, che vanno da Padre Pio al Pulcino Pio, senza tralasciare i programmi trash che ci propone Nostra Signora TV. “Il Manto Corto” spegne le parole e permette alla Brunori SAS di esprimersi con la sola forza del suono, e ciò che ne viene fuori è una bella conversazione in musica in un brano del tutto strumentale. Non potevano mancare infine le storie d’amore finite male, come “Maddalena e Madonna” e “Sol Come Sono Sol” in chiusura, una sorta di Valzer sulla solitudine con tanto di storia di abbandono sull’altare.

Il viaggio è finito e sotto certi punti di vista è stato comodo e veloce. Ma per quel che mi riguarda, non sempre la parola comodo è sinonimo di bello. È stato comodo nella scelta di alcune tematiche, e veloce nel modo di trattarle in superficie, con retorica, senza addentrarsi troppo nelle questioni, lasciandosi indietro la possibilità di arrivare fino in fondo. La scelta di intraprendere un cammino come quello di Santiago, e la scelta di farlo in Taxi, lasciandosi indietro dettagli che avrebbero davvero potuto fare la differenza. Posso affermare con sicurezza che il titolo dell’album è quello giusto.

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Dente – L’Almanacco del Giorno Prima

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Me la ricordo bene la mia prima volta con Dente. È stata durante una sessione d’esami estiva, di quelle che ti tolgono il sonno e l’appetito, e ti riducono a un’insignificante particella subatomica immersa nell’immane grandezza dell’universo. È stato un ascolto casuale, di quelli che arrivano e ti trafiggono alle spalle, mentre ignaro ti aggiri nei labirinti della tua esistenza, convinto di essere immune a certe manifestazioni emotive. Parole che ho cancellato dal vocabolario ce ne sono una dozzina o anche di più. Ho cominciato da quelle che, si sa, son delle bugie. Come per sempre che, fondamentalmente, è uguale a mai. Un modo scanzonato di affrontare la vita, accompagnando l’ironia delle parole con il suono della chitarra, a volte del piano; non mi serviva altro per sorridere quel giorno. Ed è così che ho conosciuto L’Amore Non È Bello. Un’affermazione che nell’immaginario collettivo presuppone l’esistenza di un seguito: l’amore non è bello se…, ma che in questo caso non esiste. L’amore non è bello. Punto e basta. Chi ha bisogno di un se vada a cercarselo altrove. E da lì in poi sono andata a ritroso, verso l’ascolto di Non c’è Due Senza te ed Anice in Bocca, dal sound più primitivo, essenziale, ma sufficiente ad accompagnare parole di una schiettezza ancora una volta disarmante. Io Tra di Noi rappresenta invece una svolta musicalmente parlando; gli arrangiamenti si fanno più completi grazie all’introduzione di archi e fiati, si osa con qualche suono elettronico.

Dopo quasi tre anni da Io Tra di Noi arriva L’Almanacco del Giorno Prima. Il titolo si riferisce palesemente alla trasmissione televisiva l’Almanacco del Giorno Dopo, con la variante della parola prima a continuare la tradizione del gioco di parole nel titolo dell’album.  Anche il disco, come il titolo, si conferma in pieno stile dentesco: brani caratterizzati da una forte malinconia, la predilezione per tematiche riguardanti amori quasi esclusivamente infelici (teoria confermata dallo stesso Dente), il tutto contornato da arrangiamenti molto ben curati, merito anche della collaborazione di  Enrico Gabrielli (Calibro 35) e Rodrigo D’Erasmo (Afterhours). Sembrerebbe che ci sia proprio tutto in questo disco, ed invece la grande assente è proprio l’emozione, e scusate se è poco. Brani come “Chiuso dall’Interno”, “Invece Tu” e “Miracoli”, sono piacevoli all’ascolto, ma vanno via veloci, senza lasciare molte tracce dopo il loro passaggio, senza farsi troppo notare. Qualcosa comincia a muoversi con “Fatti Viva”, dal ritmo quasi ossessivo di sottofondo, che introduce il suono del clavicembalo capace di portare chi ascolta in epoche remote. Sulla stessa scia si sviluppa anche “Fiore Sulla Luna”, ma perde di intensità rispetto alla precedente. Altra presenza non così scontata è il suono delle chitarre elettriche; non aspettatevi assoli da capogiro, ma piuttosto piccole comparse in canzoni come “Al Manakh”. Per “Meglio Degli Dei”, “I Miei Pensieri e Viceversa” e “Remedios Maria” a chiusura del  disco vale lo stesso discorso dei brani di partenza: si fanno ascoltare piacevolmente, ma vanno via veloci. Il tempo rimane tempo che scorre e basta, e non si dilata come a volte succede quando si ascolta musica.

L’Almanacco del Giorno Prima è senz’altro un buon disco, ben costruito, molto ben arrangiato, molto radiofonico se vogliamo, migliore di molta altra musica che si sente abitualmente in radio, ma a mio avviso non aggiunge niente rispetto alle produzioni passate di Dente, anzi, si priva di quella autenticità che contraddistingueva i testi e di quella straziante ironia che si riduce ad una ricerca forzata di giochi di parole che però non mi fanno più sorridere. Lascio ad animi più nobili del mio il compito di emozionarsi di fronte a parole come chi non muore si ripete, chi non vuole non si vede più. Io ci vedo solo la citazione di un proverbio e nulla di più. Aspetterò i live per poter sorridere ancora, sperando che Dente non abbia deciso di ammazzare la sua ironia anche sul palco.

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The Blacklies – Kendra

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Mi lasciano sempre un po’ perplessa quei film di Fantascienza dove gli esseri umani, sempre più cibernetici e tecnologici, presi da smanie di grandezza ed onnipotenza, finiscono per distruggere la Terra. È  quello che in realtà sta effettivamente succedendo, non sono paure del tutto infondate. Poi però penso che siamo in Italia, che non molto tempo fa ho letto su La Stampa: secondo gli ultimi dati diffusi da Eurostat nel 2013, più di un italiano su tre (il 34%) non ha mai usato Internet, (il risultato peggiore tra i 28 Paesi Ue dopo quelli registrati in Romania, Bulgaria e in Grecia), e ridimensiono la mia paura. Per altri millemila anni la tecnologia non si impossesserà di noi.

Dello stesso avviso non sembrano essere The Blacklies, che hanno incentrato il loro ultimo lavoro, un concept album dal titolo Kendra, tutto sulla questione di cui sopra. La storia si svolge nel 2024 ad Atlantis, una metropoli futuristica e super tecnologia, in un mondo sempre più schiavo della rete (chissà se è ancora schiavo di Facebook), dove l’accesso ai propri dati personali non avviene più tramite password ma solo attraverso il riconoscimento di impronte digitali. In questo scenario di decadenza da eccesso di tecnologia si inserisce la storia dell’haker Leonard Spitfire, che riesce a mettere a punto un diabolico virus che chiama Kendra, come il nome della donna che ama e che però gli mette anche le corna; a quanto pare questa enorme piaga sociale continuerà ad esistere anche nel 2024, fatevene una ragione. Kendra, che in principio era stato pensato come un modo per poter migliorare la vita delle persone (come un moderno Robin Hood, Leonard pensava di poter prelevare il denaro dai conti correnti dei ricchi per metterlo in quello dei poveri) diventa in realtà motivo di malcontento e sommosse popolari, e si trasforma in un’arma di distruzione di massa; in poche parole i ricchi continueranno ad essere ancora più ricchi anche nel 2024, e chi si impossessa del potere, anche se all’inizio è mosso dalle migliori intenzioni, continuerà a creare caos e malcontento, proprio come oggi. Fatevene una ragione anche stavolta.

Tuttavia qualcosa di nuovo accade: Leonard, afflitto dal rimorso per i danni arrecati, decide di distruggere Kendra per porvi qualche rimedio. È un elemento nuovo, soprattutto in Italia, quello di vedere un uomo di potere sedersi dalla parte del torto; questa si che è Fantascienza! Il povero Leonard tuttavia, deve fare i conti con René, suo amico e collega di malefatte, che invece non è affatto felice di abbandonare lo scettro del potere. Tra i due nasce un duello corpo a corpo, al termine del quale Leonard si scopre vincitore, ma qualcosa continua a non funzionare. Nonostante abbia vinto cade lo stesso a terra esanime, ed è là, in un finale degno di un copia-incolla dal celeberrimo Fight Club, che Leonard scopre di essere sempre stato anche il perfido René.

La musica che compone l’album è ben articolata e ben si sposa con gli scenari apocalittici e tecnologici sopra descritti; l’associazione ai Muse, ed in particolar modo a The 2nd Law è inevitabile (chi è stato ad uno dei loro ultimi concerti sa di cosa parlo). “K”, il virus che distrugge il Sistema dall’interno, apre l’album con effetti elettronici e si rivela subito essere l’introduzione a “Upon My Skin”, energica ed impattante: la presentazione di Leonard al mondo. “Higher” è una ballata dal forte trasporto emotivo che ti porta sempre più in alto, complice anche l’assolo sul finale. Il personaggio di René entra in scena sulle note di “Show Me the Way”, dove il ritmo torna ad essere incalzante, come in “He Was Driving Fast” dove, tuttavia si percepisce una maggiore inquietudine dettata dal risveglio della coscienza di Leonard per i danni arrecati. Con “Atlantis” i toni diventano decisamente più crepuscolari a seguito della scoperta della misteriosa doppia vita di Kendra. Con “Scarlet” l’irreparabile è ormai successo: la violenza del suono descrive appieno la violenza che si è ormai sprigionata per le strade di Atlantis, e non sarà l’urlo Remove The Virus di F.Thomas Ferretti, la voce potente dei The Blacklies, a poterla fermare. Occorrerà agire fisicamente, Leonard ne diventa consapevole in “Redrum”. “Duel” preannuncia l’epilogo della storia: è il duello corpo a corpo tra Leonard e René che avviene a colpi di chitarre, che in questo caso perdono di tono rispetto all’evento che rappresentano. Ritornano in perfetta sintonia con la storia invece “It’s Time to Make a Change”, inquietudine che esprime la consapevolezza di Leonard del suo sdoppiamento di personalità e “Photograph” che, accompagnata da un piano, si fa malinconica e disperata nel suo assolo finale. E’ la fotografia che ti appare quando apri gli occhi e prendi consapevolezza di ciò che sei davvero, e quello che vedi non ti piace per niente, ma ormai è troppo tardi per cambiare.

Una storia senza lieto fine, non particolarmente originale, ma narrata in un concept album ben strutturato e a mio parere dal forte valore artistico.

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Domani No di Cristiano Carriero: quando i libri fanno riflettere sulla musica.

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domani no - Sconosciuto

Boavida se ha muerto. Boavida è morto. Mai affermazione fu più chiara, precisa, netta. Non c’è scampo ad un’affermazione così. Ad ucciderlo è stato Ernesto Celi, in arte Ernestoc’è, ovvero, uno dei protagonisti, insieme a Boavida, di Domani No, l’ultimo romanzo di Cristiano Carriero (Bari, Gelsorosso, 2013). La questione però è che Boavida ed Ernestoc’è sono la stessa persona, almeno fisicamente, perché Boavida è in realtà un personaggio creato a tavolino da un discografico senza scrupoli conosciuto durante un Contest musicale, al quale Ernesto affida la propria musica ricevendo in cambio la promessa di un successo assicurato. È da qui che comincia o finisce tutto, dipende dai punti di vista: l’immagine da ragazzo della porta accanto nella quale Ernesto non si rispecchia affatto, la vetta delle Hit Parade con il suo tormentone estivo “Ossessione Onirica”, il nome d’arte Boavida (che poi di arte non ha davvero un cazzo, osserva giustamente Ernesto), una comparsa al Festivalbar e i movimenti sul palco alla Mauro Repetto (se non sai chi sia, vedi alla voce “quello biondo degli 883”), la partecipazione a Sanremo con una canzone riassunta tutta nell’ultimo verso che dice: senza dir nulla ho scritto una canzone, il declino, l’abisso, il dimenticatoio.

Non c’è niente di nuovo in tutto questo, mi direte. Infatti, è proprio questo il dramma. Ormai ci siamo talmente assuefatti ai tormentoni non più solo estivi, ma a cadenza mensile, ai successi che vanno e vengono con la velocità di un’eiaculazione precoce, che non ci rendiamo più conto di quanto un artista si trovi un giorno sulla vetta del mondo, e quello successivo nello strapiombo della dimenticanza. Ma di quale vetta stiamo parlando? Per Ernesto la vetta del successo ha coinciso esattamente con l’abisso in cui è caduta la sua anima. Ossessione Onirica, Ossessione Onirica ribelle: ma quale ribellione? L’alienazione totale, piuttosto: testi “disimpegnati” nei confronti anche di sé stessi. Canzoni che non devono far pensare, canzoni da canticchiare e basta, canzoni da una botta e via. E nulla più. Il caso ha voluto che stessi leggendo questo libro e facendo queste considerazioni proprio il giorno in cui ho letto che Valerio Scanu (si, proprio lui, quello dell’amoreintuttiimodiintuttiiluoghiintuttiilaghi) ha strappato il contratto con la sua ormai ex casa discografica e ha deciso di auto prodursi. E forse è un caso anche che mentre in Domani No si racconta dei perfidi meccanismi dei Talent Show, mi capita di leggere del giudice che ha rivolto insulti ad un cantante omosessuale durante l’edizione Rumena di X-Factor. Ora, non starò a sindacare su quanto la grettezza delle affermazioni di quel giudice abbiano a che fare con il fattore spettacolo; so solo che ancora una volta si è persa una buona occasione per far prevalere il buongusto, e che il libro che stavo leggendo purtroppo aveva a che fare irrimediabilmente con la realtà.

Alle volte però la vita si sa è strana, e proprio quando sei convinto che la strada che stai seguendo sia quella giusta, ti costringe a deragliare e a prenderne un’altra. Proprio come succede ad Ernesto. Ma non starò a raccontarvi altro, lascerò a voi la scelta di leggere o meno questo romanzo, che è fatto di musica, senz’altro, ma anche di amicizia, “drammi” familiari, amore, di band che si sciolgono e di band che nascono, di furgoni e camper su e giù per l’Italia, di critici musicali che con i loro editoriali sembrano decretare la tua fine ma in realtà è solo un nuovo inizio, dei soldi che non sono mai abbastanza, e di questa Generazione di Fenomeni che siamo noi, esperti in salti mortali, si, quelli che si fanno per arrivare a fine mese. E forse è per questo che siamo maggiormente sensibili a quei treni che a quanto pare  passano una sola volta nella vita. Come il treno del successo, ad esempio: se non lo prendi al volo non ti ricapiterà mai più. Ma a quale prezzo si sale su questo fantastico treno? Che costo ha questo maledetto biglietto? È una domanda che faccio a chi ha una band, ma anche a chi una band non ce l’ha, e spera in ogni di caso di poter vivere un giorno di musica. Siamo realisti, qua non si campa d’aria, anche se i Folkabbestia per anni hanno affermato il contrario. Ma esiste un limite oltre al quale non ci si può spingere? Fino a quando è accettabile il compromesso? Ed il successo può davvero definirsi tale anche quando porta alla negazione di sé stessi?

C’è un passaggio del libro che mi ha colpito particolarmente. Ernesto, Ciccio e Tony (altri due personaggi fondamentali) si interrogano sul da farsi circa il loro futuro di musicisti e di Band. Il discorso prende una piega strana e i tre amici cominciano ad interrogarsi su quale sia la chiave del successo. Quello con le idee più chiare è Ciccio: a me non interessa far parte di un mercato marcio dove ti vendono come un paio di scarpe finché non passi di moda. Il più incerto invece è, come al solito, Ernesto: tanto non la capirò mai qual è la chiave del successo, afferma sconsolato. Prova a non cercarla, gli risponde Tony. A quel punto ci pensa Ciccio a chiudere la questione; Io non so quale sia la chiave del successo, ma la chiave del fallimento è il cercare di piacere a tutti. Io aggiungo che la chiave del fallimento è anche non piacere soprattutto a sé stessi.

Ps. Alcuni pezzi di Ernestoc’è sono diventati davvero delle canzoni in seguito. Qui sotto trovate ad esempio “Domani No”

Intervista all’autore:

Ciao Cristiano, cominciamo dal titolo del romanzo: Domani No. Oltre ad essere anche il titolo di una canzone di Ernestoc’è, il personaggio principale, ha qualche altro significato in particolare?
Domani No è un invito a fare quello che ti senti, quello che ti dice la testa, o se vuoi il cuore. È come quando tiri una monetina in aria per scegliere tra due possibilità e sai già inconsciamente cosa preferisci tra testa o croce. Domani No è un modo per dire che nella vita si può anche attendere qualcosa di bello, ma non passivamente. Altrimenti non succederà assolutamente nulla. E questo Ernesto lo sa.

Nella postfazione al romanzo hai affermato che la lettura della biografia di Caparezza e Fabri Fibra è stata decisiva per delineare il personaggio di Ernesto. Come mai? Ci sono stati altri musicisti o band dai quali hai tratto ispirazione?
De Gregori, Guccini, i grandi cantautori. Gruppi come i Folkabbestia o la Bandabardò, i Martin Kleid, alcune belle sorprese come Mannarino e Brunori Sas. Ma Caparezza e Fabri Fibra sono i due che, con le loro peculiarità, meglio rappresentano Ernesto. E inoltre rappresentano le “mie” regioni: la Puglia e le Marche, luogo dove vivo.

Sempre nella postfazione hai scritto: “Io non sono un esperto di musica. Per scrivere questa storia ho dovuto studiare molto”. Cosa ti ha spinto allora a scrivere un romanzo dove la musica ha un ruolo tutt’altro che marginale, anzi, è una delle protagoniste principali?
Mi piace definire Domani No un romanzo di frustrazione. Nel senso che io volevo fare il cantante, e ho scritto anche diverse canzoni, poi non ci sono riuscito ma quella è un’altra storia. Purtroppo non ho la voce giusta. In ogni caso il mondo della musica, soprattutto quella italiana, mi ha sempre affascinato. E credo di saperne qualcosa, pur non essendo un cantante.

Qual è il tuo rapporto con la musica oggi? Scrivere questo romanzo ha cambiato questo rapporto? Se si, in che modo?
Ci sto più attento, nel senso che non scaricherei mai un brano gratis e dico davvero. Rispetto il lavoro dei musicisti, sono iscritto a Spotify a pagamento, scarico da iTunes. Ascolto anche i cantautori non ancora famosi e se posso cerco di conoscerli magari per coinvolgerli nelle mie presentazioni. Così è stato con Fabrizio D’Elia, che ha musicato “Domani No” (la trovate su Youtube) ed ha reso indimenticabile la presentazione di Bari, a Storie del Vecchio Sud accompagnandomi con la chitarra e con la voce.

Leggere il tuo romanzo è anche un bel modo di attraversare in lungo e in largo l’Italia: si parte da Bari per poi arrivare a Bologna, Roma, Milano. C’è perfino una tappa straniera in Albania. A Bari ti lega il fatto di esserci nato e vissuto, immagino. C’è qualcosa che invece ti lega agli altri luoghi menzionati?
Bologna, Roma e Milano sono tappe intermedie della mia vita. Per un motivo o per un altro ho avuto modo di conoscerle, apprezzarle e in alcuni casi disprezzarle, proprio come Ernesto. L’Albania rappresenta nel libro il luogo della redenzione, è il posto dove tutto ricomincia. E lo è stato anche per me, in maniera simbolica. Albanese è la ragazza che ho amato come poche altre cose al mondo. Albanese la sua famiglia, e il legame che si è creato con questa terra e con questa gente, nonostante le nostre strade si siano separate è indissolubile. L’Aquila ha due teste fa parte di me.

Sul mio libro c’è una dedica che recita: A Maria, ringraziandola per la domanda che sognavo da una vita. Ps. Non è un romanzo autobiografico!
Lo spieghi anche ai lettori di Rockambula perché per te è così importante che  non lo sia? Ed in ogni caso, sei proprio sicuro che non lo sia?
Sì, sono sicuro. Io non sono Ernesto, al massimo è lui che copia me e mi costringe a diventare come lui. Ma io resisto. Ho scritte diverse cose autobiografiche in vita mia, per questo stavolta era importante che questa storia non lo fosse. Era una sfida, volevo vivere un’altra vita, quella di un cantante famoso e di un ragazzo deluso per amore, in un momento in cui la mia vita sentimentale andava benissimo. Poi lascia stare che a me è successo esattamente quello che è successo a Ernesto. Se volete sapere cosa mi è successo leggete il romanzo!

Grazie Cristiano. Per finire la Domanda delle domande (o meglio, la Risposta delle risposte, se deciderai di rispondere): cosa avresti voluto che ti chiedessi e che, invece, non ti ho chiesto?
Sinceramente mi sono divertito a rispondere a domande diverse dal solito e quindi non posso fare altro che ringraziarti. Ma visto che me lo chiedi mi domando “Domani No potrebbe diventare un film?” e con un pizzico di presunzione di dico di sì, perché credo che la forza di questo romanzo sia la sceneggiatura, con dei flashback e dei personaggi fatti apposta per il cinema. Anzi, conosci un regista?

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AliceLand – Pensieri Raccolti

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Pensieri Raccolti è il titolo del primo album di Alice Castellan, in arte AliceLand: una raccolta di brani scritti dalla stessa Alice ed arrangiati dal bassista Andrea Terzo. Ma procediamo con ordine, partendo dal nome, che mi evoca all’istante Alice’s Adventures in Wonderland (Alice nel Paese delle Meraviglie, per farla breve) di Lewis Carrol; la mia fantasia galoppa. Il titolo dell’album, Pensieri Raccolti, mi porta invece alla mente la visione di pensieri intimi e profondi, raccolti in sé stessi, rannicchiati in posizione fetale; tanti piccoli embrioni cerebrali che possono crescere e diventare progetti, sogni che si avverano, futuro, ma che possono anche rimanere là dove sono, e spegnersi lentamente in vaghi ricordi. A questa visione però ne segue subito un’altra, ed è quella in cui un’Alice spensierata e saltellante raccoglie pensieri in maniera un po’ distratta e li mette in un cesto a forma di disco che si porta dietro, riempiendolo. La mia fantasia galoppa ancora più forte. Premo play, e neanche a farlo apposta, il primo brano si intitola “Immagina”, e si dichiara subito in uno stile Pop gradevole, almeno fino al ritornello, almeno fino a quando la voce di Alice (voce che tra l’altro non mi dispiace affatto) non si accanisce sull’ultima nota di ogni verso con un virtuosismo eccessivo, con un suono simile ad un gemito, che si ripete per una, due, tre, quattro, n volte. Solo alla fine del disco potrò affermare che il mio dubbio è in realtà una certezza: quel suono è presente in tutto l’album. Aiuto.

I riferimenti ad Elisa li colgo subito, soprattutto nel brano “Pianeti”, forse tra i più interessanti. Interessante anche l’utilizzo delle percussioni etniche in “Stronger (ovunque)” e “Sacred Mountain”, dove diventano veri e propri elementi caratterizzanti che valorizzano il brano. Solo in rarissimi casi mi hanno colpito i testi, che non ho trovato così intimi e profondi come il titolo dell’album mi aveva fatto immaginare. La parte musicale invece, interamente suonata in acustico, mi è sembrata essere più vicina al concetto di intimità espresso dal titolo. Altro elemento costante per tutta la durata del disco è il tema amore, preferibilmente nella sua variante che fa rima con dolore. Premetto che non ho nulla in contrario a questa variante, ma è davvero così grande il dolore di Alice da meritarsi tutto questo spazio nel disco? Oppure bastava semplicemente dare maggiore importanza ai Pensieri Raccolti di cui sopra, quelli rannicchiati in posizione fetale, più intimi, e non accontentarsi di raccoglierne alcuni in maniera distratta per riempirne un disco? (Traduzione: non conveniva magari ridurre il numero dei pezzi, attualmente quattordici e scegliere in maniera più opportuna quelli da inserire?). La musica per me ha l’effetto terapeutico di mettere a tacere, anche se temporaneamente, gli interrogativi che mi porto dietro da sempre.  Questa volta sono troppi quelli che mi restano alla fine dell’ascolto.

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Sine Frontera – I Taliani

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Sine Frontera. Senza confini. Il loro nome è già un invito a superare di ogni forma di barriera fisica e mentale, concetti che vengono ampliamente espressi con la loro musica, anch’essa senza confini, appunto, libera dalle restrizioni geografiche e svincolata dall’appartenenza ad un determinato genere musicale. Contaminazione è la parola chiave dei Sine Frontera, e I Taliani, il loro ultimo album, ne è pieno. Un viaggio su un’ipotetica linea ferroviaria che passa confini e raccoglie, strada facendo, storie e musiche di posti lontani: è così che definiscono il loro progetto musicale, e quest’ultimo lavoro non si discosta dalla loro idea di fare musica. Se di generi musicali si vuole in ogni caso parlare, il viaggio avviene tra Folk Irlandese e Ska, tra musica balcanica (“La Ruota”) e Country, fino a sfiorare il Rock con “Io Sono Io”; geograficamente parlando ci spostiamo invece tra Nord e Sud America (“No Soy Borracho”, brano interamente in spagnolo dal ritmo Ska, racconta di una storia d’amore ai tempi della rivoluzione messicana di Zapata), per poi saltare dall’altra parte del mondo e toccare tutti i punti cardinali dell’Europa. Qui il viaggio prevede anche una sosta in Spagna ed una collaborazione con Albert Ferrèr, voce del gruppo barcellonese Malakaton,  nel brano “Hombres”, un’esortazione agli uomini a pensare con la propria testa, cantato in italiano e spagnolo.

La meta principale del viaggio resta comunque l’Italia, il titolo dell’album non mente; sono numerosi infatti i tributi al Bel Paese. La title track “I Taliani” canta a ritmo Ska vizi e stereotipi del popolo italico, che non di solo vizi e stereotipi, però (fortunatamente) è fatto: di ispirazione letteraria e cinematografica è la ballata Folk Irlandese “Camillo e Peppone”, mentre di ispirazione teatrale è il brano “Il Villano”, Tarantella che si rifà ad un’opera di Dario Fo. Non manca nemmeno un tributo al “Marchese del Grillo” di Alberto Sordi nel brano “Io Sono Io” (e voi non siete un cazzo!). Di diversa tendenza è il brano “Dietro il Portone”, una ballata Folk (che mi fa tornare alla mente la malinconia di “Remedios la Bella” dei Modena City Ramblers), cantata per metà in italiano e per metà in dialetto mantovano, dedicata a tutte le vittime dell’Olocausto, e che riprende le parole del celebre libro “Se Questo è un Uomo” di Primo Levi.

I Sine Frontera sono la dimostrazione che la musica può davvero abbattere le barriere fisiche e mentali, e condurre l’immaginazione in luoghi impensabili; fondamentale è dunque il suo ruolo come mezzo di trasporto emotivo. Un po’ meno rilevante è, a mio parere, l’importanza che viene data ai testi, che rimangono a volte sospesi sul pelo dell’acqua, senza andare troppo a fondo, nonostante l’importanza di alcune tematiche trattate (penso a brani come “La Ruota”, una riflessione sul senso della vita che si riduce alla nota metafora della ruota che gira). In ogni caso, mi è piaciuto viaggiare con i Sine Frontera; mi è piaciuto sedermi intorno ad un falò di suoni e parole ed ascoltare le loro storie provenienti dal mondo. Durante una navigazione nell’oceano sconfinato del web, mi ha colpito un incontro accidentale con una frase che diceva più o meno: scrivere è come viaggiare senza la seccatura dei bagagli. Credo che la  musica abbia gli stessi “effetti collaterali”.

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La Tosse Grassa – Tg3

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La Tosse Grassa: il nome è già tutto un programma. Il titolo del suo terzo disco poi, TG3, lo è per davvero (sempre se, come me, credete che i telegiornali somiglino sempre più a dei Talk Show). Tra ricordi catarrosi di nottate insonni, febbri deliranti ed antibiotici dai colori psichedelici, mi accingo a premere play con in faccia, lo ammetto, un’ espressione di schifo per tutto quello che una tosse grassa può evocare nella mia mente.

Già dalla prima traccia la sensazione è di essere investiti da un camion in corsa. Sto ascoltando un disco Metal? Nonostante la presenza di sonorità riconducibili ad altri generi, “Veleno”  sembra volermi condurre in quella direzione. Sembra, appunto; perché la seconda traccia “la Vita È Bella (Quella di Benigni)” si presenta con un ritmo Pop Dance che si lascia ascoltare facilmente, e che subisce una metamorfosi nel ritornello passando all’Hardcore, con tanto di esasperazione della voce proprio sulle parole La vita è bella, la vita è una cosa meravigliosa. E così si procede, altalenando tra vari generi, riferimenti e citazioni, fino a quando non mi sembra di riconoscere nella melodia della terza traccia (“Hanno le Manine”) il ritornello di “Take Me Out” dei Franz Ferdinand. Una coincidenza? Chissà.

Proseguo con l’ascolto di “Santo Subito” e questa volta non ho dubbi, lo riconosco chiaro e tondo il motivetto di “Sei un Mito” degli 883, così palese, spudorato e deciso che per un attimo mi viene da cantare tappetini nuovi Arbre Magique, deodorante appena preso che fa molto chic. È stato solo un attimo, mi ricompongo subito. No, questa non può essere una coincidenza. Ed infatti non lo è, perché mi trovo davanti a Vanni Fabbri alias La Tosse Grassa, e a quello che è un vero a proprio culto, Il Culto della Tosse Grassa appunto, della quale lui stesso è il dio indiscusso. TG3 è quella che Vanni definisce la sua nuova stagione liturgica, che prevede la stessa formula delle due stagioni liturgiche precedenti (TG1 e TG2): una serie di basi realizzate con campionamenti provenienti da brani altrui. Un mix letale, ripetuto per la terza volta, ma sempre vincente: il Pop va a braccetto col Metal per recarsi a fare una visita alla Dance, passando però prima dall’Elettronica, senza dimenticarsi del cantautorato italiano (in “Ghigliottina e Lanciafiamme” c’è spazio anche per Pupo e per la sua “Firenze S. Maria Novella”).

Il tutto è poi accompagnato da una serie di testi irriverenti, dissacranti, diffamatori e violenti che trattano con cruda ironia e straziante verità la decadenza di questa società allo sbando. Suicidio, droga, disoccupazione, pedofilia, consumismo, religione, omosessualità, precarietà, vengono sviscerati senza mezze misure o giri di parole; le vergini orecchie si mettano al riparo e le signorine perbene non svengano se  travolte da alitate di Trash. Chi di voi ha mai visto una tosse grassa avere pietà del poveraccio che vi è malcapitato? Dopo le dovute cure, magari. Ma questa è una tosse grassa per la quale non farà effetto nessuno sciroppo e, sinceramente, mi sta bene così.

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Placebo – Loud Like Love

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Ci sono stati momenti di vero panico per il mio elettrocardiogramma emotivo durante l’ascolto di Loud Like Love, ultimo disco dei Placebo. Alla vista di un tracciato piatto ed in presenza di un suono Biiiip  continuo, il medico di turno era pronto a decretare la morte di qualsiasi forma di emozione,  sentimento o stato d’animo, dalla felicità più sconvolgente all’angoscia più devastante, per citare solo gli estremi di un lungo intervallo di sfumature sentimentali che la musica è capace di generare. Tuttavia, prima di mettere nero su bianco una definitiva sentenza di morte, un ultimo brevissimo Bip ha rimesso in moto quella macchina infernale generatrice di turbamenti che i comuni mortali chiamano cuore, insieme a tutto ciò che è capace di contenere, risollevando in questo modo le sorti di un album che troppo spesso si abbandona ad un Pop Rock, passatemi il termine, “scontato”, ma che a tratti riesce ancora a regalare momenti di piacevole musica.

“Loud Like Love” (traccia che dà il titolo al disco) ad esempio fa pensare ad una corsa disperata dettata dal ritmo sostenuto di chitarra e percussioni, che si ferma a riprendere fiato proprio nel momento in cui Brian Molko canta Breathe. “Scene of the Crime” sembra voler tentare il colpo riproponendo il lato più oscuro dei Placebo, ma è un colpo che non va mai a fondo e si riduce a rimanere un graffio in superficie. La discesa comincia con “Too Many Friends”, una critica contro i social network che si perde in ovvietà di ogni tipo ma si salva grazie ad un ritornello orecchiabile, e continua con “Hold On to Me”, che potrebbe passare tranquillamente inosservata se non fosse per la voce di Brian Molko che resta comunque un elemento valorizzante, nonostante tutto. Segnali di ripresa arrivano con “Rob the Bank”, dove il ritmo si fa più sostenuto, ed “Exit Wounds”, dove i protagonisti sono i suoni elettronici della parte iniziale che esplodono in una moltitudine di chitarre, riprese poi nella successiva “Purify”. “Begin the End” annuncia, di nome e di fatto,  la fine del disco che si chiude con la melensa, più che romantica,  “Bosco”.

Un album che genera un elettrocardiogramma emotivo instabile insomma, fatto di momenti  in cui ti daresti per spacciato, e momenti in cui ritorna un barlume di speranza a farti credere che davvero qualcosa di nuovo possa ancora accadere. Ma quel qualcosa non accade. Non in questo album, almeno.

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Daughter – If You Leave

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È pieno inverno nel disco d’esordio dei Daughter, uno di quegli inverni che arrivano all’improvviso a spaccare mani e labbra dal freddo, e che sembrano non volersene più andare. “Winter comes, winter crush all of the things that I once loved” canta Elena Tonra in “Winter”, prima traccia di If You Leave, ma non è il canto disperato di chi vede scomparire il suo mondo sotto una spessa coltre di neve. La voce rimane pura, dolcezza e delicatezza conferiscono un tono più soft ai momenti tormentati della vita ampiamente trattati nei testi nell’album, non per sminuirli, ma per renderli semplicemente più leggeri; neve in gennaio che cade lenta e si appoggia, non raffiche di vento che spazzano via tutto.

È un inverno di un bianco minimalista quello dei Daughter, la chitarra di Igor Haefeli non si perde mai in inutili virtuosismi. Il silenzio leggero delle cose si palesa sotto la forma di un suono essenziale e pulito che crea un’atmosfera intima e raccolta con momenti di slancio, certo, (vedi il crescendo con cui si sviluppa “Smother”, vedi le distorsioni nella seconda parte di “Lifeforms”) senza però mai raggiungere momenti di esasperazione. Stesso discorso vale per la batteria di Remi Aguilella, mai protagonista assoluta; con la sua precisione ritmica preferisce spesso mettersi da parte (come nella prima parte di “Youth” ed in molti altri brani) piuttosto che rovinare l’armonia del tutto con un suono invadente.

È come un’ eco continua il disco dei Daughter , una presenza costante a volte più accentuata, a volte poi meno potente, sempre presente ma mai impattante. Un sottofondo, un sussurro, un respiro, ottenuti con effetti di riverbero ed estensioni del suono che conferiscono all’intero album un’atmosfera intima, profonda, ereditata probabilmente dai Bon Iver ma accentuata, rispetto a questi ultimi, dalla presenza della voce femminile di Elena Tonra, molto vicina a quella di Cat Power, intensa ma allo stesso tempo quasi al di sopra dei turbamenti che canta.

È un disco pieno di puntini di sospensione quello dei Daughter, per l’attimo di stupore che lascia al primo ascolto e per il futuro del trio, che se seguirà le orme del loro album d’esordio sarà sicuramente da tener d’occhio.

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Rivoluzioni musicali in mostra alle OGR di Torino

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Quando si parla di musica, ognuno ha senza dubbio i propri riferimenti, i propri miti, le stelle polari che lo guideranno lungo il corso della propria esistenza ,in lungo e in largo, a destra e manca, forever and ever, “finché morte non vi separi”. Alcuni di questi miti, però, non fanno solo parte del nostro universo musicale, ma sono delle vere e proprie pietre miliari della storia della musica, simbolo di un’ epoca, esempio per le generazioni future ed esponenti di rivoluzioni che hanno deviato il corso della storia stesso.  Ed è proprio a questi Dei dell’Olimpo musicale che fa riferimento Alberto Campo, curatore della mostra fotografica Transformers – Ritratti di Musicisti Rivoluzionari, allestita presso i Cantieri OGR di Torino e visitabile dal 28 settembre al 3 novembre 2013. Il filo conduttore che la caratterizza è quello della “Trasformazione”, tema tanto caro alle ex Officine Grandi Riparazioni Ferroviarie (una delle ultime testimonianze della storia industriale della città), oggetto di un recente restauro che le ha restituite alla popolazione torinese sottoforma di “Cantieri Culturali”, sede di eventi musicali, teatrali, mostre, fiere ecc.

Ed eccoli allora sfilare uno per uno i Grandi della musica, in una serie di scatti che li ritrae durante la loro vita di artisti (con una predilezione per quelli realizzati durante gli eventi live) e di comuni mortali; un richiamo all’idea della “Trasformazione” come trapasso dalla dimensione pubblica a quella privata. Le fotografie sono attinte dal vasto bacino messo a disposizione da Getty Images, ed abbracciano sessant’anni di musica (dall’avvento del Pop negli anni ’50 all’era del web e delle tecnologie digitali odierne); il sottofondo musicale è una lunga colonna sonora composta da canzoni-simbolo degli artisti considerati. Campo fa cominciare tutto con Elvis (e come dargli torto!), opportunamente inserito nella sezione “Origini della Specie” e fotografato durante una delle sue celebri mosse di bacino. La seconda tappa porta il titolo de “l’Invasione Britannica” ed i protagonisti non potevano che essere Beatles e Rolling Stones, considerati perennemente in antitesi. Gli anni ‘60 si tingono anche di Folk e dei ritratti di un giovanissimo Bob Dylan, che con la sua “Blowin’ in the Wind”, cantata come inno di chiusura dei comizi di Martin Luther King, diviene il rappresentante della “Canzoni di protesta”, mentre Miles Davis e James Brown lo sono del Jazz e del Soul-Funky nella sezione “Black Power”. Si conclude un decennio e ne comincia uno nuovo, segnato dall’ “Utopia Hippie” che vede i suoi massimi esponenti nei Doors e in Jimi Hendrix (immortalato mentre dà fuoco alla chitarra elettrica durante il festival di Monterey), mentre il Transformer per eccellenza, David Bowie (nelle vesti di Ziggy Stardust) trova posto nella sezione “Rock a Teatro” insieme alla primissima formazione dei  Velvet Underground (fotografati con l’immancabile Andy Warhol ), quella di cui faceva parte anche la splendida Femme Fatale Nico, immortalata in un primo piano stupendo, mentre indossa una maglietta riportante la scritta Fragile. Nella sezione “gli Outsider” si piazzano Tom Waits e Frank Zappa, mentre l’unico artista italiano preso in considerazione, Ennio Morricone, non poteva che collocarsi nella sezione “la Musica Come in un Film”. Passano gli anni, cambia il modo di far musica, che diventa “definitivamente prodotto dal vivo su larga scala”: Led Zeppelin e Pink Floyd sono esempio dell’ avvento dei grandi concerti che riempiono gli stadi. Dall’altro capo del mondo, sempre in quegli anni, “One Love”, Bob Marley si faceva portavoce di un nuovo genere musicale: il  Reggae. Altra rivoluzione musicale degna di nota in quegli anni è il Punk, rappresentato nella sua forma più grezza dai Sex Pistols (lo scatto che ritrae Johnny Rotten nel tentativo di armeggiare un paio di forbici enorme parla da sé) e nella sua forma più colta da Patti Smith, la sacerdotessa del Rock che sembra non aver alterato con gli anni l’espressione che ha in volto mentre canta. Gli anni ‘80 sono quelli dell’ Hip Hop dei Beastie Boys, del re e della regina del Pop: Michael Jackson e Madonna. Gli anni ’90 segnano una frattura col decennio precedente grazie all’avvento del Grunge e dei Nirvana: il primo piano di Kurt Kobain troneggia in sala (forse è una delle immagini più belle della mostra), mentre ha in mano la chitarra che riporta la scritta “Vandalism: beautiful as a rock in a cop’s face”. La mostra arriva fino ai giorni nostri, e si conclude con l’ “Evoluzione della Rockstar” verso una musica sperimentale e ricercata, i cui esponenti sono rappresentati da Björk e Radiohead (riconoscere una foto scattata durante il loro ultimo tour del 2012 ti fa sentire fiero di esserci stato) per chiudersi definitivamente con l’avvento della musica elettronica dei Kraftwerk e dei Daft Punk nella sezione “Technologia”.

I grandi assenti? Tanti, ognuno sicuramente troverà qualche suo “mito” mancante all’appello. In ogni caso, non è un buon motivo per privarsi di questa mostra, che non è una semplice esposizione fotografica, ma un viaggio visivo e sonoro indietro nel tempo, verso tappe della storia e rivoluzioni musicali compiute dai musicisti che tanto amiamo. Allacciate le cinture, si parte.

Fonti: http://www.ogr-crt.it/events/transformers-ritratti-musicisti-rivoluzionari/

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The Mad Scramble – Still Another Nightcap

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Dieci, come i bicchieri disposti in fila su di un bancone da bar immaginario in copertina, riempiti ognuno con una sostanza alcolica diversa. Dieci, come i musicisti che molto probabilmente andranno a sedersi a quel bancone immaginario per sorseggiare lentamente il contenuto di quei bicchieri. Dieci, quindi, come i componenti della band The Mad Scramble (Mr. Steve Tms, Mr. Roby ZZ, Mr. Tex, Mr. Fabulouse, Mr. Alex, El Guanaco, Mr. Joe, Mr. Fred, Mr. Flyin’e Mr. Winnie Dee): voci, chitarre, percussioni, basso e fiati, tutti protagonisti all’interno dell’album. Dieci (nove più una per la precisione) come le tracce contenute nel loro ultimo album Still Another Nightcap, il contenitore nel quale convogliano diversi generi musicali, dall’R&B al Funky, passando per il Soul e toccando perfino sonorità latine e Ska.

L’incipit del disco, “If I”, è come una goccia d’acqua che cade in altra acqua: un’ introduzione breve di bassi che si estende a dismisura dando spazio prima ai fiati, e poi alla voce calda e coinvolgente di Mr. Steve Tms. Con “The Road” il ritmo diventa più deciso, segnato da una sessione ritmica decisamente più energica e da fiati che trovano maggior respiro, mentre la voce si colora di un tono più Dark. “Every New Love” ti porta nuovamente in basso verso gli abissi dell’anima, in un’ intimità Soul fatta di voce e tastiere che si incamminano per incontrare nuovamente sessione ritmica, chitarre e fiati in un crescendo che scema nel finale. “My Dear” alterna un ritmo lento ad accelerazioni improvvise che a tratti sembrano arrivare a sonorità Ska. In “Love Is the Best Way to Cheat” le vere protagoniste sono le percussioni, decise è presenti in tutta l’estensione del brano. “Listen” abbassa nuovamente i toni col suo iniziale di piano e voce, per poi cambiare totalmente direzione, spingendosi a toccare sonorità latine. “It’s Not All About You” ha tutte le intenzioni di essere una Blue Song, ma come spesso accade cambia il suo corso, pur concedendo al piano momenti da protagonista. In “You and I” le percussioni ritornano in primo piano ma solo fino a quando non entrano in campo fiati e chitarra. “Beauty Is Inside” è la Ballad che chiude il disco, un elogio alla voce potente e profonda di  Mr. Steve Tms, prima di salutare definitivamente con una versione radiofonica di  “You and I”.

Un disco movimentato, ricco di variazioni e contaminazioni, che evidentemente non sono bastate se dopo questa sbronza sonora i musicisti al bancone, come titolo dell’album, chiedono ancora un altro cicchetto di note prima di andare a dormire (Still Another Nightcap). E noi fa piacere berlo insieme a loro.

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Umberto Maria Giardini – Ognuno di Noi è un po’ Anticristo

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Sono naufragata milioni di volte nel mare delle mie inquietudini, e Dio solo sa quante altre tempeste emotive dovrò superare. Ma c’è un modo per far tornare la quiete, là dove per troppo tempo tuoni e fulmini hanno avuto la meglio, e questo modo è spalancare i cancelli dell’anima e dare libero ingresso alla musica. Paradossalmente, però, non tutta riesce a passarci attraverso. Può farlo solo quella fluida come l’acqua, che scivola all’interno di percorsi della mente sconosciuti, capace di scovare i sentimenti più nascosti. Parlo, ad esempio, della musica contenuta in Ognuno di Noi è un po’ Anticristo, il nuovo EP di Umberto Maria Giardini, uscito il 20 settembre 2013.

Non è un disco dall’ingresso trionfale, odia i clamori. È un amico che conosci da sempre e sa come fare a raggiungerti. Parte sicuro, ma a passi lievi, e ti viene incontro con una sezione ritmica leggera accompagnata da una voce melliflua. Subito dopo, il suo incedere lento affretta il passo e si trasforma in corsa per entrare dritto dove vuole entrare (“Fortuna Ora”). E ce la fa. Bene, amico di cui sopra, ormai hai sfondato tutte le recinzioni, cos’altro dire? Prego, accomodati. E lui si accomoda e ti parla; con fare psichedelico e ossessivo (“Oh Gioventù”), e senza proferire parola, ti fa capire che sa tutto di te, delle tue inquietudini, delle dei tuoi scazzi, delle tue incertezze, delle tue solitudini. All’improvviso ti senti nudo, spiazzato, e pensi che da un momento all’altro se ne andrà via, schifato per tutto ciò che ha visto. Ma lui non lo fa. La musica non tradisce. Comincia invece a sussurrarti all’orecchio parole come il tempo è come noi, prende tempo e non perdona (“Regina Della Notte”).

Ed allora capisci nell’inganno in cui sei caduto, è tempo perso il loop in cui sei capitato. Pochi secondi con il fiato sospeso, e poi l’esplosione in un finale deciso, un misto di gioia per esserti ritrovato, e tristezza per esserci cascato ancora. Il resto è solo una parola: “Omega”. E’ ora di farla finita. La melodiosa bellezza della voce ed un sottofondo psichedelico carico d’inquietudine convogliano in un unico, solo finale Progressive. Non è da tutti fare certi viaggi all’interno di sé stessi; ci vuole coraggio, ma conto di averne a vagoni stracolmi al binario della tua città (“Tutto è Anticristo”). Non c’è da vergognarsi per quello che ne viene fuori quando ci si guarda dentro. C’è del bello e del brutto in ognuno di noi. In fondo, Ognuno di Noi è un po’ Anticristo.

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