Febbraio, 2012 Archive

AQUEFRIGIDE

Written by Live Report

AQUEFRIGIDE + TANNHAUSER
Venerdì 20 Gennaio 2012 @ Tipografia – Pescara

Primo atto dell’eroica impresa di Frantic Factory, un appuntamento mensile con l’estremo (almeno per il momento). “Revolution is Heavy” recita lo slogan apparso sui social network e sui flyer in giro per la città, e siamo certi che di rivoluzione si tratti.
Luogo designato per questo happening della Pescara alternativa è Tipografia, locale già noto per le sue derive electro-danzerecce, ma finora poco avvezzo ad ospitare chitarroni distorti e urla sguaiate.
Il colpo d’occhio è dei migliori, gran bel posto, situato in un circondario completamente industriale, tra il grigiore dell’asse attrezzato e le fuliggini del cementificio, habitat ideale per le creature della notte in cerca di luoghi bui.

L’antipasto è a base di stoner metal intinto nel fango, dal retrogusto lisergico e imprevedibile, e porta il nome di Tannhauser. La band pescarese vede tra le sue fila due volti noti del rock nostrano, quali Sergente e Franz degli Zippo, entrambi chitarristi nella band madre, qui rispettivamente in veste di chitarrista e cantante. Ottimo groove alimentato dalla pulsante sezione ritmica, suono corposo e voce potente che non ci pensa due volte ad urlare tutta la propria rabbia. Aspettiamo questi quattro ragazzi al varco, con il primo lavoro che ci auguriamo giunga a breve.
Il piatto forte della serata è finalmente pronto per essere servito. Gradito ritorno per Bre Beskyt Dyrene aka Simona La Muta e della sua splendida creatura Aquefrigide. Un mix più unico che raro di alternative rock, metal, punk, grunge e industrial, per una band che meriterebbe certamente più attenzione dagli addetti ai lavori. Diversi mesi di stop hanno portato ad un ri-assestamento della line-up e la band romana torna ora ad essere un quartetto, mentre Simona torna ad imbracciare la sua chitarra fiammante e a fronteggiare la Transexual Riot.

Poche e fioche luci illuminano la scena, mentre nella sala ragazzi e ragazze in totale venerazione attendono con ansia di venire travolti dalle note di Mephisto Hobbit, Orighami, Carne Cruda, Freddo Mercurio, e ancora In Che Depressione Suono, Svastika, Soffio Veleno, Detesto, e così via. Vengono proposti i migliori episodi elettrici di Un Caso Isolato (2006) e La Razza (2009), ad oggi gli unici due oscuri reperti del combo capitolino.
La partecipazione del pubblico è attiva e concitata, e i testi duri e crudi di Simona lasciano davvero qualcosa di indelebile, come anche i volumi elevati, come si addice al galateo del rock.
La band fa appena in tempo a lasciare il palco quando è costretta ad uscire nuovamente allo scoperto per eseguire una manciata di altri brani, tra cui la bellissima Ago Primavera, graditissima.

Mi auguro che gli Aquefrigide riescano ad ottenere i riconoscimenti che meritano, poiché in un ambiente ormai totalmente a puttane come quello della musica italiana – e soprattutto cantantata in italiano – riescono ad essere ancora “puri”.
Un inizio, questo, che fa ben sperare e che punta a collocare Pescara tra le realtà che contano. L’accurata selezione di Frantic Factory propone nei prossimi appuntamenti i Forgotten Tomb (17 febbraio) e gli svedesi Siena Root (9 marzo), mentre altri eventi verranno annunciati a breve e si preannunciano esplosivi.

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MARIA ANTONIETTA: le date del nuovo tour

Written by Senza categoria

E’ la più novità più chiacchierata del momento. Adesso in tour. Ecco le prime date.

10-02-2012 MARGHERA (VE) – Pop Corner Club
15-02-2012 FORLI’ – Diagonal Loft Club
16-02-2012 TORINO – Teatro Vittoria @ Premio Buscaglione
17-02-2012 OSIMO (MC) – Loop
18-02-2012 GIOVINAZZO (BA) – Arci Tresset
19-02-2012 GUAGNANO (LE) – Arci Rubik
23-02-2012 SEGRATE (MI) – Circolo Magnolia @ Milano Brucia
24-02-2012 ROMA – Locanda Atlantide
25-02-2012 RAVENNA – Bronson
02-03-2012 TRIESTE – Etnoblog
03-03-2012 BOLOGNA – Covo
09-03-2012 SAN MARTINO DI LUPARI (PD) – Garage Club
10-03-2012 CAVRIAGO (RE) – Calamita
17-03-2012 FUCECCHIO (FI) – La Limonaia
28-03-2012 COSENZA – L’ora di Italiano @ Piccolo Teatro Unical
29-03-2012 MESSINA – Retronouveau
01-04-2012 RUFFANO (LE) – Note di Vino
13-04-2012 FIRENZE – Viper (con Cristina Donà)
15-04-2012 CARPI (MO) – Mattatoio
27-04-2012 PRATO – Nuovo Camarillo
30-04-2012 CONEGLIANO VENETO (TV) – Apartamento Hoffman
04-05-2012 BRESCIA – Lio Bar
16-06-2012 CASTIGLIONE DEL LAGO (PG) – La Darsena

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Il nuovo disco dei Linterno è pronto!

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Si chiamerà “Lay Down For Comfort” ed uscirà il prossimo 16 febbraio sotto la Chorus Of One Records. La band bolognese affronta il grande passo del secondo disco nella loro carriera musicale. Subito dopo l’uscita del disco, precisamente il 18 febbraio, la band farà il suo release show in casa, ossia a Bologna presso il Vecchio Son, la storica sala prove/sala concerti di Steno dei Nabat. A presenziare la serata assieme al gruppo di casa ci saranno gli abruzzesi Startoday, prossimi ad entrare in studio per un nuovo Ep e i giovani bolognesi Head On Collision! Se vivete a bologna non potete perdere l’occasione di fare due stage diving con dell’ottimo punk/hardcore nostrano!

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Ektomorf – The Acoustic

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Non c’è che dire, gli Ektomorf ci sanno fare in tutto e per tutto, è un gruppo di un certo livello e lo dimostrano con questa nuova faccia indirizzata sull’acustico. Chiaramente questo loro disco intitolato “The Acoustic” è per l’appunto un lavoro che racchiude tutti i singoli del gruppo in versione acustica anche se troviamo in un modo o nell’altro quel retrò heavy, pezzi che già di loro erano interessanti, ma che riproposti cosi fanno venire ancor di più la voglia di ascoltarli.

Già la prima traccia, “I Know Them”, tratta dal disco “Destroy” pone  una piccola presentazione di questo lavoro acustico, stessa cosa per la successiva “I’m in Hate”. Si arriva però ai vertici con “Folsom Prison Blues”, la migliore del platter per esser sinceri, “Through Your Eyes” e la conclusiva “Who Can I Trust”. Ottima anche la versione di “Simple Man”, leggendaria song dei Lynyrd Skynyrd, proposta dagli Ektomorf i maniera davvero eccellente, se permettete meglio una “Simple Man” degli Ektomorf che una “Sweet Home Alabama” di Kid Rock. Nulla più da dire a riguardo,  “The acoustic” è un buon disco che farà la felicità di tanti, la AFM Records può solo essere contenta del lavoro svolto dagli Ektomorf e della band stessa.

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È morta Whitney Houston

Written by Senza categoria

Una vita privata violentata da alcol e droga, il suo corpo è stato ritrovato ieri 11 Febbraio (ora locale)in una stanza dell’Hilton Hotel di Beverly Hills. La cantante aveva 48 anni, ancora non sono chiare le cause della morte.
Riposa in pace regina del soul.

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“Diamonds Vintage” Santana – Abraxas

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Nell’ultimo atto degli anni 60 i Doors si stavano già defilando verso il tramonto, ancora resistevano i Jefferson Airplane e Grateful Dead a salmodiare lessici politici e funghi allucinogeni, ma tutto sembrava un copione che aveva già ampiamente esaurito il punto di forza, quando poi, come un miraggio reale, arrivò Abraxas e uno strano sole illuminò il rock con un rock mai sentito.

Trentasette minuti primi di spiritualità e carnalità avvolti in passioni latine, afro-cubane, arroventate dallo spasimo lacerante di una Gibson cavalcata da Carlos Santana chitarrista chicano che, con una formazione che resterà nella storia Gregg Rolie tastiere e voce, David Brown basso, Michael Shrieve batteria e Mike Carrabello, Josè Chepito Areas alle percussioni indiavolate, incendiò le gioie inespresse del dopo-Woodstock.
Un mix di cool jazz, blues, rock e musica latina tempestato da ritmiche di congas e timpani scolpito dal tocco chitarristico di Santana; questa era la nuova frontiera che in quegli anni si delineava all’orizzonte, un insieme di stili imparati e forgiati negli anni giovanili passati in Messico. La copertina la dice lunga del periodo psichedelico che si stava vivendo, immagini, volti, panorami tra fede e spiritualità, sensualità,eccessi di droghe, penitenze e suggestioni venivano effigiate per contendere lo spazio intermedio tra realtà e sublime e per dare – soprattutto – una visione optometrica divinatoria alla musica.

Il disco – tralasciando due brani di “servizio” Se a cabo e Incident at Neshabur – prende l’anima e il corpo e ne fa un tutt’uno di meraviglia, e lo si tocca con Singing winds, crying beasts, una specie di voodoo di piano, percussioni e chitarra in crescendo che introduce all’alchimia magica del “passetto famoso” di Black magic woman, canzone scritta e scartata da Peter Green dei Fleetwood Mac e che il combo Santana innalzò a monumento di note; un’altra cover fa bollire l’album, il celeberrimo latin jazz di Oye como va di Tito Puente.
Tremendi i due pezzi che si riappropriano del rock Hope you’re feeling better e Mother’s daughter che vedono la firma di Gregg Rolie e poi l’unico pezzo vergato da Santana, Samba pa ti, la canzone più suonata al mondo, con quegli assolo di chitarra sofferti che sono diventati classici e materia di studio per ogni chitarrista a venire.
Suggella lo spirito bestiale di Abraxas El nicoya, un atavico e pazzo combustibile tribale di percussioni e chitarra acustica che strappa il cuore come un sacrificale rito Azteco.

E’ un disco che è rimasto in cielo come una stella, un punto cardinale inaudito che ha fatto smarrire la strada maestra a molti, e a molti l’ha fatta ritrovare, dopo un vuoto girovagare tra le macerie lasciate dal “sogno floreale”.

Traks:
Singing winds, crying beasts
Black magic woman/Gipsy Queen
Oye como va
Incident at Neshabur
Se a cabo
Mother’s daughter
Samba pa ti
Hope you’re feeling better
El nicoya

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Farmer Sea – A Safe Place

Written by Recensioni

Non riesco proprio a capire come si possa non apprezzare questo “A Safe Place” criticandone la scarsa originalità, la ricerca di strade sicure, la riproposizione di qualcosa già sentito. Per prima cosa vorrei sapere cosa avete ascoltato di cosi originale prodotto in Italia negli ultimi dodici mesi. Fatemelo sapere perché forse in tanti ce la siamo persa questa band tanto innovativa. Anzi, facciamo cosi. Rendo la cosa più facile. Usciamo dai confini della penisola (camionisti permettendo). Ditemi anche una band straniera che ci abbia regalato una musica apprezzabile e mai ascoltata prima.

Forse qualche nome potrei farlo anch’io (James Blake?) ma in fondo non saremmo proprio davanti ad una rivoluzione vera. Cerchiamo quindi di non prendere questa storia dell’originalità come un’ossessione. Copiare non va bene; annoiare non va bene. Fare un disco cosi bello va bene, porca troia. Magari ce ne fossero di più di band cosi poco originali e cosi belle dalle nostre parti. Facciamo cosi. Ogni tanto bruciamoci il cervello e lasciamolo da parte (non correte a prendere la bottiglia di vodka che avete nascosto in camera, era solo una metafora. Ogni scusa è buona…). Scrivere una recensione non significa sempre giudicare o dissezionare nota per nota o fare pubblicità (buona o cattiva che sia). A volte è solo un tentativo mal riuscito di esprimere a parole le emozioni che la musica scalda fino a farle bruciare nel nostro cuore. A volte è solo esprimere a parole quello che le parole non possono esprimere.

“A Safe Place” esce a tre anni di distanza da “Low Fidelity in Relationships” ed è interamente prodotto e registrato dal gruppo (la Dead End Street è proprio l’etichetta della band). Come dire: “Il pallone è mio e ci faccio quel cazzo che mi pare”. Le fonti d’ispirazione dei quattro piemontesi sono, a detta loro, R.E.M., Wilco e Arcade Fire. Come vedremo e ascolteremo però, il sound sembra inserirsi in un filone leggermente diverso. I Farmer Sea nascono a Torino nel 2004 e subito si danno da fare con gli Ep “Where People Get Lost and Stars Collide” e “Helsinki Under the Great  Snow”. Il primo sopra citato album esce a cinque anni dal parto ed è prodotto da Borgna (Perturbazione, Zen Circus, Settlefish, Crash of Rhinos). Oltre alle innumerevoli apparizioni dal vivo (Heineken Jammin Festival, MiAmi, tanto per citarne alcune), il loro video “Teenage Love” gironzola per le viuzze di MTV Brand New e Deejay Tv. Nel 2012 è la volta di “A Safe Place” e le promesse fatte negli anni sono tutte mantenute. Un album di una bellezza disarmante già dalla copertina che come una petite madeleine risveglia infiniti ricordi siano essi personali momenti di tanti anni fa o lacrime perdute o il giorno in cui avete avuto tra le mani per la prima volta Spiderland degli Slint (a loro ho pensato quando ho visto quei ragazzi in mezzo al lago).  La musica che racchiude è un elogio all’estetica, con la paura (tema portante dell’opera) come fondale emotivo. Il brano d’apertura “The Fear” è tra i più belli in assoluto e riassume interamente il sound della band. Un Pop semplice, con un ritmo fresco e una melodia orecchiabile. Note che salgono al cielo in punta di piedi ricordando per armonie e delicatezza più i Death Cab For Cutie (probabilmente la band a loro più vicina) che appunto gli Arcade Fire, estremamente più complessi e ricercati. Le note iniziali di “To the Sun” vi ricorderanno un altro inizio eccellente (suggerimento: pensate ai Pavement meno lo-fi) e vi trascineranno in un ritmo meno introspettivo e ancor più rassicurante dell’iniziale brano d’apertura. Schitarrate Jangle e ritornello perfetto che vi regaleranno attimi di felicità. Quel Pop che ci piace tanto e che, negli ultimi anni, sembrava poter essere concepito solo nelle terre mica tanto allegre tra Londra e paesi Scandinavi. Pensiamo ai Fanfarlo o a Jens Lekman, in alcuni punti ai Belle & Sebastien per dire ma non dimentichiamoci mai quella sottile vena malinconica che accompagna e caratterizza ogni momento del disco. “Lights” riesce a caricare le atmosfere con le sue ossessioni martellanti senza mai suonare sgradevole ma anzi mantenendo intatta la purezza del suono richiamando il folk di Wilco senza mai farne agnello sacrificale. “Small Revolutions” rappresenta veramente una piccola rivoluzione. Molto piccola a dire il vero. Il ritmo si fa più incalzante e il basso corre come se gli Strokes avessero deciso di darsi una mezza calmata, mettersi il costume e volare in California alla ricerca della felicità. A metà album troviamo “The Green Bed”, forse l’unico pezzo non troppo riuscito o meglio meno facile da inserire tra gli altri brani e soprattutto “Nothing Ever Happened” in cui la formula mista di pop nordico stile Billie the Vision & The Dancers e Cats on Fire e folk pulito, si amalgama senza sbavature agli arrangiamenti sempre perfetti e alle incursioni di strumenti meno banali del solito (nel disco troviamo incastonature mai azzardate ma sempre leggere, di tastiere, organo, xilofono e sequenzer).

“Number 7” allarga il sound dei Farmer Sea come un’“elettronica rinascita” mostrandoci una botola dalla quale esce lieve l’odore di un Post-Rock scuola Mogwai (pensate a The Sun Smells Too Loud) e prepara la strada a uno dei pezzi più belli, “Summer Always Comes Too Late For Us”. Un vorticoso e ripetitivo lento viaggio psichedelico verso le stelle tra schitarrate stile Girls che appena appena ci accarezzano e parole che come flebili sussurri sembrano echeggiare da un luogo lontano ripetendosi ossessivamente come a volerci tranquillizzare a dispetto di quello che è il loro puro significato letterale.  Momenti che vorresti non finissero mai.  E che dopo sei minuti, finiscono. “Disappearing Season” è forse il pezzo che più richiama i pluricitati canadesi ed è anche quello che ricalca maggiormente la forma canzone per eccellenza fatta d’intro-ritornello-ecc… Aggiunge poco a questo “A Safe Place” ma mantiene costante la voglia di ascoltare. Ultimo brano, “For Too Long”, il mio preferito, prende tutti i punti di forza del disco e li chiude in un fazzoletto. Ritmi lenti e ripetitivi, voce carica di empatia scuola Red House Painters, psichedelica appena accennata a la Girls, musica melodiosa, densa di spleen, affascinante, triste ma non angosciante come abbiamo imparato ad apprezzare dai Death Cab For Cutie.  Una perla di amarezza mista ad amenità e leggiadria. Una pioggia di parole flebili e note appassionate. Un sole dall’odore intenso.  A Safe Place. Chiudo con una frase di una banalità da galera. Tanto, chi le legge le recensioni fino alla fine. Se non fosse stata una band italiana a realizzare questo disco….!?

P.s. Se non gli date un ascolto, vi meritate Giovanni Allevi che accompagna Fabri Fibra che duetta con Albano a SanRemo presentato da Facchinetti, tutta la vita!

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Anais Mitchell – Young man in America

Written by Recensioni

Amata, odiata, abiurata e bramata, non c’è una pace intellettualmente ferma quando si pronuncia il nome di Anais Mitchell, questa “anomala” folksinger e chitarrista americana che nello stretto giro di tempo – e a dispetto di tanti –  è diventata una ragguardevole icona alternativa, un approdo stilistico a confine tra “indipendenza” e pads roots che colpiscono l’orecchio come del resto la sua voce libidosamente sgrammaticata, off, da gattina selvatica.
L’artista del Vermont nuota nella scia venosa della grande Ani DiFranco, pienamente a suo agio nel ridisegnare in maniera estemporanea i tormenti agrodolci di folk, blues, jazz e country e degli inconfessabili traditionals,  e con questo nuovo “Young man in America” – il sesto della sua giovane carriera – torna a calpestare di poesia mai angolare, le terre imbattute e ancora selvagge della provincia americana dal profondo pathos acrilico; cacciatrice di sogni, demoni, deliri evanescenti, amori e amanti, dolori e panacee di intimità, la Mitchell idealmente non si è mai spostata dalla sua dolce infanzia passata in quella fattoria di legno, ma è cresciuta nella realtà, nella musica e nelle suggestioni pulite e terse come una “vergine” d’altri tempi, tra vento e tramonti.

Molto considerata nel giro del folk alternativo anche dopo una serie di strike discografici – non ultimo il gran successo del precedente Hadestown – il suo modo di suonare e cantare di cieli ed inferni in terra è esemplare, bello e accattivante, potrebbe benissimo sostituire Hope Sandoval negli Opal o coabitare nei lucidi svolazzi dei Mazzy Star, un disco che addensa una personalità splendida anche quando è inscatolato e filtrato dalle macchine “murderer” di “Wilderland” e “You are forgiven”, due brividi su brividi che fanno corrugare la pelle dell’intero corpo; e se poi ci si vuole postare sulle altimetrie della tracklist, con l’ammasso divino di torch songs e ragnatele d’accordi di chitarra ed espressioni looner assorbe totalmente la fisicità dell’ascolto, la vulnerabilità accorata della titletrack, l’intensità di un pianoforte a muro nelle metriche rurali “Coming down”, la dolciastra visione di una Sausalito a  pochi metri dal naso “Venus” o le impressioni di aver lasciato qualcosa indietro nella vita “He did”, “Tailor”,  la botta in testa è garantita, special modo per chi ha dentro l’anima una pelle delicata.

Undici canzoni di rimpianto e rinascita, undici sguardi altrove che confermano una scrittura emozionale e trasmissiva perfettamente in logica con le verità che vengono dal profondo dello scafandro chiamato a volte cuore, scafandro che questa dolce gattina del Vermont scardina e che –  come nella finale “Ships” –  una volta che tutte le storie sono fuoriuscite le affida al mare della struggenza melodica, del suo essere placido ricordo.
Anais Mitchell è una alt-diva senza saperlo.

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LE BELLE COSE è il singolo di lancio del nuovo esperimento non discografico dei SIKITIKIS

Written by Senza categoria

Dopo le esperienze con Casasonica e Sugar (alla quale sono attualmente legati), ecco per la band cagliaritana un disco che non c’è, ma che man mano prenderà forma attraverso la rete

“LE BELLE COSE” – Official Video
http://www.youtube.com/watch?v=ZpeCRs5ta20&feature=player_embedded#!

Le Belle cose è un’esternazione naif. E’ l’idea di un bambino che viene dopo due punti e la scritta “pensierino”.
Le belle cose fanno incontrare idealmente mondi musicali in apparenza lontani: Celentano con i Gorillaz, Bennato con Beck… e chissà quante altre cose di cui non ci siamo nemmeno accorti.
Diablo: “un giorno ho letto il post di una mia amica su facebook e l’ho commentato. Successivamente ho riletto il commento e ne ho intuito la musicalità. Quel commento, paro paro, è diventato il testo de Le Belle Cose.”

Questo progetto è la sublimazione del fare di necessità virtù. Nasce da dei freddissimi dati. Dischi fuori moda è un disco che ha avuto un ottimo feedback, ma ha venduto una copia ogni 500 click dei sui video su Youtube.
In pratica, la rete si è rivelata come la terra in cui il seme dei Sikitikis ha attecchito spontaneamente.
A questo punto, ci siamo detti: “saltiamo tutti i passaggi, ci conviene…”
Ed ecco, quindi, Le Belle Cose. Un progetto interamente basato sull’interazione nel (e fra) social network.
Ci chiedono spesso se da tutto questo arriverà anche un supporto fisico. La risposta a questa domanda è impossibile da dare in questa fase. Le Belle Cose sono tutte in divenire.

I SIKITIKIS Si formano nel 2000 con l’intento di rivisitare le colonne sonore dei b-movies italiani degli anni ’70. I primi anni sono caratterizzati da poche uscite live e molto lavoro di ricerca sul suono. La musica da cinema si rivela un ottimo laboratorio in cui sperimentare nuove soluzioni di arrangiamento in una formazione che non prevede l’uso della chitarra. Dal 2002, il lavoro fatto in sala dal gruppo, inizia a rendersi utile all’interno di strutture rock e pop, il basso viene distorto e, insieme agli organi vanno ad occupare le frequenze lasciate libere dalle chitarre, il druming diventa più incisivo e le tastiere mantengono la loro connotazione analogica. L ‘attività della band viene intanto seguita a distanza da Max Casacci. Il chitarrista/produttore dei Subsonica è infatti il primo ad intravedere un potenziale nei Sikitikis. E’ ormai il 2004 quando i 4 cagliaritani iniziano la loro esperienza torinese negli studi di Casasonica.
Nel 2005 prende vita il loro esordio discografico “Fuga dal deserto del Tiki”, premiato lo stesso anno come uno dei migliori al MEI di Faenza. Segue un tour di 80 date in tutta Italia. Parallelamente i Siki iniziano a confrontarsi con le prime sonorizzazioni di immagini dal vivo, attività che li porta sul palco dell’Ambra Jovinelli di Roma dove sono invitati, come unici ospiti musicali, ad omaggiare Gianmaria Volontè a 10 anni dalla sua scomparsa. E’ il 2006.
L’anno successivo è tempo di rientrare in studio e nel 2008, dopo una lunga gestazione, nasce “B”.
I’uscita del secondo lavoro discografico coincide con la chiusura delle attività dell’etichetta torinese. Il gruppo attraversa un momento difficile e si concentra sul rapporto con il cinema. Dopo aver composto la prima colonna sonora integrale per il film “Jimmy della Collina” di Enrico Pau e altre colonne sonore per cortometraggi indipendenti, i Sikitikis realizzano la cover di “Cuore Matto” per il forunato esordio cinematografico di Susanna Nicchiarelli “Cosmonauta”. Il film vincerà, nel 2009, il Festival di Venezia nella sezione controcampo italiano.
Nello stesso anno la band incontra Manuele Fusaroli, produttore/guru della scena indipendente. Si chiude un momento difficile, nascono nuovi entusiasmi e la scrittura si fa sempre più solare, i testi si confrontano con sempre più maturità ad una certa tradizione del cantautorato italiano.
Dopo diverse sessioni di registrazione del nuovo materiale presso il Natural Head Quarter di Fusaroli, nel 2010 esce “Dischi Fuori Moda” Il disco è fortunato. Critica e pubblico accolgono ottimamente il lavoro della band che si ritrova ad avere tre singoli nella top10 della classifica Indie Music Like di RAI-isoradio. I video di “Voglio dormire con te” e “Tsunami” passano in alta rotazione su Deejay TV e i contenuti su Youtube superano il mezzo milione di visualizzazioni.
Il lavoro desta l’attenzione della più importante casa discografica italiana: Caterina Caselli. Nel 2011 firmano un contratto editoriale con la SUGAR. I Sikitikis sono oggi una realtà concreta del panorama musicale nazionale.

SIKITIKIS – Official Site
http://www.sikitikis.com/

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Cardinal – Hymns

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Lasciare trascorrere diciassette anni senza registrare più un disco deve essere stata dura per il duo dei CardinalEric Matthews e Richard  Davies – e risentirli girovagare dopo tutto questo tempo tiranno  – onestamente ce n’eravamo dimenticati –  con il secondo lavoro della loro esistenza “Hymns” possiamo credere che l’astinenza sia imputabile più ad uno scarso mordente d’interesse che ad una scelta “riflessiva”, tuttavia pur non avendo spostato minimamente l’asse del loro suono ci si trova davanti ad un disco soddisfacente, ben guarnito di trombe, bagnasciuga westcoastiani, REM, ed il Pet Sound  dei “ragazzi da spiaggia”, nulla che certamente  faccia gridare al miracolo, ma un tranquillo ¾ d’ora, quello si, lo si passa in tranquillità cullati da virtuali solleoni e radioline a pile svocianti.

Disco di colore, che diverte senza fanfaronate, semplice e giulivo come un qualsiasi disco da spiaggia che arriva per allungare i pomeriggi estivi, dieci tracce che faranno il piacere di fan dell’greatest hit a tutti i costi, o se vogliamo dire anche un registrato del quale non si butta via niente, si prende, si carica nello stereo e si lascia libero di emanare il suo tenero complemento d’arredo sonoro senza pretese; chitarre oneste, spesso in tremolo, ballate a trentaduedenti bianchissimi BeatlesianiNorthern soul”, “Her”,  spinette d’altri tempi che si inseriscono come un sogno MozartianoSurviving Paris (Instrumental)”, i Go Between che agitano delicatamente i cerchi di “Radio Birdman” e la quintessenza Wilsoniana che fa buffetti e capriole tra un tucul di paglia e una bibita analcolica rinfrescante sulla spiaggia bianca di “Rosemary Livingston”, ed il risultato è una parata di canzoncine che scorrono l’una nell’altra che rallegrano senza stupire.

Certo il suono dei Cardinal ed il modo di crearlo non concede nessuna variazione, ma se siamo di buone pretese e di bocca buona, non ci resta che farci “travolgere” dalla sua dichiarata innocua traiettoria.

 

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7 Days Training – In a Safe Place

Written by Recensioni

E’ inutile fare gli artisti maledetti, che vivono di puro istinto. Quelli che si svegliano la notte per scrivere e iniettano litri di caffeina nelle vene, oppure si portano il taccuino sporco di sugo al parco per essere ispirati dalla natura. Io credo che la maggior parte degli scrittori (e per scrittori intendo sia poeti ermetici che giornalisti sportivi) abbia un proprio metodo di lavoro. Io per altro non mi sento neanche troppo tutelato a trovare il mio, dato che faccio lo scrittore come l’impiegato della San Paolo gioca al calcetto coi colleghi il mercoledì sera.
In ogni caso prima di attaccare a scrivere una nuova recensione, vado a pescare informazioni sullo “stile di vita” del gruppo che mi capita tra le mani. Forse per pura curiosità o per deformazione professionale. Avendo una band da tanti anni e conoscendo un sacco di musicisti, provo una sorta di attrazione magnetica in tutti gli appassionati di “suono”.
L’impatto con la band in questione, ovvero 7 Days Training di Frosinone, è stata al dir poco folgorante. Riporterò quindi qui sotto le parole introduttive al loro sito:

Questa band nasce da molto lontano, ma siamo degli inguaribili fatalisti, e in qualche modo ci siamo convinti che avremmo continuato a fare musica insieme così come è sempre stato, e magari anche a far uscire un disco.
Anche se siamo solo in quattro, riusciamo a mettere assieme quasi centotrentacinque anni, ma dicono che non ci sono date di scadenza per il rock ‘n’ roll, e allora continuiamo a far finta di niente.

Questo è il nostro nuovo sito web ricostruito per l’occasione: il 5 aprile è uscito il nostro primo disco, che reca un titolo celebrativo, emblematico, ed “autoesplicativo” (In a safe place) ed è, tra le tante cose, anche un buon motivo per continuare a volerci bene e a riservarci il bicchiere della staffa da condividere quando fuori fa freddo.
E quando il rock è un buon motivo per volersi bene, hai vinto. Chissenefrega se il disco suona molle, se non decolla mai, se la canzone migliore “Beautiful Bleeding” presenta una voce a dir poco traballante, se c’è il timbro sbiadito dei R.E.M. più depressi e dei Radiohead più vivaci, se non hai più il fisico per fare il coglione sul palco e per spacciartela dopo con un bel gin lemon in mano, se non c’è grande personalità nel tuo progetto. Hai vinto il premio più ambito. Nulla ti puo’ sconfiggere, neanche una recensione come questa ti puo’ piegare.
Si perchè nel mio mondo delle favole questo disco sarebbe una bomba: 4 amici che si chiudono in studio dopo tante vicissitudini e tirano fuori il loro capolavoro, un po’ introspettivo e cupo ma viscerale, compatto, denso.

Ma il mio mondo delle favole vorrebbe anche l’uscita di un disco come “Rubber Soul” nel 2012. Infatti in “In a safe place” purtroppo è tutto solo una forte intenzione, un treno di passione che lentamente si va ad arenare contro una muraglia. Le canzoni non esplodono e non si creano mai le tensioni e le atmosfere magiche degne dei maestri moderni di indie-rock.
Poco male, io brindo a un gruppo così. Condividerei con loro proprio un bel bicchiere che fuori oggi fa molto freddo.

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TEODASIA: “UPWARDS” NEI NEGOZI A PARTIRE DAL 30 MARZO 2012

Written by Senza categoria

Upwards, il disco d’esordio dei Teodasia, sarà ufficialmente disponibile nei negozi a partire dal 30 Marzo
2012. La band veneta, seguendo la tradizione di famose realtà nordeuropee (Nightwish,Epica, ReVamp) e
consolidati nomi italiani (Elvenking, Raphsody of Fire), sta riscuotendo grande interesse nonostante non
abbia ancora ufficialmente rilasciato alcun lavoro. La musica dei Teodasia è sicuramente epica. Un’epopea
dal sapore nordico, fatta di chiari e scuri, arrichita da inserti sinfonici e incattivita da una sezione ritmica che
non fa sconti. La voce di Priscilla, guida l’ascoltatore attraverso un cammino di luce, un pellegrinaggio che
deve, per forza, puntare verso l’alto, verso un ascensione quasi mistica che si riflette nel deciso dispiegarsi
del disco.
“Upwards” sarà disponibile in tutti i negozi a partire dal 30 Marzo 2012, distribuito da Audioglobe. Per chi non
volesse aspettare, sul sito della band www.teodasia.com è già possibile ascoltare un’anteprima di tutto il
disco e soprattutto il primo brano “LOST WORDS OF FORGIVENESS”.
Sito ufficiale: www.teodasia.com
Facebook: www.facebook.com/teodasia
Twitter: www.twitter.com/teodasia
Reverbnation: http://www.reverbnation.com/teodasiaofficial

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