Anais Mitchell – Young man in America

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Amata, odiata, abiurata e bramata, non c’è una pace intellettualmente ferma quando si pronuncia il nome di Anais Mitchell, questa “anomala” folksinger e chitarrista americana che nello stretto giro di tempo – e a dispetto di tanti –  è diventata una ragguardevole icona alternativa, un approdo stilistico a confine tra “indipendenza” e pads roots che colpiscono l’orecchio come del resto la sua voce libidosamente sgrammaticata, off, da gattina selvatica.
L’artista del Vermont nuota nella scia venosa della grande Ani DiFranco, pienamente a suo agio nel ridisegnare in maniera estemporanea i tormenti agrodolci di folk, blues, jazz e country e degli inconfessabili traditionals,  e con questo nuovo “Young man in America” – il sesto della sua giovane carriera – torna a calpestare di poesia mai angolare, le terre imbattute e ancora selvagge della provincia americana dal profondo pathos acrilico; cacciatrice di sogni, demoni, deliri evanescenti, amori e amanti, dolori e panacee di intimità, la Mitchell idealmente non si è mai spostata dalla sua dolce infanzia passata in quella fattoria di legno, ma è cresciuta nella realtà, nella musica e nelle suggestioni pulite e terse come una “vergine” d’altri tempi, tra vento e tramonti.

Molto considerata nel giro del folk alternativo anche dopo una serie di strike discografici – non ultimo il gran successo del precedente Hadestown – il suo modo di suonare e cantare di cieli ed inferni in terra è esemplare, bello e accattivante, potrebbe benissimo sostituire Hope Sandoval negli Opal o coabitare nei lucidi svolazzi dei Mazzy Star, un disco che addensa una personalità splendida anche quando è inscatolato e filtrato dalle macchine “murderer” di “Wilderland” e “You are forgiven”, due brividi su brividi che fanno corrugare la pelle dell’intero corpo; e se poi ci si vuole postare sulle altimetrie della tracklist, con l’ammasso divino di torch songs e ragnatele d’accordi di chitarra ed espressioni looner assorbe totalmente la fisicità dell’ascolto, la vulnerabilità accorata della titletrack, l’intensità di un pianoforte a muro nelle metriche rurali “Coming down”, la dolciastra visione di una Sausalito a  pochi metri dal naso “Venus” o le impressioni di aver lasciato qualcosa indietro nella vita “He did”, “Tailor”,  la botta in testa è garantita, special modo per chi ha dentro l’anima una pelle delicata.

Undici canzoni di rimpianto e rinascita, undici sguardi altrove che confermano una scrittura emozionale e trasmissiva perfettamente in logica con le verità che vengono dal profondo dello scafandro chiamato a volte cuore, scafandro che questa dolce gattina del Vermont scardina e che –  come nella finale “Ships” –  una volta che tutte le storie sono fuoriuscite le affida al mare della struggenza melodica, del suo essere placido ricordo.
Anais Mitchell è una alt-diva senza saperlo.

Last modified: 12 Febbraio 2012

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