Tim Hecker – Love Streams

Written by Recensioni

Un’amorevole e malinconica riflessione sulla condizione umana di un artista che si rinnova senza snaturarsi.
[ 08.04.2016 | 4AD | ambient, sperimentale ]

Scultore del suono, autore negli ultimi 15 anni di una serie di grandi dischi, Tim Hecker torna con questo Love Streams che segna il passaggio in casa 4AD, una delle novità riservateci dall’artista canadese. L’altra, come ormai tutti sapranno, è l’uso, per la prima volta, dell’elemento vocale (immerso in strutture molto più sintetiche di quelle fin qui costruite dal Nostro).

La grande ammirazione di Tim Hecker per Josquin Desprez, compositore del 15° secolo famoso per le sue messe ed i suoi cori polifonici, ha portato il canadese a convertire (con la collaborazione di Kara-Lis Coverdale) parte di queste composizioni adattandole alla propria estetica, questi adattamenti sono poi stati consegnati ad un certo Johann Johannsson (vincitore lo scorso anno di un Golden Globe come miglior colonna sonora per il film “La Teoria del Tutto”) che ha prima guidato e poi manipolato l’Icelandic Choir Enesemble nelle parti cantate che incontreremo durante l’ascolto.

È dunque un Tim Hecker che continua a rinnovarsi, muovendosi nel tempo e nello spazio, con un disco che darà il suo meglio proprio nei passaggi contenenti gli interventi del coro islandese. In Music in the Air le voci, sempre manipolate magistralmente ed ottimamente incorporate nelle strutture che le accompagnano, si muovono misteriosamente ed in modo religioso fluttuando sopra un morbido tappeto sintetico qua e la scosso da qualche piccolo sobbalzo rumoristico. In Violet Monumental I, più scura e inquietante, i loop vocali si fanno più convulsi e alieni creando una certa suspense, anche qui il tappeto sonoro risulta morbido muovendosi poco e sinistramente, a tratti palpita percussivamente o rumoreggia nell’amalgama con le voci.

Nell’intensa e glaciale Castrati Stack il coro si fa più sacrale tra belle aperture drone, intermittenze e synth che finiscono con l’assorbire tutto per portarci all’avvolgente Voice Crack, dove angelico vola su chitarre glitch, synth e clavicembalo che vanno a costruire una contrastante soluzione ambientale. Nella conclusiva Black Phase le voci del coro islandese pur risultando ancora arrangiate in modo etereo danno un esito diverso, una sensazione più forte di disperazione come di severità riuscendo così ad offrire non solo anima ma anche ulteriore corpo al lavoro distorto e minaccioso dei feedback chitarristici, dell’organo e dei synth.

Alle strutture impregnate di religiosità con risultati talvolta veramente suggestivi e capaci di mettere l’ascoltatore in contatto con le proprie profondità degli episodi in cui è presente il coro fanno da contraltare movimenti per macchine e strumenti che non sempre realizzano a pieno il loro potenziale o che risultano fin troppo frammentati e “lopatinizzati” (Bijie Dream e Live Leak Instrumental).

Il disco è sì coinvolgente, magistralmente sfocato (come la copertina ben descrive), celestiale, malinconico, come tutti i lavori del Nostro possiede una propria emotività ma risulta nel complesso meno incisivo di quanto ci si possa attendere da Hecker. È come se questa tavolozza sonora più ricca e aperta e capace di donare questo spazio così esteso per muovere l’esplorazione finisca per essere fin troppo ampia andando talvolta a nuocere sul flusso dell’opera. In ogni caso questa amorevole e malinconica riflessione sulla condizione umana ha dei grandi picchi d’intensità e narcotica, allucinata, umana e ultraterrena ci mostra un Tim Hecker che rinnovandosi senza snaturarsi (con buona pace di chi vedeva nel passaggio in 4AD la vendita dell’anima al diavolo) si tuffa definitivamente nell’infinito facendoci sin d’ora aspettare con grande curiosità il suo prossimo passo.

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Last modified: 26 Aprile 2020

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