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King Suffy Generator – The Fifth State

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Dopo il Quarto Stato arriva il Quinto. I King Suffy Generator, ispirati dalle opere del pittore e scultore Giorgio Da Valeggia, ne fanno un concept-album, strumentale, sul processo che ha portato l’uomo ad essere vittima della stessa società che aveva in passato cercato di cambiare. Da forza motrice a ingranaggio muto.

Il disco si apre con “Derailed Dreams”, tra chitarre e basso pulsanti, melodie imprevedibili, ritmiche ossessive, fino all’apertura del finale. Si prosegue con “Short Term Vision”, dalle parti dei God Is An Astronaut più intensi, o come una versione meno graffiante dei Kubark: arpeggi circolari, pulsazioni zoppicanti e atmosfere ariose, con in coda un finale perfetto, che s’inchioda nella mente con sorprendente facilità. “Rough Souls”, basata su appoggi di synth su sfondo noise, è nient’altro che una decompressione intermedia che ci porta a “Relieve The Burden”, acida e pungente, dove le chitarre predominano, alte e frizzanti, a scalare su e giù per la tastiera in riff inquieti, infestanti, e inserti ruvidi – la lezione della Psichedelia sixties viene assimilata e rielaborata attraverso il prisma del Post-Rock anni 90. Col piede si tiene il ritmo, con la testa si viaggia lontano. Il finale viene lasciato ad una coda di pianoforte e voci distanti: una nota malinconica prima dell’uno-due finale.

“We Used to Talk About Emancipation” parte con un solido impianto ritmico, furioso e asimmetrico, e finisce riprendendo l’atmosfera, incattivendola, della chiusura di “Short Term Vision”, in un corto-circuito che provoca un interessante deja vù;mentre “Tomorrow We Shall See” mantiene alta la carica energetica degli ultimi due brani e la porta in situazioni ritmiche prima ondeggianti poi martellanti, con le distorsioni delle chitarre che premono contro basso e batteria, aprendosi qua e là in scoppi o distensioni improvvise che spezzano la continuità del brano, facendolo diventare una piacevole corsa ad ostacoli che non perde però in naturalezza. Verso la fine si rallenta e si prende un bel respiro: la sensazione è quella della camminata gonfia d’ossigeno dopo lo scatto feroce per arrivare al traguardo. The Fifth State è un ottimo album di musica strumentale: Post-Rock energico, abbastanza orecchiabile, psichedelico, atmosferico. Ai King Suffy Generator manca solo qualcosa che possa rendere più personale la loro opera. Detto questo, il disco ha senza dubbio tutte le carte in regola per poterlo consigliare, senza scrupolo alcuno, a tutti gli amanti del genere.

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Good Morning Finch – Cosmonaut

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Aria timida fuori dalla finestra, il cielo che sembra gettare a forza su di noi i suoi rantoli, spuntando fuori i polmoni per soffiare l’ultimo vento caldo. E in un panorama così apparentemente banale abbino casualmente il romanzo che in un’estate troppo movimentata non sono riuscito a finire e un disco da recensire, pescato dagli arretrati di questo frenetico anno.

Murakami “Kafka Sulla Spiaggia” incontra i Good Morning Finch, band siciliana attiva dal 2010 che abbatte dalle prime note tutte le barriere spazio-temporali. Le visioni oniriche e magiche dei personaggi del romanzo si mischiano alla perfezione ai delay, alle poche chitarre ben incastrate tra beat carnali (questo è un album suonato e si sente) e ritmiche soffici. Sensazioni di calma, ma anche di angoscia e di tremenda lentezza e imprevedibilità invadono l’atmosfera. La dinamica non esplode mai, anche quando potrebbe permettersi più violenza come in “Last Rocket From Moskow to Neptune” è tenuta volutamente soffusa, calibrata quasi alla perfezione. Non ci abbandona l’alone di mistero e la sensazione di stare a mezz’aria pur avendo ben cosciente ed impresso il ricordo del nostro mondo terreno. Pink Floyd e Sigur Ròs trovano un facile accordo e mischiano le loro deviazioni. I Good Morning Finch però tralasciano spesso le efficaci venature pop. Qui nulla è cantato, anche la poca voce presente è un incredibile veicolo tra spazio e terra.Ci sentiamo astronauti più vicini alle stelle ma mai troppo distanti dal suolo. Non lo perdiamo mai di vista, lo osserviamo attentamente per vivere più intensamente il sogno. Proprio come in Murakami, dove mai perdiamo la sensazione del tatto. Anche quando si parla di fantasmi perduti nello spazio in “Alexis Graciov is Gone” (Alexis Graciov è un cosmonauta che pare essere scomparso nel 1960 in una missione spaziale russa, leggenda o complotto?) la chitarra acustica ci riporta in una spiaggia con un falò, resa surreale da una voce femminile lontana, che echeggia tra le onde.

Qualcosa combina romanzo e disco in uno strepitoso vortice in cui le sensazioni visive, le parole e le note si combinano chimicamente. Conoscendo i miei gusti questo EP (sebbene prodotto al meglio) non si sarebbe mai insediato nelle mie orecchie in assenza di “Kafka Sulla Spiaggia” e dei suoi bizzarri soggetti. Fatemi pensare che sia nulla più che una piacevole coincidenza.

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Nuovo album per Alessio Premoli

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Uscirà in autunno il nuovo disco di Alessio Premoli, Even silence has gone. Il disco, a cavallo tra sonorità acustiche folk e musica ambient d’ispirazione post-rock, si avvale della collaborazione di Riccardo Feroce all’oboe, Ludovica Pirillo alle percussioni, Luca Cirio e Federico Cavaliere alle voci. Presto verranno comunicati tutti i dettagli su data di uscita e reperibilità dell’album.

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Live Footage – Doyers

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Un album imponente. Questo è più di ogni altra cosa il secondo lavoro del duo di Brooklyn Topu Lyo (cello, sampler) e Mike Thies (drums, keyboards). A distanza di tre anni dal buonissimo esordio di Willow Be, tirano fuori un’opera costruita su ben diciassette tracce, rigorosamente strumentali, per la durata limite di quasi settanta minuti. Un disco che vi permetterà di godere pienamente del loro estro e vi giustificherà le parole di una certa critica che li pone tra i migliori compositori di colonne sonore surreali in circolazione. Corde ed elettronica, batteria e tastiere, realtà e sogno si mescolano alla perfezione per creare una suggestione sonica indimenticabile, resa ancor più umana dall’aspetto dell’improvvisazione esecutiva.

“L’assenza di limitazioni è nemica dell’arte”. Parte da quest’aforisma di Orson Welles il duo statunitense per mettersi a realizzare Doyers. Sono queste parole del genio della regia (ma non esclusivamente) che fanno da mantra al lavoro dei Live Footage, durante le registrazioni e la creazione delle diciassette (numero che in terra di Obama non genera gli stessi gesti scaramantici) gemme in questione.
Le limitazioni amiche dell’arte, in questo caso, possono essere tante e riferite a una miriade di diverse questioni tecniche, creative e non solo, ma quelle che saltano più all’orecchio, sono quelle dirette delle note, che sembrano spaziare e volteggiare nell’infinità del cosmo ma in realtà, alla fine dell’ascolto, vi renderete conto essere parte di una precisa galassia, uniforme e delimitata, pur se enorme. Tutto ha limite, anche se nella sua apparente illimitatezza e sta solo nel punto di vista dell’osservatore che tali limiti si rendono in parte visibili.

La musica dei Live Footage passa con disinvoltura da eteree e riverberate atmosfere lisergiche e Psych Rock (“Broklyn Bridge”, “Asian Crane”, “Lucien”) a un sognante Dream Pop più stile Beach House che Sigur Ròs utilizzando spesso le stesse forme del Post Rock mogwaiano, fatto di crescendo continui e muri di chitarre, o dello Slowcore Glitch (“Purgatory (The Storm Has Passed)”, “Broklyn Bridge”). L’ossessione ritmica dell’inizio di “Foresight” anticipa altri punti di vista, tendenti al Jazz e non mancano divagazioni addirittura nei territori della Dub Music (“Mortality”), della Drum’n Bass (“Going Somewhere”, “New Breed”), della musica sudamericana (“Caipirinha”), dell’elettronica di chiara matrice Kraftwerk (“Korean Tea Shoppe”, “Computer is Free”) o anche il Rock alternativo contaminato da ritmiche Funky, ovviamente sempre in combutta con un liquefatto e caldo Ambient (“Secret Cricket Meeting”) o il più fumoso e oscuro Trip Hop (“Ant Colony”). Eccezionali i passaggi più spiccatamente Film Score/Soundtrack (“Just Moving Parts”, “Airport Farewell”) nei quali si rende ancor più palese e chiaro il concetto di surreale applicato all’opera dei Live Footage.
Ovviamente, se ancora non avete ascoltato Doyers, vi starete chiedendo come possa io parlare di limiti ma poi tirare in ballo una quantità di generi musicali sconfinata. Come già vi ho detto, dovete ascoltare per capire. Ogni influenza sembra schizzare qua e là, apparentemente senza controllo ma in realtà, se provate ad allontanare per un secondo l’anima dalle note, noterete che la musica dei Live Footage, si ammorbidisce, quando deve suonare più forte e s’indurisce quando invece mira alla leggiadria. In questo modo, si crea una linea imprecisa che, come il volo d’un uccello, apparirà più armonica, con l’allontanarsi dello sguardo.

Per chiudere, non posso che rinnovarvi le mie promesse. Ascoltate e poi ditemi, basta leggere le mie parole, o impazzire dietro ad esse. Citando Welles, le promesse sono molto più divertenti delle spiegazioni. Quindi, buon divertimento.

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Sigur Rós – Kveikur

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Questa recensione non è assolutamente semplice. Ho dovuto ascoltare Kveikur, l’ultimo disco dei Sigur Rós, uscito praticamente un anno dopo Valtari, almeno sette volte in giorni diversi e momenti diversi, prima di potermi avvicinare al foglio di Word. E ho letto in giro cosa se ne pensasse per capire se ero io che non coglievo certe sfumature o se semplicemente tra i fans e tra gli esperti non ci fosse un po’ di sano servilismo. Come a dire: questi sono dei grandi, non possono che sfornare l’ennesimo capolavoro. “La sferzata Rock degli Islandesi”, “Dopo aver indagato il cielo eccoli che scandagliano l’inferno”. Ne ho lette veramente per ogni colore, ma ancora adesso non riesco a districarmi tra la mole di informazioni raccolta e l’impressione diretta che ne ho io all’ascolto. “Brennisteinn” semplicemente non sembra farina del loro sacco: la struttura è molto più canonica, le singole componenti (e soprattutto la batteria), sembrano prese da un qualsiasi gruppo indie-rock che non si scula nessuno o quasi. Manca quella sensazione di artificio elettronico comandato dall’uomo, quella sacralità di ogni movimento melodico a cui ci hanno abituato con i lavori precedenti. Persino la voce di Jonsi non sembra più la stessa. “Hrafntinna” è semplicemente debole e fortuna che “Ísjaki” e “Yfirborð” sembrano riportarci in un universo sonoro più noto e sicuro, per quanto il ritornello della prima suoni troppo troppo Pop. Anche “Stormur”, non fosse per una tendenza danzereccia che proprio non è da loro, potrebbe essere un bel brano, ma, davvero, sono le percussioni a essere strane in questo disco. E non ci trovo niente di terreno, non sento il tentativo di un’esplorazione del basso, dell’infernale, dell’interno, in contrapposizione ai voli pindarici ed eterei precedenti. Sento una patina Indie-Pop che stride con le mie aspettative. Solo la title-track, “Kveikur”, sembra confermare la lettura di chi sente una virata Rock nel disco. Più industrial, a dire il vero. E anche un industrial piuttosto malato e visionario. “Rafstraumur” è scontata, “Bláþráður” è sintetica, “Var”, invece, è meravigliosa, la prosecuzione ideale dell’ “Ég anda” che apriva Valtari. Ce l’hanno lasciata lì, al fondo, come la promessa di un ritorno, come a dire che questa era una prova, una parentesi, un esperimento e che torneranno. Senza farsi schiacciare dai loro stessi strumenti, senza bisogno di appigli pulsionali e scansioni ritmiche così rigide, senza dare l’impressione di essersi persi nei confini netti di strofa-ritornello.

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A Violet Pine – Girl

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Dal primo all’ultimo pezzo. da “Pathetic” a “Pop Song For Nice People”, l’esordio discografico Girl dei Violet Pine è un mondo totalmente obliquo, da leggere in virtù della libertà espressiva e della bellezza amniotica che porta dentro i suoi panni sonori. Difficilmente da collocare dal punto di vista dei rimandi iconografici – se non per quella vena sottomessa alla Autechre, Mogwai – il disco è un’apnea in ambienti liquidi che hanno la potenza/virtù di creare interazioni differenti, differenti nel calibro e nella trasposizione alternativa per nostalgie e carezze sintetiche.

Siamo su territori da percorrere con l’ausilio sognante di buone cuffie stereo per intraprendere un viaggio in sospensione, un trip emotivo al silicio che non invade e spadroneggia lo spazio cognitivo e dreaming dell’ascoltatore, ma lo guida come un soffio insperato di boria grigio-scura, dieci tracce inafferrabili che descrivono con visione e perizia galleggiante un futuro possibile o  quello che magari vorremmo ma non stiamo vivendo, ovvio da non confondere con quelle traiettorie di musica per uomo-macchina tanto care a Tsukamoto Shinya, anche perché sembrerebbe una sperimentazione al paradosso, ma poi la “creatura” dei nostri A Violet Pine marcia da sola, glissa molte delle appartenenze assai pericolose in questa “cosmica wave satellitare” e tira dritto nel suo girovagare multistrato.

Qui non c’è  e non ci saranno i nomi di futuri composti chimici per musica in provetta, nessun motore di ricerca sonica per i motori di ricerca web 4.0 , ma solo una sana alienazione allucinata che viaggia, scruta, viaggia e delinea, e ancora si mette in contrapposizione o allinea ai giochi di una lamina d’urgenza interiore, alle inevitabili scosse malleabili e di bellezza a fior di aria che nei battiti ancestrali della titletrack, tra gli echi scandaglio di “Even if it Rain”, dietro il brivido spennato e assassino “Family” e la sperimentazione minimalista e senza punto d’appoggio gravitazionale “Fragile” amplia e spalanca un terzo occhio su immense morbosità e demarcazioni delle quali ne abbiamo esigenza per staccarci – anche per un lasso di tempo determinato – dal maledetto magnetismo terrestre.

Grazie del passaggio e al prossimo giro d’atmosfera!

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SouLOfmyShoEs – Montagne EP

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Altri quindici minuti circa in tutto aggiunti al mosaico. Come in una sorta di quadro impressionista, Soulofmyshoes aggiunge, a distanza di un paio di anni, altri piccoli, microscopici contributi al suo mondo musicale. Un progetto solista nato, pensato, creato all’insegna del minimalismo, dall’idea stessa di forma canzone, evanescente e stralunata, alla registrazione e produzione autogestite e degne del più autentico fai da te possibile. Già dalle premesse il genere scelto da Davide, autore del tutto, non può che essere un ovvio Post Rock, Indie come tanti, come milioni di altri in giro per il mondo, quelli della generazione che il Rock ormai è morto e hanno visto tutto e sono già abbastanza stufi di tutto. Tutto tornerebbe, e forse la recensione non varrebbe neanche la pena scriverla, vista l’importanza minimal, la brevità dell’intero progetto etc etc…se non fosse che…se non fosse che la classe non è acqua. E questo ragazzo, con quel paio di musicisti che lo supportano, ne ha da vendere a destra e sinistra.

Montagne riprende il primo Ep dove lo aveva lasciato e sospira lento e intimista con la sua stessa pulsazione. In un quarto d’ora condensa originalità e stile in modo sommesso e, al tempo stesso, sorprende per il gusto nella scelta degli accordi e delle melodie che ricama. Senza urlare a sproposito e con il dovuto senso di proporzionalità avete presente Bad Timing di O’Rourke? Ecco, per capirci è lì che siamo. Quell’aria Post Rock che quando la scopri te ne invaghisci senza neanche accorgertene e quando te ne accorgi te la tieni stretta gelosamente. Quell’idea musicale che ama essere ascoltata meno volte possibile per non distruggere quella sensazione di piacere e sorpresa che fornisce quando si scopre che “la generazione senza più Rock nelle vene” è, seppur a dosi molecolari, in grado di partorire piccole, microscopiche, quasi invisibili gemme.

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Benny Moschini – Sono Qui Ancora

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E’ uscito il 5 aprile scorso il primo singolo dell’atteso album Sono Qui Ancora di Benny Moschini, cantante napoletano classe 1982. Il videoclip che lancia l’omonimo singolo è stato diretto dal videomaker Paolo Bertazza e sta ottenendo un notevole successo di pubblico: le visualizzazioni su Youtube in poco più di un mese sono andate oltre le 260.000. L’album sembra essere la giusta fusione tra Rock made in Italy e il Rock americano, condito con testi profondi e riflessivi.

Moschini è un giovane di talento che ha studiato sin da piccolo pianoforte e canto, ha viaggiato e scoperto nuove terre e nuovi sound che è stato in grado di riportare poi nella sua musica. Ha iniziato come DJ Funky/Soul, ha toccato i lidi della Costa Smeralda, finché è stato notato ed è cominciata la sua carriera come cantante e cantautore. Siamo nel 2010 e le radio indipendenti impazziscono per il suo brano “Rabbia”, che viene riproposto in una nuova versione anche in questo disco.

Oggi è la volta di Sono Qui Ancora, album composto di dodici tracce dallo stile deciso che ci regala canzoni dai testi malinconici, romantici, nostalgici e arrabbiati, che non annoiano mai, grazie anche al sound targato Usa e alla voce tagliente di Benny.
Il disco ha goduto della direzione artistica di Renato Droghetti, che ha collaborato in studio anche con artisti importanti: gli Stadio, Edoardo Bennato e Paolo Meneguzzi,solo per citarne qualcuno.

L’album contiene anche il primo singolo estratto in versione inglese “I’m Here Again” che andrà ad assecondare i desideri dei fan club in Arizona e Canada, ma anche dello stesso cantante. In un’intervista Moschini ha dichiarato che al primo release seguirà la versione in inglese e forse anche in spagnolo.
Benny Moschini sembra essere un cantautore determinato e desideroso di raggiungere un pubblico molto vasto, senza limitarsi al Bel Paese e le premesse qui pare ci siano proprio tutte.

 

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Morfema – Tutto Bene Sulla Terra?

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Sembrerebbe una domanda retorica quella che intitola il primo album dei Morfema: Tutto Bene Sulla Terra? E pensandoci attentamente la risposta sarebbe: non tanto, data la crisi economica, l’inquinamento e la cattiveria umana. Ma la cultura, l’arte e la musica la salvano questa terra così maltrattata, abitata però da ragazzi che suonano, scrivono e girano, come il cantante Stefano Gamba, i chitarristi Virgilio Santonicola e Roberto Cucchi, il bassista Maurizio Nembrini e il batterista Matteo Zorzi che dal 2009 formano i Morfema.
Nel gennaio 2013 esce il loro primo album Tutto Bene Sulla Terra? che a guardare la copertina di sfuggita sembrerebbe tanto un album Hip Hop, per quel ragazzo seduto su un divano in mezzo alla strada con il capo chinato e coperto dal grande cappuccio, in realtà è un lavoro che suona nei suoi sei brani molto Rock, Noise-Pop, Post-Rock ma comunque è una bella grafica in quei colori di una città che lasciando il pomeriggio si inoltra nella sera.

Tutto inizia con “Prop” nel quale si sentono piacevoli momenti chitarristici anche abbastanza lunghi e parole che sfortunatamente non si distinguono molto bene, che diventano malinconiche ma con molti punti di forza nel secondo brano “Hassan”. “Malibù” invece si presenta molto Pop-Rock nella sua concezione romantica, “cercherò un po’ di sonno per aver visione ancora di te” che si trasforma in un lungo testo fatto di rimpianti in “Hermione”. Nel penultimo brano “Montmartre” ancora tanti i momenti e le sfumature rock in un impasto sonoro molto molto piacevole, che però si rinchiude nella struttura un po’ ripetitiva (dei brani) e nella vocalità che dovrebbe lasciarsi andare. “12.13” è il brano che chiude l’album e nel quale troviamo ancora una volta una percezione malinconica del mondo “non mi accorgo del rumore che conosco, diventa buio davanti a me, guardo avanti e non vedo niente”, tutta plausibile dati i tempi che corrono in Italia soprattutto per i giovani e in maniera particolare per la musica.
Un album quello dei Morfema nel quale si sente l’amore per la dimensione live, come loro stessi sottolineano nella loro brevissima biografia. Infine quindi potrei dire che Tutto Bene Sulla Terra? è un primo lavoro soddisfacente, che però manca di inquadrature testuali e marchi vocali nei quali immedesimarsi totalmente. Sperando che con il tempo questi elementi si possano trovare nei lavori futuri e noi gliel’auguriamo.

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Il Silenzio Degli Astronauti – Moments of Inertia

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Tra le influenze che i ragazzi de Il Silenzio Degli Astronauti citano sulla loro pagina Facebook si possono leggere God is an Astronaut, Godspeed You! Black Emperor, Mogwai, Pink Floyd. Il loro primo disco Moments of Intertia (5 brani per quasi 40 minuti di musica strumentale in gran parte onirica e cullante) pesca a piene mani dal repertorio Post-Rock internazionale, dall’opener “It Doesn’t Matter What we Fought” fino alla lunga, conclusiva, sospesa “Clouds Are Indifferent”. Una chitarra, un basso, una batteria, uniti a ricamare, con semplicità e pazienza, lenti crescendo, aperti soundscape suonati (niente – o quasi – elettronica e pochi, oculati effetti) con una naturalezza e una consapevolezza quasi artigiane.

Il Silenzio degli Astronauti, come da monicker, ci prende per mano per trascinarci verso l’orbita, dove la gravità ci abbandona lentamente, per lasciarci ondeggiare e vagare nello Spazio, scuro e luminoso insieme, così vuoto eppure così prepotentemente gonfio di significati, significati da cercare nel silenzio: un silenzio riempito solo dagli intrecci vibranti di una chitarra, un basso, una batteria.

Moments of Inertia non inventa niente, non rielabora granché, non scopre nulla: regala poco più di mezzora di volo nel buio assoluto e silente. Ma se (come me) apprezzate l’immaginario stellare, cosmico, spaziale di un Vuoto da riempire con gli abissi della mente, andate a farvi staccare il biglietto per il vostro personale razzo extraplanetario e seguite Il Silenzio degli Astronauti. Il disco è in ascolto gratuito su Soundcloud: fateci un salto e fateci sapere.

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Mogwai – Les Revenants Soundtrack

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Non poteva che essere una band post-rock scozzese, abituata alle suggestioni paesaggistiche delle brughiere delle Highlands, a curare la colonna sonora di una serie televisiva come Les Revenants. La fiction è stata ideata da Fabrice Gobert ispirandosi all’omonimo film di Robin Campillo ed è andata in onda in Francia su Canal+ lo scorso autunno: è stato successo immediato, tanto che si sta già scrivendo il sequel che uscirà oltralpe probabilmente nel 2014. Non è dato sapere se e quando verrà trasmessa anche in Italia. La storia si sviluppa attorno a un paesino montuoso dalle imprecisate connotazioni geografiche: in un’atmosfera alla Twin Peaks i morti tornano in vita e convivono coi vivi come nulla fosse successo, o quasi. Niente a che vedere con l’immaginario splatter della collega The Walking Dead, per citarne una, Les Revenants è una sottile indagine psicologica individuale sul rapporto tra la vita e la morte, tra l’illusione dell’immortalità e la paura della finitezza umana, a cui si sovrappongono storie d’amore, conflitti generazionali e inquietudine esistenziale.

Una tavolozza di emozioni, così varie seppur sempre in una gamma cromatica fredda, che i Mogwai hanno avuto di che sbizzarrirsi per la realizzazione di questa soundtrack: fedelissimi a loro stessi (e quindi rigorosamente strumentali e straordinariamente eterei), gli scozzesi giocano con timbri, ritmi e ispirazioni, dalla classica – richiamata dall’impiego del violoncello- in “Hungry Face”, all’elettronica di “This Messiah Needs Watching”, dall’etereo impiego di scale diatoniche in “Kill Jester” all’ Indie-Rock più immediatamente riconoscibile di “The Huts”, dallo xilofono di “Fridge Magic”, che dialoga con basso e chitarra attraverso dissonanze stravinskijane, al Country cantato (fatto più unico che raro per i Mogwai) di “What Are They Doing in Heaven Today”, che prende a larghe mani dalla lezione cantautorale americana. Un disco che sicuramente si farà apprezzare anche da coloro che non hanno avuto modo di immergersi nella vicenda narrativa di Les Revenants e che ben si inserisce nella produzione dei Mogwai.

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ELF – I Hate You Everybody Ep

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ELF, al secolo Samuele Palazzolo, polistrumentista “da camera” (da letto, ossia: progettini autoprodotti, autocomposti, autosuonati) si circonda di fidi compagni di viaggio per spararsi il trip da fungo allucinogeno nel bosco liquido di chitarre scarne, ritmiche ondeggianti, synth umidi e rumoristi. Lo fa in un ep, I Hate You Everybody, che, con solo 3 canzoni (“I Hate You Everybody”, “Involution”, “The Pavement is Full of Stars Stars Stars”), riesce degnamente a presentare i soundscapes interiori dell’elfo in questione: post-rock e shoegaze in prima fila, tutta una giungla di suoni (fischi, distorsioni, voci nascoste, campanelli) sullo sfondo. Ci vorrebbe più attenzione alle linee vocali (distraggono senza regalare nulla in cambio, anzi: a volte scivolano nella parodia, loro malgrado) e più coerenza ideale (raccontaci qualcosa, ELF!).

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